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Da pochi giorni, a Milano, è nata la prima Smart Library. 

Si tratta di una vera e propria biblioteca, che si trova all'interno della fermata di Porta Venezia della metropolitana. 

Vista dall'esterno potrebbe ricordare un po' una di quelle macchinette per le fototessere e, invece, si tratta di una biblioteca connessa direttamente con il sistema bibliotecario milanese. 

Quindi, chi ha la tessera può andare là e prelevare direttamente uno dei titoli. 
In questo momento ce ne sono circa 400 a disposizione ma probabilmente in futuro aumenteranno. 

Si tratta di un esperimento ma, se avrà successo, sicuramente si diffonderà. A Milano ma, io spero, anche in altre città d'Italia. 
Sogno di poter usufruire un giorno di una Smnart Library nella metropolitana di Torino.
C'è una cosa che non ho mai raccontato del mio Erasmus.
Stonava troppo con il resto della storia. Non c'erano risate. Non c'era follia. In fondo, non c'era neanche Berlino.

Un giorno d'autunno Elisa, la mia amica romana, ed io incrociammo altre due ragazze italiane.
Io non conoscevo loro. Loro non conoscevano me. E, dopo quel giorno, non le avrei più riviste.
Una era di Milano, ricordo solo questo.

"Hai sentito che sta succedendo a Torino?" chiese questa ad Elisa.
"No, cosa?"
"Un disastro. Un'alluvione. Hanno interrotto l'autostrada con Milano. Torino è isolata", disse con una certa morbosa eccitazione.

-Torino è isolata- mi rimbombò nella testa.

La mia città era sola.
La mia famiglia si trovava immersa nell'acqua fino al collo.
E io, come una stronza, stavo a Berlino.

Non dissi una parola. Non so che faccia feci. Ma riuscii a zittire l'eccitata milanese che, guardandomi, si bloccò.
"Tu di dove sei?" mi chiese infine, quasi sottovoce.
"Torino"
"Vedrai che... vedrai che si aggiusta tutto"

-Si aggiusta tutto-
Non avevo internet, non avevo la televisione. Torino affogava e io non ne sapevo un cazzo. Corsi a chiamare i miei e, il giorno dopo, feci incetta di tutti i giornali italiani che riuscii a trovare.

Volevo sapere. Dovevo sapere. 

Seppi.
La mia famiglia stava bene. La mia città un po' meno.
Quei giorni furono gli unici in cui desiderai tornare indietro. Desiderai stare con i piedi nel fango e l'acqua fino al collo. 


"Va tutto bene, stai tranquilla. Goditi quest'esperienza e smettila di preoccuparti!" mi dicevano da casa.
Io un po' gli credevo e po' no.
Non parlai d'altro per giorni, nella costante ricerca di chetare il senso di colpa dato dal privilegio, dalla sicurezza, dall'ingiustizia del caso che mi voleva salva.

L'emergenza in città durò poco. Il mio Erasmus proseguii come sapete.

Ma ogni volta che in Italia la catastrofe si ripete. E si ripete sempre. Io penso a quel giorno.
Penso a quelli sotto l'acqua.
E penso anche a quelli all'asciutto. Quelli fortunati. Quelli stronzi che, però, preferirebbero stare con i piedi nel fango. Costretti, come sono, ad osservare impotenti la propria terra che annega. Senza neanche l'amara consolazione di poterla vegliare.

Questo è solo un piccolo, insignificante, privilegiato punto di vista. Ma è il mio. L'unico che possa raccontare.
Lampedusa, 3 ottobre 2013

Amore mio,
mia adorata Chara,
mia bellissima giovane moglie.

Quando ti ho salutato hai messo le tue mani sul mio viso e hai appoggiato la tua fronte contro la mia.
"Tornerai a prendermi?" mi hai chiesto.
"Tornerò" ti ho giurato.

Chara, dolcissimo amore mio, penserai che non ho mantenuto la mia promessa. Penserai che sono un marito infedele. Penserai che non ti amo abbastanza.

No. Non pensarlo. Non pensarlo neanche per un attimo.

Ho freddo e il mare si chiude sopra di me.
Ho freddo e mi scalda solo il pensiero di saperti al sicuro. Di saperti viva.

Tornerò Chara, tornerò dopo che avrai vissuto una lunga vita felice.
Tornerò per camminare con te. Tornerò per accoglierti.

Tu perdonami. Perdonami per non essere stato abbastanza forte. Ma giuro che ci ho provato. Ci abbiamo provato tutti.

Vivi, Chara, vivi anche per me.
Chi conosce Berlino conosce il Tacheles.
La casa dell'arte che per più di vent'anni ha ospitato il lavoro, il sudore e la passione di artisti provenienti da tutto il mondo.
Il centro sociale sempre aperto a chi voleva esprimersi e a chi aveva solo voglia di curiosare. Ai turisti e agli appassionati. Ai berlinesi e a tutti gli altri.


Il Tacheles è stata un'istituzione della Berlino post muro. Testimonianza di una mentalità aperta alla creatività e all'espressione del proprio essere. Cuore pulsante di una città curiosa ed in continuo movimento.

L'altro ieri la Kunsthaus è stata ufficialmente chiusa. La Polizia ha mandato via tutti. Gli ultimi artisti hanno salutato lo spazio speciale, che per tanto tempo li aveva ospitati, con un'ultima rappresentazione: un'orazione funebre in onore di un posto unico che ormai non c'è più.

L'arte comunque non muore mai. E non smette di parlare alle coscienze ed alle anime. Le opere, le installazioni e le mani che le hanno create troveranno altri luoghi, a Berlino o chissà dove.

Ma questo mondo sarà un po' più triste, grigio e soprattutto noioso senza il Tacheles.
Gli azzurri hanno portato Bovolenta sul podio.
Un bronzo che vale molto di più.


In Italia il 70% dei ginecologi è obiettore di coscienza. Si rifiuta di praticare l'aborto.
Perché? Sono stati tutti illuminati sulla via di Damasco? Ma quando mai!
Semplicemente in Italia fare determinate scelte aiuta la carriera. Comportarsi in un determinato modo negli ospedali pubblici spalanca le porte dei primariati. Svolgere determinate pratiche nelle cliniche private riempie i portafogli e salva le apparenze.

Poco importa che le donne di fronte ad una delle decisioni più difficili della propria vita si ritrovino sole.
Poco importa che in questo paese viga una legge al riguardo. 

Non conosco nessun ginecologo che ami praticare un aborto. Non è mai un intervento piacevole ma c'è comunque chi lo fa. Quel 30% di professionisti non ha più pelo sullo stomaco rispetto agli altri, ma semplicemente maggiore consapevolezza dei propri doveri. Quel 30% di professionisti sceglie di prendere sulle proprie spalle il peso di un lavoro ingrato. Perché i pazienti non devono essere lasciati da soli. Mai.

E allora, giovani medici in cerca di una specialità, è a voi che parlo.
Non volete praticare aborti?
Non ve la sentite?
La vostra religione non lo permette?
O temete che farlo ostacolerebbe la vostra carriera e, dopo tutti questi anni di studio, chi se ne fotte di ste ragazzine che non hanno ancora imparato a tenere le gambe strette?  O di ste donne che semplicemente non se la sentono? Chi se ne fotte? Non sarà mica un problema vostro, no?
Giusto. Non deve essere necessariamente un problema vostro.

Quindi: fate altro.
Fate i pediatri, i neurologi, i cardiologi, gli anatomopatologi, i medici legali, gli oftalmologi, gli ortopedici, fate quello che vi pare. Ma non i ginecologi. Fate un favore alla società e un servizio al camice che portate. Ridate dignità a un mestiere che meriterebbe più rispetto da parte di tutti, e in primo luogo da parte di chi lo pratica.
I ginecologi devono, nel caso sia necessario, praticare aborti.

Chi ha paura dei pazzi non fa lo psichiatra.
Chi ha paura del sangue non fa il chirurgo.
Voi siete obiettori di coscienza? Non fate i ginecologi.
Avete scelto comunque di fare i ginecologi? E allora fate il vostro dovere.
E risparmiateci le lezioni di morale, siete gli ultimi a poterle dare.
Pancrazia ama Pancrazia. Ciccio ama Ciccio. Le combinazioni possono essere infinite. Il sentimento è lo stesso.
Studenti in piazza a Cagliari. Maggio 2011
17 maggio: Giornata Internazionale contro l'Omofobia e la Transfobia.
Rossella Urru è stata rapita dal campo profughi Saharawi di Rabuni la notte tra il 22 e il 23 ottobre scorsi. Insieme a lei sono stati presi anche due cooperanti spagnoli: Ainhoa Fernandez de Rincon e Enric Gonyalons.

Rossella lavora da due anni in Algeria, coordinando un progetto che si occupa di rifornimenti alimentari nel campo, con particolare attenzione ai bisogni specifici di donne e bambini.
Lei è laureata in Cooperazione Internazionale con una tesi proprio sul popolo Saharawi.
Non è una sprovveduta. Ha trasformato la sua grande passione, la sua grande voglia di fare, in un lavoro difficile, pericoloso ma estremamente utile, che sicuramente la riempie d'orgoglio e soddisfazione.

Io di Rossella so questo e poco altro, come tutti voi del resto.
Ma, guardando le sue foto, ho cercato di intuirne il carattere e i sentimenti. Guardando quelli occhi neri come pozzi e quel sorriso sereno, ne ho percepito l'amore per la sua missione, l'entusiasmo e la voglia di mettersi in gioco, darsi da fare, fare ciò che si deve, senza tanti fronzoli. Semplicemente.

Rossella sembra una ragazzina ma è una donna. Una donna in gamba rimasta vittima, come tanti altri, dei giochi di potere, delle battaglie intestine di una terra mai pacificata.

Per mesi in Italia non si è più parlato di lei. I media l'hanno ignorata. La sua era una notizia noiosa, senza pruriginosi particolari o risvolti macabri. Ma negli ultimi giorni, per fortuna, il silenzio si è fatto meno assordante e le voci hanno cominciato a levarsi.
Le nostre sono voci flebili e nulla possono sul piano internazionale. Ma sono voci sincere e decise che vogliono alzare l'attenzione, vogliono mandare un messaggio di affetto fino al deserto e, semplicemente, vogliono far sentire la famiglia di Rossella meno sola.
Noi ci siamo, siamo con voi, siamo orgogliosi di questa donna che ci rappresenta con il sorriso e la concretezza.
Liberate Rossella. Sono in molti ad avere bisogno di una donna come lei. Noi, la sua famiglia, e i profughi Saharawi.

Questo post rientra nell'iniziativa Blogging Day per Rossella Urru.
I miei lettori più antichi e attenti se ne ricorderanno: nel mio passato, ricco di ex fidanzati e grandi amori, fa bella mostra di sé una relazione durata quattro anni con un ragazzo tedesco.

Fin da subito io venni accolta con affetto e gentilezza da tutta la sua famiglia. Dalle sue bellissime sorelle, dalla sua timida madre, e dal suo esuberante padre. Da tutti, anche dai suoi nonni. I nonni paterni.

Herbert ed Edeltraut avevano entrambi i capelli candidi, gli occhi trasparenti, e la pelle sottile e stropicciata.
La signora Edeltraut vantava i medesimi difetti di tutte le nonne del mondo. Era impicciona e sempre troppo ansiosa. Io le piacevo perché ero ordinata, educata e non chiassosa. Inoltre ero amata dal suo nipote preferito, e ciò bastava a pormi ad un livello superiore, dotata di chissà quali peculiari virtù.
La signora Edeltraut era gentile ma non particolarmente simpatica.

Nonno Herbert invece era spiritoso e pieno di vita. Quel genere di uomo anziano che dice alla moglie bacchettona "Lascia in pace i ragazzi, sono giovani!"
Il suo sogno era un viaggio in moto oltre confine a ritrovare il proprio borgo natio, situato ormai in territorio polacco.

La prima volta che lo incontrai mi disse: "Sei di Torino? Io sono stato a Torino" "Davvero?" "Sì, tanto tempo fa, durante la guerra."
Me lo disse vestendo il suo completo di lino bianco sotto un caldo sole estivo. Non aggiunse altro ed io cambiai discorso imbarazzata.

Nonno Herbert mi accolse nella sua famiglia con slancio. Io divenni la sua quinta nipote e lui divenne il mio quinto nonno. Quando venne a mancare lo piansi come avevo pianto gli altri e, ancora adesso, penso a lui come penso agli altri.

Mi piacerebbe raccontarvi che fu un eroe, che nascose un ebreo in cantina o che si oppose al regime. Ma mentirei. Il mio quinto nonno visse quella Germania accettandone e condividendone le regole. Ed io ho accetto di amarlo nonostante questo.
Non ci sono giustificazioni. Non ci sono spiegazioni. Non gliel'ho mai chieste. Non sarebbe stato in grado di darmele.
Esiste sempre un'alternativa, seppur dolorosa e difficile, lui semplicemente non la scelse.

Nonno Herbert mi ha insegnato che le persone normali, le persone gentili, le persone simpatiche possono rendersi complici di terribili nefandezze. Ed è anche per questo che noi tutti, noi normali, noi gentili, noi simpatici, noi "che al posto suo non l'avremmo mai permesso", dobbiamo continuare a ricordare l'orrore ogni anno e ogni giorno.

Chiunque può caderci, chiunque può decidere di chiudere gli occhi, per proteggere i propri cari, per proteggere se stesso o semplicemente perché è molto più facile.

Ognuno di noi deve vigilare sugli altri e soprattutto su di sé. Ogni giorno deve essere il giorno della memoria.
Gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà.
Sciascia, ne "Il giorno della civetta", divideva impietosamente l'umanità in cinque categorie.


Che vergogna.
Non avrei potuto desiderare un compleanno migliore. Oggi, appena sveglia, ho ricevuto la notizia della felice conclusione della vicenda di Hambtamu. Ritrovato sano e salvo alla stazione di Napoli.
Un bellissimo tredicenne imbarcatosi in un'avventura più grande di lui che, per fortuna, è stato rintracciato e riportato dalla propria famiglia.

Caro Hambtamu,

ti parlo come parlerei a mio nipote.
Ti parlo come forse un giorno, quando sarà anche lui un piccolo uomo, dovrò parlargli sul serio.

La tua confusione è figlia della tua età e della tua storia. Il tuo desiderio è legittimo e comprensibile. Ma non sottovalutare mai più chi ti ama come ti ama la tua famiglia.
Non conosco i tuoi genitori ma conosco la loro storia. Conosco la tua storia. Conosco la nostra storia. Ed è per questo che sono certa che la tua mamma ed il tuo papà sono pronti ad ascoltarti, appoggiarti ed accompagnarti lungo il tuo viaggio.

Non aver paura di chiedere aiuto, chi ti ama è in grado di sorprenderti.

Con affetto,
la tua amica Pancrazia
Non ci posso credere.
Risale a solo una settimana fa il post in cui ricordavo Francesco Azzarà e la sua condizione di sequestrato. Post in cui mi ripromettevo di riprendere questa vicenda almeno una volta a settimana: in modo da poter, nel mio piccolo, mantenere viva l'attenzione.

Oggi avevo intenzione di scriverne ancora. Volevo dare il giusto risalto al commento lasciatomi da Ross e segnalarvi anche ciò che aveva scritto Lumaca a 1000 sul proprio blog.
E invece, a quanto pare, non ce ne sarà bisogno.

Francesco è stato liberato!
Qua si piange, si ride e ci si autoconvince di portare un po' fortuna.
Africa che tutti ha fatto nascere, anche noi, sbiaditi dal tempo e dalla nebbia.
(letteredalucca.wordpress.com)

In una rete dove a dominare sono i social network, con la comunicazione stereotipata di facebook o quella creativa ed essenziale di twitter, sembra esserci sempre meno spazio ed attenzione per i blog. Troppo dispersivi. Troppo impegnativi. Troppo faticosi da leggere e da scrivere.

Poi però trovi un post di una penna felice e un'anima grande. Di una donna che mi onoro di conoscere, anche se solo attraverso la sua scrittura, e che spero un giorno di poter incontare per guardarci occhi negli occhi e raccontarci anche a voce.

Il giorno dopo la follia che è accaduta a Firenze Lucia ha scritto un post che è un gioiello e che vi farà comprendere perché lei "mi garba " così tanto.
A Firenze, il giorno dopo.
Una bugia. Una scusa. La rabbia. Il fuoco.

Non ci sono vittime, per fortuna.
Ma ad uscirne ferita è una città che brucia e si divide tra chi comprende e giustifica, e chi non ha più parole per esprimere la propria incredulità.

Io non trovo le parole nel presente e così le ricerco nel passato. Le ricerco in un vecchio racconto che scrissi una vita fa in occasione di un concorso di beneficenza. Una storia nata dall'elaborazione e le suggestioni di una vicenda raccontatami da altri, e di un'esperienza vissuta in prima persona.
Il primo vero racconto che io abbia mai scritto. Un racconto ingenuo, il cui stile ora sento appartenermi poco. Ma i cui sentimenti ancora riconosco. Quelli sono i miei. Sono ancora vivi dentro di me e bruciano. Bruciano nel cuore e negli occhi.

                      L’ultimo giorno di scuola.

Oggi è l’ultimo giorno di scuola e si è appena conclusa la recita di fine anno.
Bambini e genitori si riversano rumorosi e allegri nel giardino. C’è Lucia con la maglia piena di brillantini e i codini trattenuti da fiocchetti rosa. C’è Marco con le mani sporche di colori ed i capelli a scodella. C’è Justine con la pelle di cioccolata e il sorriso di vaniglia. C’è Peter che corre in tondo e non si fa acchiappare mai.
E poi ci sono loro: Gabriele ed Eric, due bimbi stretti stretti in un abbraccio. Da domani non si vedranno più, la scuola materna è finita.

Gabriele è nato una calda mattina di giugno.
La clinica aveva muri imbiancati da poco, lenzuola fresche di bucato ed un parco verde e rigoglioso tutt’attorno. Lui aveva la pelle chiara e i capelli color oro.
Gabriele era un bambino piccolo e gracile che si ammalava spesso. E quando iniziò a camminare, e poi anche a correre la situazione peggiorò. Correva per gioco dietro agli altri bimbi o al gatto della vicina. Correva e rideva ma poi di colpo era costretto a fermarsi. La gola gli si faceva stretta ed il posto delle risate era preso da una tosse forte, terribile che sembrava non finire mai.
Lui era fragile, troppo fragile per poter avere una vita uguale agli altri. Niente asilo nido, “Attento! Non correre!”, niente giochi nei parchi, “Attento! Non correre!”, nessun luogo affollato, “Attento! Non correre!”.
Ma in quel corpo di carta velina erano imprigionate una mente brillante ed una personalità vivace. Troppo vivace per poter essere trattenuta.
Non bastavano più le favole ed i racconti a saziare quegli occhi curiosi e quelle orecchie attente. I genitori dovettero arrendersi alla fame di vita del loro piccolo eroe.
Gabriele cominciò finalmente l’asilo.
Le maestre lo definirono subito "sopra la media".

Eric è venuto al mondo una fredda notte d’inverno.
La sua giovane madre non fece in tempo a correre all’ospedale ed il piccolo nacque nella roulotte di famiglia, mentre la pioggia scrosciante spazzava il Campo.
Lui era un neonato grande e robusto, con la pelle scura, folti capelli color del carbone ed occhi grandi e neri da perdercisi.
Visse gran parte del primo anno in braccio alla madre, avvolto in una fascia colorata. Mentre andavano in giro per le strade della città, lui veniva cullato dolcemente dall’ondeggiare dei fianchi di lei, ancora troppo piccolo per capire cosa significassero la mano tesa della donna e gli sguardi di disapprovazione dei passanti.
Una mattina degli uomini in divisa vennero a prendere sua madre al Campo. Lui stava giocando in mezzo alla polvere con i cuginetti, ma quando la vide allontanarsi le corse dietro. Lei si fermò, lo prese in braccio e lo portò con sé.
Nel nuovo mondo che li attendeva non c’erano più il cielo azzurro e la libertà, ma muri, sbarre e regole da seguire. Non c’erano più i giochi del papà e le nenie della nonna ma visi sconosciuti e sguardi ostili.
Il bambino smise di ridere e di parlare.
Ogni giorno che passava il suo mutismo si faceva più ostinato e lo sguardo più rabbioso. Le sue manine si chiusero a pugno, sempre pronte a colpire chi si avvicinava troppo. La sua mente ed il suo cuore si negarono a chiunque cercasse di avvicinarsi.
In gabbia lui divenne selvaggio e cattivo. Secondo alcuni divenne perfino stupido.
Eric, come vuole la legge, rimase in carcere con la madre fino al compimento del terzo anno di età.
Il primo giorno di scuola materna venne catalogato come "un po' indietro".

Un pomeriggio nel cortile i due si trovarono per caso l’uno accanto all’altro.
"Vuoi giocare con me?”
"Si.”

Due bambini così diversi s'incastrarono perfettamente.
Eric comprese la fragilità di Gabriele.
Lo aiutò a rialzarsi dopo ogni caduta, inventò giochi più tranquilli per quando l’altro era troppo affaticato, lo protesse dai dispetti dei compagni, lo affiancò nelle mille folli avventure che inventarono.
Gabriele si accorse delle difficoltà di Eric.
Prese a spiegargli le cose con una pazienza che nessun adulto riuscirebbe mai ad avere, lo aiutò con discrezione e rispetto, lo accompagnò passo per passo nelle scoperte delle cose straordinarie che gli stavano attorno e delle potenzialità infinite racchiuse dentro di sé.

Oggi è l’ultimo giorno di scuola.
Due bimbi si abbracciano stretti stretti.
Uno adesso è più forte e sicuro, conosce la bellezza di un gioco all’aria aperta e di uno sguardo d’intesa con un amico. L’altro ora ha riaperto la mente ed il cuore, ha ripreso a ridere ed è ogni giorno più sveglio e curioso.

Oggi è l’ultimo giorno di scuola.
Due bimbi si abbracciano stretti stretti.
Da domani non si vedranno più, la scuola materna è finita.
Uno a settembre comincerà le elementari vicino a casa dei nonni, l’altro tornerà al Campo e poi chissà.

#torinoburning su twitter
Ormai è da parecchio tempo che espongo la sua foto sul mio blog.
Francesco Azzarà è stato rapito lo scorso 14 agosto. Oggi è l'8 dicembre e sulla sua sorte è sceso ormai da mesi un pericoloso e preoccupante silenzio.
Per questo motivo ho deciso che, d'ora in poi, ogni settimana dedicherò un post a questo operatore di Emergency scomparso.
Nel mio piccolo, piccolissimo, spero di mantenere accesa una fragile fiammela su questa oscura faccenda. E so che i miei pochi, affezionati e sensibili lettori, nei limiti delle loro possibilità, cercheranno di fare da cassa di risonanza in rete e fuori.

Liberate Francesco.
Franca è una donna normale di 64 anni, nata ad Alcamo il 9 gennaio del 1947.
Una donna con un passato difficile, combattuto e sconfitto grazie ad una volontà  fuori dal comune e ad una famiglia straordinaria alle spalle.
Una donna con un presente sereno e normalissimo che si sorprende ogni volta che la sua storia torna d'attualità e che qualcuno parla di lei come di un'eroina, un simbolo.

Franca aveva solo 17 anni quando il destino le riservò il trattamento barbaro che in quei tempi riservava a molte giovani donne italiane. Venne rapita dal suo corteggiatore respinto.
Rapita e tenuta ostaggio per una settimana.
Rapita e violentata.

In quell'Italia così lontana eppure vicinissima questa era un'usanza socialmente e penalmente accettata. La donna non ti voleva? Tu la rapivi, la stupravi e poi lei era costretta a sposarti. Il matrimonio cancellava il reato del carnefice e la vergogna della vittima.
Colpa e vergogna, perché se non eri più vergine eri disonorata. Sporca. Intoccabile. 

Franca disse no. Disse no al suo violentatore. Forte di un grande carattere, e dell'appoggio incondizionato della propria famiglia e del legittimo fidanzato.
Franca è stata ed è una donna straordinaria, circondata da uomini straordinari, che l'hanno sostenuta contro le minacce e il dileggio. Il "cornuto" ha sopportato le risate di scherno dei paesani. Il padre della svergognata ha visto andare letteralmente in fumo una vita di lavoro ma non ha ceduto di un passo.

La vicenda si concluse con un matrimonio, quello tra Franca ed il suo legittimo fidanzato, ed una condanna a 12 anni di carcere per il suo stupratore.

Perché vi ho raccontato la storia di Franca Viola?
Forse perché oggi, 25 novembre, è la giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza contro le Donne.
Forse per le storie che arrivano dall'Egitto in questi giorni. Una su tutte, ma non l'unica, quella di Mona.
Forse perché il padre di Franca Viola, povero ed ignorante ma dignitoso e intelligente, avrebbe ancora così tanto da insegnare a tutti noi.

O forse semplicemente perché questa vicenda mi emoziona ogni volta che ci penso ed era da molto che volevo condividerla con voi.
Ormai i blog sono superati, non è vero?
No, non è vero.
Perché l'informazione e la condivisione costruttiva non potranno mai essere concetti superati.

Due esempi su tutti:
  • La testimonianza sincera e appassionata di Ross  dalla Val di Susa. Una blogger senza fronzoli racconta quello che in tv o sui giornali non ci racconta nessuno;
  • ed un post che per un attimo toglie l'aria dal petto, Mi chiamo Luca ed ho 6 anni. di S.B. 
Buona lettura.
Ariecchime, sono di nuovo qua.
Lo so cosa state pensando: "A questa le dai una mano e si prende tutto il braccio"
"Ha scoperto il fascino dei riflettori e ora non ce ne liberiamo più"
"Il prossimo anno, minimo minimo, ce la troviamo all'isola dei famosi, 'sta fanatica!"
E invece no!
Razza di carogne malfidate!
La mia presenza qua è giustificata. Giustificatissima.
E' vero che avrei potuto usare il mio spazietto, la mia cuccia, la mia bellissima colonna laterale ma questo è un argomento importante, non volevo vi sfuggisse e quindi ho scelto di invadere nuovamente il centro della scena.
Non temete non sarà un'abitudine: supereroe ed alter ego devono condurre, per definizione, vite separate ma in alcuni rari, rarissimi casi è giusto fare delle eccezioni.

Questo, ovviamente, è uno di quei casi: "L'emergenza sangue estiva."
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