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Tutta la famiglia si muoveva all'unisono, i piedi calzati in scarpe eleganti sulla pavimentazione lisciata dal tempo. 

Il sole tardivo di settembre si mostrava più vivace del solito, tanto che la madre si copriva il volto con un cappellino orlato di pizzo d'Orleans e un vezzoso ombrellino teso da stecche di balena. 

"Emma, abbassa la falda del cappello" suggerì la nutrice alla figlia che, un metro avanti a lei, avanzava a falcate tanto ampie quanto nervose. "Non vorrai le lentiggini sulle gote?". 
"Mamma, ti prego, non è il momento" sbuffò la giovane donna. 
"Lasciala in pace" sogghignò il padre. "La nostra bimba ha ben altri pensieri oggi" e, presa sotto braccio la consorte, la costrinse ad accelerare il passo per stare dietro le lunghe leve della ragazza. 

Arrivati davanti all'istituto, un inserviente venne loro incontro, "Prego, signorina, la stanno aspettando". Ed Emma, lanciato un ultimo sguardo a genitori e fratelli, varcò l'uscio per poi sparire, immediatamente inghiottita da un gruppo di abiti scuri e baffi a torciglione. 

Il percorso fino a quel momento era stato lungo e impegnativo ma Emma, un passo dopo l'altro, aveva raggiunto tutti gli obiettivi prefissati, fino all’ultimo. Lei, a differenza, della maggior parte delle sue coetanee aveva goduto e godeva dell'appoggio incondizionato della sua famiglia. Di suo padre, su tutti. Suo padre che la portava ai cantieri e che trattava lei come i suoi fratelli. Padre che credeva in lei, nella sua intelligenza, nella sua capacità di raggiungere ogni meta, a dispetto di tutti, prima di tutte. 

La famiglia, dopo aver salutato l'avvocato Palmieri e il dottor Valli, genitori di due dei colleghi di Emma, prese posto sugli scranni centrali. Tutti in fila, padre, madre e fratelli, attendevano emozionati il gran momento. 

La commissione togata entrò poco dopo. La sessione iniziò. Uno dopo l'altro gli studenti presentarono la propria tesi. Quando fu il turno di Emma, il padre e la madre si tennero per mano, gonfi di orgoglio. I fratelli sorrisero tutto il tempo, compiaciuti dal successo raggiunto dalla ranocchietta che, fin da piccola, li seguiva ovunque, non volendo mai essere lasciata indietro. 

"Signorina Emma Strada", si sentì al momento della proclamazione "la commissione, considerato il curriculum degli studi da Lei compiuto e valutata la tesi di laurea, attribuisce alla prova finale la votazione massima". Un momento di esitazione. "Per l’autorità conferitami la proclamo Ingegnere Civile". 

E, dalla platea, furono applausi eleganti ma calorosi. 

Lei strinse la mano alla commissione e ai colleghi, poi si girò a sorridere al padre. Che orgoglio.

Emma Strada – figlia di Ernesto Strada, ingegnere abile e uomo progressista –, il 5 settembre del 1908, presso l’Istituto Superiore Politecnico di Torino, venne proclamata ingegnere. Massimo dei voti, terza del suo corso, fu la prima ingegnere donna d'Italia e una tra le prime d'Europa.
La figura di Lidia Poët ultimamente è diventata molto popolare grazie a una serie su Netflix ma, non per darmi delle arie, io le dedicai un racconto più o meno un paio di anni fa. Quel che si dice: precorrere i tempi!

Eccola la storia di Lidia secondo me: 

"È successo, è passata!" gridò Luisa, la nipote prediletta, precipitandosi nello studio di zia Lidia. "Quanta agitazione" commentò la donna, sfilandosi gli occhialini che portava in bilico sulla punta del naso. 
"Ma non sei contenta? È una vita che aspetti che questa ingiustizia sia sanata". 
"È vero" sorrise la donna, "ma che io sia dannata se gli darò la soddisfazione di vedermi agitata. Agitate, umorali, troppo sensibili, a loro piace vederci così, come dei cuccioli iperattivi da vezzeggiare, sgridare e, soprattutto, tenere al loro posto"
"Capisco ma da oggi il tuo posto sarà quello che ti compete, finalmente"
"Vero cara, non avrei potuto dirlo meglio… e ora stappiamo lo spumante che ad esser compassata ci penserò domani!"

Il giorno dopo dallo studio dell'avvocato Poët, fratello di Lidia, partii una piccola spedizione – formata da parenti, amici e nipoti –, alla cui testa camminava spedita Lidia stessa, elegante, con i capelli perfettamente acconciati e un filo di perle a sottolinearne la femminilità. 

Il segretario alzò lo sguardo stupito quando vide presentarsi davanti allo sportello quel gruppo vario e numeroso. 
"Desidera?" chiese a Lidia. 
Lei, tirando fuori dalla borsa tutti i documenti che sapeva necessari, si limitò a dire: "Nulla, solo il posto che mi spetta", provocando l’ilarità dell’affezionata nipote. 

Era il 1919 e Lidia Poët, all'età di 65 anni, poteva finalmente rientrare e, questa volta, rimanere nell'Ordine degli avvocati. 

Laureatasi a Torino il 17 giugno 1881, svolto il praticantato e superato l’esame di abilitazione alla professione forense, Lidia Poët aveva chiesto ed ottenuto l’iscrizione all’Ordine. Prima donna in Italia. Ma veloce com’era stata ammessa era anche stata estromessa, con gran soddisfazione delle voci scandalizzate che, nel frattempo, si erano levate nella penisola e non solo. 

ll Procuratore Generale del Re, infatti, aveva impugnato l’iscrizione della Poët con motivazioni che ora tutti troveremmo risibili. Le donne, tra le altre cose, vennero giudicate troppo pure per mischiarsi con le faccende triviali del tribunale e troppo schiave della moda per mantenere il giusto decoro. E nessuno, allora, giudicò il Procuratore stesso troppo prevenuto per permettersi un giudizio obiettivo. 

Lidia, nonostante l’espulsione dall’Ordine, continuò a fare il suo lavoro, almeno in parte, ad occuparsi dei clienti, redigere documenti, lasciando però che li firmasse il fratello, le cui giacche classiche, ovviamente, non rischiavano di arrecare imbarazzo alla toga. 

Nel 1919, però, la legge numero 1126 ammise finalmente le donne all’esercizio delle libere professioni e Lidia Poët divenne la prima donna d’Italia, iscritta all’Ordine degli avvocati. L’Ordine di Torino, per la precisione. Un orgoglio per lei e per la città.

Oggi inizia una nuova rubrica che andrà avanti fino a quando ne avrò voglia. Perché, in fondo (neanche tanto infondo) il blog è mio è faccio quello che voglio io. 

Comunque, quest'anno ho deciso che, più o meno una volta al mese, prenderò una carta di Dixit e ci scriverò sopra un racconto. O un pensiero, o una poesia, o una microstoria, insomma, qualcosa. 

Per iniziare con molta calma e non farmi prendere dall'ansia di prestazione, recupero una vecchia carta e un vecchio racconto che avevo scritto in occasione del Laboratorio Condiviso di Scrittura.

Come sempre, se va anche a te di scrivere, fatti ispirare e, se vuoi, mandami il tuo racconto da leggere. Ti risponderò con poche righe di feedback. Il mio indirizzo è janecole@live.it.

E ora, ecco il mio racconto:

Pioveva a dirotto quando raggiungemmo il nostro posto preferito: un parcheggio a spina di pesce lungo corso Francia. Se si era abbastanza fortunati da trovare un buco, era la scelta ideale, si stava nascosti in bella vista in una zona sicura. "Eccoci qui" dissi guardandolo dallo specchietto retrovisore. Lui sbadigliò e si stropicciò gli occhi. 
 
Spostatami anch’io sul sedile posteriore, gli slacciai le scarpe e lo aiutai a infilarsi il pigiama, quello in pile che gli avevo comprato per lo scorso natale. "Ormai ti sta corto" dissi con lo sguardo alle sue caviglie nude. 

Poi venne il mio turno di prepararmi: mi tolsi gli stivali e mi rifugiai in un vecchio golfino. Quello marrone. Quello che pungeva. Paolo lo giudicò con il suo broncio bambino ma poi si arrampicò su di me, appoggiando senza esitazione la sua guancia paffuta alla mia spalla ossuta di lana infeltrita. Abbracciati così riuscivo ancora a sentire quell’odore d’infanzia, dolce e pulito, nonostante tutto.

Dietro, con lo schienale tirato giù, c'era posto per tutti e due, e anche per Gino. Il nostro cane di pezza. Ci sdraiammo, avvolti tutti e tre nella coperta, stretti stretti tra due valige e alcune buste. Il lampione illuminava l'abitacolo ma i vetri bagnati ci regalavano l’illusione di uno spazio solo nostro. 

"Hai freddo?" gli chiesi in una carezza. 
"No" rispose con la sua piccola voce. 
"Perfetto, allora dormi, notte tesoro mio" 
"E la storia?" 
"Ma non sei stanco?" 
"No" biascicò col visino stretto tra Gino e me. 
"Va bene" sorrisi nei suoi capelli sottili. "Dove eravamo rimasti?" 
"Carota…" 
"Giusto, Cavalier Carota. Il Cavalier Carota aveva superato il labirinto e, una volta attraversato il corridoio rischiarato solo da alcune fiaccole, era giunto in una stanza. Lì, di fronte a sé, trovò tre porte".

La città attorno a noi si stava addormentando. E Paolo con lei. Solo io ero destinata a rimanere sveglia a lungo, come sempre, cercando la via d’uscita per Cavalier Carota e soprattutto per noi.

Il vecchio Pietro Taccagni stava tornando a casa. 
La città era ricoperta da un sottile strato di neve e l'aria era gelida. 
Ma a lui non importava, dato che il suo cuore era più freddo ancora, così come la sua anima. 

Le finestre dei palazzi svelavano scene di famiglie festose e alberi addobbati. "Che ci troveranno tutti in questa festa?" si chiedeva tra sé e sé l'anziano commerciante. "E che avranno da festeggiare? Più sono poveri e più gioiscono, manica di folli! Il Natale non è altro che un giorno di scadenze quando non s'hanno danari; un giorno in cui ci si trova più vecchi di un anno e nemmeno di un'ora più ricchi!" borbottava, profondamente infastidito dal fatto che, ogni anno, i suoi dipendenti pretendessero di stare a casa per le feste. “Pigri, vogliono fare la bella vita a mie spese!” ringhiava a denti stretti. Poi, lanciando uno sguardo in tralice alla Mole, illuminata da giorni per l'occasione, "Che spreco di soldi e watt!", gridò e prese a camminare reggendosi al bastone. 

Camminò fino a giungere sotto i portici di via Po e fu lì che cominciò una serie di “spiacevoli” incontri.

Per prima cosa vide venirgli incontro Paolo, un cugino con cui aveva condiviso mille giochi d’infanzia. “Pietro!” urlò questi allargando le braccia in un gesto accogliente e poi, cieco e sordo di fronte all’evidente fastidio del vecchio compagno di giochi, gli attaccò un bottone infinito. Parlò a lungo dei bei tempi andati, di quanto dovessero frequentarsi di più, fino ad invitarlo al pranzo del giorno dopo. “Non ci penso neanche”, rispose acido Taccagni. “Per me domani è un giorno come un altro. Io lavoro, non sono mica un vërgnach!” Ma, l’altro, conoscendo bene il caratteraccio del cugino, non si fece abbattere: "Dai, non fare il solito bastian contrari, tutti amano il Natale. Goditi la festa con noi, con la tua famiglia. La mia signora preparerà vitello tonnato, acciughe al verde, agnolotti del plin e bollito misto!" “Tutto questo spreco? Un po’ di semolino in brodo e poi i miei cari libri contabili, ecco come trascorrerò questo Natale. Con l’unica persona interessante che conosco: io! E pensando all’unica cosa che importa: i soldi! Se proprio andrò a trovar qualcuno sarà quel buono a nulla del mio commercialista”, ripose e se ne andò via senza guardarsi indietro. 

Giunto in Piazza Castello, s'imbatté in un mendicante, "Me la dà una moneta, monsù?" gli chiese questi, facendo una riverenza così profonda che la punta del naso quasi gli toccò le scarpe sfondate. "Allontanati, scansafatiche!" lo minacciò il vecchio avaro col suo bastone. Poi allungò il passo per lasciarlo rapidamente alle spalle. Continuò a camminare e lamentarsi, “Tutti questi poveracci che infestano le strade dovrebbero metterli alle Vallette, così stanno al calduccio e smettono di dare fastidio alla brava gente!” 

Attraversando il cuore della città, si sforzò di ignorare le luminarie, maledisse la puzza delle caldarroste e poi, quando pensava di essere finalmente al riparo da ulteriori scocciature, girando l’angolo quasi andò a sbattere contro una giovane famiglia carica di pacchi. La più piccola del gruppo, una bimba avvolta in un candido piumino, ebbe l'ardire di rivolgergli la parola. "Buon Natale signore", disse mentre portava orgogliosa un cabaret di bignole tra le mani. "Buon Natale, signore" ripeté sfoggiando un adorabile sorriso sdentato, ma Taccagni sbuffò sgarbato e si rifiutò di contraccambiare. 

Stufo di tutti quegli incontri, attraversò di corsa il portone e si rifugiò in casa propria. Una volta dentro si mise le pantofole, la veste da camera e un berretto di lana, necessario dato quanto teneva basso il riscaldamento perché “Un po’ di freddo fortifica, il caldo rammollisce e, soprattutto, rende poveri!”

Mangiata una mela cotta del giorno prima si mise comodo sulla sua vecchia poltrona e, dopo pochi minuti, si assopì o almeno si convinse di essersi addormento perché, tutto quello che gli accadde nella mezz’ora successiva, non poteva che essere un sogno. Il più strano dei sogni! 

Era sulla sua poltrona quando venne svegliato da strani rumori che provenivano da ogni angolo della casa. Catene, scricchiolii, porte che sbattevano. 

Taccagni si mosse per tutto l’alloggio tra il terrorizzato e l’indignato, temendo la presenza dei ladri o di qualche sciocco ragazzino in vena di scherzi. Era pronto a chiamare la madama quando, al fondo del corridoio, vide suo cugino. 
“Paolo? Sei tu? Ma che ti prende? Pensi di essere divertente? Come diavolo sei entrato?” più il vecchio faceva domande più il cugino si avvicinava senza parlare. Non camminava, fluttuava con i piedi a qualche centimetro dal pavimento. Non era fatto di carne, era trasparente, un fantasma. Taccagni si aggrappò al bastone e si tenne il petto, temendo di stare per avere un infarto da un momento all’altro, “Chi sei? Cosa sei?” chiese. Fu solo a quel punto che la spettrale figura gli fu accanto e gli sorrise, “Sono il fantasma dei Natali Passati” “Il che?”, ma non ebbe risposta e in un battito di ciglia si trovò altrove. Un altro luogo, un altro tempo. In provincia, dove aveva vissuto da piccolo. 

“Guarda com’eri felice” gli disse il fantasma. E, spiando attraverso la finestra di quella che un tempo era stata la casa della sua famiglia, il vecchio commerciante si rivide da piccino con la sua mamma, la nonna e anche il cugino di cui il fantasma aveva preso le sembianze. 
“È passato tanto tempo”, disse Pietro in un sospiro. “Ero un piccolo sognatore, convinto di sapere tutto ma non sapevo niente. Pensavo di essere felice ma guarda in che catapecchia vivevo, guarda che vestiti logori portavo”. 
“E ora? Ora credi di stare meglio? Ora credi di sapere tutto?” gli disse il fantasma prima di riportarlo indietro.

Taccagni non ebbe neanche il tempo di riprendere fiato che ebbe un nuovo sussulto, accanto a lui non c’era più l’anima di prima ma il senzatetto che aveva incrociato per strada. “Lei che ci fa qui?” gli chiese irritato, ma poi si rese conto che anche i piedi di quest’ultimo non toccavano terra e che pareva fatto di aria e non di carne. 
“Oh cielo, ancora?” 
“Sì, io sono il fantasma del Natale Presente e voglio mostrarti come festeggiano gli altri mentre tu stai ad annoiarti da solo” 
“Annoiarmi? Io...” ma Pietro non ebbe il tempo di ribattere che, in un secondo, si trovò in strada. Con suo grande stupore il fantasma non lo portò in uno di quei palazzi che aveva visto prima, quelli addobbati e luminosi, ma nelle case più modeste, con pochi addobbi e ancor meno doni. “Lo sanno, lo sanno di avere poco o nulla”, gli spiegava il fantasma. “Ma non si arrendono e cercano di rendere migliore l’uno la vita dell’altro, con il loro amore”. “Quante insensate sdolcinatez...” stava per rispondere sgarbatamente Pietro, quando la sua attenzione cadde su una giovane madre. Ella stringeva al petto il suo piccolo bambino mentre il padre disegnava con dei pastelli un albero addobbato sul muro di casa. “Come sono belli” pensò un secondo prima di materializzarsi nuovamente a casa propria. 

Rimasto solo, si guardò in giro sospettoso, “Non c’è due senza tre” disse e infatti, da dietro la poltrona, spuntò un folletto. No, anzi, una bimba, la bimba incontrata per strada. Con una veste candida e i piedi nudi e svolazzanti. “Non hai freddo?” le chiese Taccagni sorpreso. “No” “Sei il Natale futuro?” “Esatto” “Va bene, andiamo”. 

Pietro si era quasi abituato a quel sogno strano, ma a sorprenderlo ci pensò la bambina. 
“Un cimitero? Mi hai portato al Monumentale?” le chiese. 
“Guarda”, rispose lei indicandogli una lapide, “Pietro Taccagni, instancabile lavoratore”. 
Davanti alla tomba nessun fiore. Solo pietra liscia e fredda. 
“Non vien mai nessuno a trovarmi?” 

A questa domanda la bimba ripose portandolo in giro per la città, dai suoi vecchi dipendenti, i parenti, i compagni di scuola. “Il primo anno senza quell’avaraccio!” diceva uno. “Non mancherà a nessuno!” rispondeva l’altro. “Avido com’era sarà finito all’inferno e avrà chiesto al diavolo di abbassare le fiamme per non spendere troppo di gas!” Tutti ridevano di lui, nessuno lo ricordava con rispetto o un po’ di tenerezza. Solo il cugino Paolo, guardando un vecchio album di famiglia, diceva alla moglie “Eravamo così uniti, poi lui è diventato sempre più ambizioso, sempre più desideroso di arricchirsi. Si è allontanato da tutti ed è morto da solo. Forse avrei potuto fare di più, avrei dovuto insistere, andare a trovarlo più spesso.” Lei lo stringeva con tenerezza, “Non ti crucciare, ognuno sceglie il proprio destino, lui scelse il suo molto tempo fa”. 

Pietro aprì gli occhi, si era addormentato sulla sedia, fuori albeggiava. Un sogno, era stato solo un sogno. Raccolse i resti della cena sul tavolo e girò a lungo per le numerose stanze vuote della sua grande casa. Un sogno, davvero uno strano sogno. “Ognuno sceglie il proprio destino”, ripeté più volte, poi si vestì e corse in pasticceria a comprare un regalo: un panettone basso con la glassa. Infine si diresse a passi distesi verso la casa del cugino. Non aveva neanche più bisogno del bastone, sentiva di avere tutta la forza necessaria per percorrere la nuova via che aveva scelto. 

“Buon Natale, signore” sentì una vocina alle sue spalle. Era la bimba del giorno prima. 
“Buon Natale anche a te”, le rispose. 

Chissà cosa ricorderà Giulia di quella notte. 
Aveva solo tre anni, i capelli biondi e lo sguardo vispo. 

Forse ricorderà il caldo abbraccio della mamma: 
"Svegliati amore mio. Facciamo questo gioco: devi stare zitta e buona, non devi farti sentire dal papà."

Forse ricorderà le scale fatte di corsa: 
"Va tutto bene. Andiamo dai nonni, gli facciamo una bella sorpresa." 

Forse ricorderà il viaggio in macchina, il freddo attraverso il pigiama, una porta aperta nel cuore della notte ed il nonno con il viso pieno di sonno: 
"Cosa è successo? Che ci fate qua?" 

Forse ricorderà le lacrime della nonna e le parole concitate dello zio: 
"Io lo ammazzo! Se ti tocca ancora giuro che lo ammazzo!" 

Forse non ricorderà nulla, ma tutta quella notte rimarrà impressa indelebilmente dentro di lei. 

Paola ricorderà per sempre il pomeriggio di quello stesso giorno. Le botte del marito. Quei colpi secchi che le piovevano addosso, dappertutto tranne che sul viso. Sul viso no. Sul viso mai. Altrimenti gli altri avrebbero visto e capito. Una scena che si ripeteva sempre uguale ormai da anni. Ma quella volta era stato diverso. Quella volta Giulia aveva alzato le manine per difenderla: "No, papà, no!" 

La sua bambina era stata forte e coraggiosa. Forte e coraggiosa come lei non riusciva più a essere, come lei aveva dimenticato di poter essere. Fu quello l'istante in cui Paola, svegliatasi dall'apatia e dall'accettazione in cui era caduta, decise che se ne sarebbero andate. 

Dopo quella notte, la madre di Giulia ha dovuto affrontare mille battaglie in tribunale. È stata messa in discussione come persona, come moglie e come madre, ma non ha mai mollato. L'ha fatto per se stessa e per sua figlia. L'ha fatto perché era suo il compito di proteggere la piccola dalle brutture del mondo e non doveva essere la bambina a proteggere lei. L'ha fatto perché si è ricordata di quanto anche lei potesse essere forte e coraggiosa. 

Paola sta ancora lottando. 
Lotta contro un sistemo giudiziario lento, cieco e sordo. 
Lotta contro i ricatti e la violenza psicologica dell'ex marito. 
Lotta soprattutto contro i pregiudizi di chi pensa che, se permetti ad un uomo di ridurti così, è soprattutto colpa tua. 

Paola non si arrende e ogni sforzo è ripagato da una ritrovata libertà e dal viso sereno della sua bambina. 

– Questo racconto è un omaggio a una donna coraggiosa, che ho avuto l'onore di conoscere, e a tutte le donne che combattono ogni giorno per la propria dignità e per il diritto dei propri figli ad avere un'infanzia serena. – 

25 Novembre, Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne.
Mi chiamo Tina, 
ho 15 anni. 

Con me ho un sacchetto di marshmallow nascosto nella borsa, i miei occhiali da sole in testa per tenere indietro i capelli nerissimi e i braccialetti che mi tintinnano ai polsi. 

Cammino. 
Lui accosta. 
Mi trascina in macchina. 

Resti di mela sul cruscotto, una birra in mano, puzza di sigaretta. 
Chiude le sicure. 
“Fammi uscire, voglio uscire!” 

Non mi ascolta. 
Perché dovrebbe? Per lui io non sono niente, meno di niente, meno del cane che tiene legato alla catena. 

Combatto, mi ribello, sono forte, devo essere forte. 

Non basta. 

Sono stesa in mezzo ai sassi, sono nuda. 
L’uomo bianco m’infila in un sacco, io guardo dall’alto le mie braccia sottili. 

Il mio corpo scivola nell’acqua. 
Non sento più nulla. 

Raggiungo le mie sorelle, siamo in tante nella prateria.  
Ma a nessuno importa di noi, nessuno si ricorda di noi. 

Mi chiamavo Tina, 
avevo solo 15 anni. 

Le donne e le ragazze native americane sono vittime, a partire dagli anni ’80, di un massacro sistematico ad opera dei suprematisti bianchi. 

Il numero complessivo delle vittime in Canada, paese in cui si consumano prevalentemente queste tragedie, potrebbe toccare la sconvolgente cifra di 4000. Ad ammetterlo è stato, nel 2016, lo stesso Governo Canadese, attraverso la voce della ministra per la Condizione delle donne, Patty Hajdu. Fino a quel momento, in base alle dichiarazioni ufficiali della polizia, si riteneva che il numero delle vittime fosse “solo” di 1200. 

I suprematisti uccidono le donne fertili per sterminare definitivamente i Nativi. 
Violentano e uccidono le donne perché, come sempre, sono le vittime predestinate. 

Un caso tra i tanti è quello di Tina Fontaine, quindicenne scomparsa nel 2014. 
Il suo corpo venne trovato una settimana dopo, avvolto nella plastica e in alcune coperte, nelle gelide acque del Red River, il Fiume Rosso che attraversa la provincia canadese di Manitoba. 
Raymond Cormier, uomo bianco di 53 anni, venne incriminato con l’accusa di omicidio di secondo grado. Giudicato non colpevole nel 2018. 

Lo sterminio delle donne Native Americane è fatto di vittime invisibili e uomini bianchi non colpevoli.


Un altro dei miei racconti pubblicati sul quotidiano online TorinOggi.
Racconti in cui eventi davvero avvenuti nella mia città si michiano con la leggenda popolare e la mia fantasia.

Buona lettura...

La sera, l'aria di aprile, era ancora freddina e Maria aveva avvolto la figlia che teneva in braccio in uno spesso scialle. 
Giovanni, che le camminava accanto, stringeva la mano del loro primogenito di 5 anni appena compiuti.

"Dove andiamo papà?" chiese il piccolo. 
"Al circo" 
"E chi è Circo?" 
"Uno spettacolo da restare a bocca aperta!" 
"Davvero????" 
"Si sì" 
E il bimbo sorrise con gli occhi pieni di curiosità e i piedini che macinavano veloci sullo sterrato. 

Intanto, mentre il tendone si riempiva di curiosi per il grande evento, i cavalli battevano gli zoccoli nervosi sul terreno e gli artisti si preparavano nei carri. 
William s'impomatava i baffi e, con alcune forcine, fermava saldamente il suo bel cappello. 
"Tatanka, are you ready, sei pronto?"

Continua sul sito ufficiale del giornale...

... anche il Pancarré.

A tal proposito, tempo fa, ho pubblicato un racconto sul quotidiano online TorinOggi. Realtà con cui collaboro felicemente da qualche anno.

Le prime righe ve le propongo qua, le altre dovrete leggerle sul sito ufficiale.

Buona lettura!

L'invenzione del Pancarré. Una storia raccontata da un punto di vista insolito

La folla urla e insulta. Il malcapitato ha le gambe che gli tremano. Cercherò di essere più rapido possibile, nessuno dovrebbe salutare questa terra nel terrore.

Non amo il mio lavoro ma mi permette di vivere bene. E poi qualcuno deve pur farlo.

La gente insulta ladri e assassini quando sono al patibolo ma poi quando tutto passa, la testa cade e si torna per le strade, quello ad essere insultato sono io. Il boia.

Le mie mani sono sporche di sangue, non lo nego. Ma lo sono anche quelle del giudice e soprattutto quelle della folla assetata del dolore altrui che, alla faccia di ciò che ci ha lasciato detto nostro signore Gesù Cristo, di “prime pietre” ne scaglia un bel po'.

Ogni volta che c'è un'esecuzione la piazza è così piena che, tra una spalla e l'altra, non riuscirebbe a cadere a terra neanche una capocchia di spillo. Stanno tutti là ad abbeverarsi del sangue colpevole del condannato. Senza carità cristiana. Senza perdono nel cuore. Senza vergogna negli occhi.

Loro urlano, incitano, maledicono. Ma poi sono io quello che viene segnato per strada, evitato come se infetto, insultato come se colpevole. Ma colpevole di cosa? Io per le anime e i corpi dei condannati la mostro un po' di pietà. Sono rapido e preciso. Mi pagano bene ma il mio lavoro non potrei farlo meglio.

Continua...


Pedro la vide per la prima volta nel refettorio. 
La luce che proveniva dai finestroni alle sue spalle la faceva sembrare un angelo. Un bellissimo angelo nobile e fiero. 

Lei aveva grandi occhi neri con ciglia di seta, piccole labbra rosa perfettamente disegnate e un cipiglio da generalessa. Lui rimase stregato e, dalla sorpresa di trovarsi al cospetto di un essere tanto perfetto, aprì la bocca e il pollice umido gli scivolò via schioccando come il tappo di un fiasco di vino. 

Quel giorno Pedro divenne un uomo. Perché solo gli uomini conoscono il vero amore e la cieca devozione. Aveva appena compiuto cinque anni. 

In realtà nessuno all’Istituto della Maria delle Grazie di Rio de Janeiro era immune al fascino di Aninha. Tutti i ragazzini la seguivano da vicino o veneravano da lontano. Spinti dalla passione amorosa i maschi e dal desiderio di emulazione le femmine. Persino le suore, che pur ne conoscevano l’allergia alle regole e la propensione alla ribellione, ne ammiravano l’animo appassionato. Alcune di loro, addirittura, sognavano per lei un futuro da Madre Badessa. Sognavano di riuscire a convogliare tutta quell’energia verso la fede, verso il Signore e soprattutto verso una strepitosa carriera ecclesiastica che avrebbe portato grande lustro a tutta la scuola. 
Una creatura così era destinata a fare cose grandi ma nessuno di loro, tranne Pedro, aveva intuito appieno quanto grandi potessero essere. 

Aninha aveva sette anni ed era a capo di un gruppo di fedelissimi, con i capelli a scodella e le ginocchia sbucciate, che rispondevano ai suoi ordini con cieca obbedienza e religiosa sollecitudine. Ogni giorno si cimentavano in nuove e perigliose avventure. Ma ciò che amavano di più era sfidare le autorità, con particolare accanimento verso il cuoco, “O Porco”, che li affamava facendo la cresta sulla spesa e riempiendo la zuppa di carne guasta, e Don José, “O Porco Grande”, il frate confessore che non li perdonava mai e, fra una penitenza e un’Ave Maria, li condannava sempre tutti all’inferno. 
Aninha non sopportava certe prepotenze e, tra dispetti e atti dimostrativi, combatteva la sua battaglia che era la battaglia di tutti.  Lei era una figlia del popolo col portamento da Regina. Una Regina guerriera. 

Pedro, al contrario, non era dotato di carisma e neanche di particolare coraggio. Le sue caratteristiche principali erano i pidocchi abbarbicati tra i ricci, la candela al naso, e un cuore grande e pieno d’amore puro. 

Lui guardava la sua Imperatrice da lontano, ammirandone la fiera bellezza e l’animo indomito, la schiena dritta e la parlantina incessante. Sognava di poter diventare il suo cavaliere. Il suo fedele scudiero. Il suo braccio destro. Tutto sommato si sarebbe persino accontentato di prendere il posto di Claudio. Quel ciccione, borioso lacchè che Aninha tollerava solo perché la sua altezza sopra la media e il fisico da giovane toro erano armi necessarie alla lotta. 

Pedro sognava ma non si faceva illusioni, sapeva che, agli occhi di lei, non sarebbe mai stato nient’altro che uno dei tanti piccoli orfani. Uno della folta massa di ragazzetti di scarto, che tra le quattro mura del collegio non ci stavano solo per studiare come lei, ma ci rimanevano perché non avevano nessun altro posto dove andare. Senza famiglia. Senza casa. Senza futuro. 
Pedro era rassegnato a essere uno qualunque, distinguibile dagli altri solo per lo straccetto che portava sempre in mano. Uno straccetto vecchio e puzzolente ma che per lui profumava di mare, sole e mamma. 

Una notte senza luna Aninha e i suoi compagni scivolarono furtivi fuori dai propri letti, attraversarono silenziosi i corridoi dai soffitti alti e i finestroni immensi, e raggiunsero il quadro della grande Dama. Una tela che a loro pareva enorme e terribile. Il ritratto della moglie del Senhor Pablo Soldon che un secolo prima, all’inizio del ’700, aveva speso parte del proprio immenso patrimonio per fondare l’Istituto, per dare una casa e una scuola ai piccoli orfani e ai figli delle famiglie più semplici e povere della città. 
In questo modo aveva regalato speranza e futuro a tanti, e soprattutto aveva dato una casa a tutti i bastardelli che egli stesso aveva seminato in giro. Aveva così cercato di pagarsi con moneta sonante il perdono dei propri peccati e un posto in Paradiso. 

La Dama guardava severa dall’alto, ornata di gioielli e belletto, con il naso lungo lungo e le sopracciglia folte e nere come ali di corvo. Tutti i bambini della casa erano terrorizzati dal suo sguardo severo e passavano di corsa sotto il quadro senza neanche avere il coraggio di alzare la testa. Le suore invece si fermavano sempre a fare un inchino, il segno della croce e pregare come davanti a una santa. 

Aninha aveva progettato a lungo l’impresa. Lo sfregio. La liberazione dal giogo della tiranna che con i suoi occhi maligni regnava incontrastata su tutti loro e sui loro incubi. 

Pedro aveva sentito i sussurri, aveva visto le ombre e aveva riconosciuto l’inconfondibile profumo di biscotti, zucchero e terra bagnata dell’amata. Stretto tra le mani il suo straccetto per farsi coraggio, si era incamminato a piedi nudi lungo il corridoio, seguendo silenzioso e invisibile il gruppo dei grandi. Quando furono tutti davanti al quadro si fece strada tra gli altri fino a raggiungere la prima fila, proprio nel momento in cui la condottiera stava sussurrando con voce ferma: “La nostra è una lotta per la libertà. Un piccolo passo sulla strada verso un mondo più giusto”. Tutte le teste a scodella annuirono e anche la capoccia ricciuta di Pedro le imitò. “Chi di noi lo farà?”, chiese Claudio. La Regina si guardò in giro. 

Ognuno di loro cercava di darsi il giusto contegno. Chi si sistemava i capelli, chi tirava su col naso, chi si grattava furtivamente il sedere. Chi, come Pedro, tratteneva il respiro e si teneva sulle punte dei piedi, cercando di sembrare un poco più alto. 

“Lo farà lui”, disse Aninha seria, allungando il pugno chiuso verso Pedro. I loro occhi s’incrociarono, i ginocchi di lui tremarono, e la mano di lei si aprì a mostrare un pezzetto di carbone. Lui ricevette grato il dono della propria ragion d’essere. Poi, ripresosi dall’emozione, si chiese con orgoglio quale fosse il grande compito che gli era stato affidato. Quale fosse l’impresa che finalmente l’avrebbe messo in luce e gli avrebbe dato la possibilità di dimostrare la propria devozione. Cercando una risposta guardò il pezzo di carbone e poi guardò Aninha. Guardò Aninha e poi guardò gli altri ragazzi. Guardò gli altri ragazzi e poi riguardò il carbone. 

“Devi disegnare i baffi alla Dama”, lo informò Claudio. 
Pedro si stupì, ebbe un attimo d’esitazione ma poi guardò di nuovo Aninha. Lei gli fece un semplice cenno del capo e il giovane cuore della testa ricciuta divenne ancora più grande e colmo d’amore. Fu in quell’istante che l’orfano con la pezzetta capì che sarebbe stato schiavo del suo sentimento per sempre. Si rassegnò al proprio destino e non se ne dispiacque. Decise che avrebbe fatto qualsiasi cosa per la sua amata, anche sfregiare il viso della Dama, anche condannarsi alla dannazione eterna, anche assicurarsi l’esilio perenne. Lui sapeva benissimo che un’azione così non sarebbe mai passata impunita e che le suore avrebbero indagato, annusato, domandato fino a trovare la verità. 

Pedro salì sulle spalle di Claudio e allungò la mano armata di carbone con la consapevolezza di segnare così la propria condanna. Del resto era sempre stato un bambino sfortunato, nei suoi lunghi cinque anni di vita aveva collezionato una serie di disgrazie e patimenti che neanche Gesù Cristo in croce. Il piccolo martire sapeva che non sarebbe riuscito a farla franca ma s’immolò comunque felice sull’altare del proprio amore non corrisposto. Appoggiò il carbone sulla tela. Prima un ricciolo a destra. Poi un ricciolo a sinistra. La Dama divenne in un secondo la Dama Baffuta. E tutti coloro che assistettero alla metamorfosi giurarono che la donna ne aveva guadagnato molto in bellezza e simpatia. 

Pedro aveva appena rimesso i piedi a terra quando, dal fondo del corridoio, apparve una flebile luce: “Chi è là? Cosa state facendo?” 
E decine di piccole ombre nella notte ritornarono nei loro letti veloci come ne erano uscite. 

Quando le suore si riunirono sotto la tela della Dama non trovarono niente e nessuno. Niente tranne una pezzetta lurida. La pezzetta di uno dei piccoli. La pezzetta di quel sorcetto coi capelli crespi e l’aria spaurita. La pezzetta che la madre, una ragazza sciocca e leggera al servizio di una famiglia di ricchi e boriosi mercanti di città, gli aveva lasciato nella cesta come unico regalo. 

Le suore sorrisero compiaciute. Avevano trovato il loro colpevole. 

Pedro venne trascinato di peso fuori dal letto e la notte stessa spedito alla Casa di Frate Eustacchio dai Piedi Puzzolenti, l’Animo Pesante e il Sedere Tonante. Istituto dall’oscura reputazione dove venivano rinchiusi i ragazzi difficili, i casi irrecuperabili o semplicemente i bimbetti molto sfortunati. 

La mattina seguente, quando Aninha e gli altri si svegliarono, trovarono la Dama nuovamente privata dei baffi che tanto le donavano. Pochi di loro si accorsero che insieme alle appendici pelose era scomparso anche il loro giovane autore. Nessuno se ne preoccupò. 

***

Undici anni dopo, al Porto Vecchio si stava radunando un folto gruppo di giovani pronti a seguire il più grande eroe delle Americhe. L’uomo dal pelo fulvo e il naso dritto. Lo straniero che voleva salvare il popolo brasiliano dal giogo imperiale. 

I ragazzi, provenienti dalle città e dalle campagne, aspettavano ore in fila per farsi esaminare, scegliere, e poter infine entrare a far parte del gruppo dei combattenti rivoluzionari. Uno alla volta si presentavano davanti a quello sguardo acuto che sembrava sempre puntare verso l’infinito. Loro si proponevano speranzosi e l’Eroe decideva se fossero degni della lotta, e quale sarebbe stato il loro compito. 

Accanto a Colui che arrivava dall’altra parte dell’Oceano c’era sempre una donna. La sua donna. Un bellissimo angelo. Una figlia del popolo nobile e fiera, dai grandi occhi neri con ciglia di seta, piccole labbra rosa perfettamente disegnate e un cipiglio da generalessa. 

Quando fu il suo turno Pedro si fece avanti, mise il petto in fuori e spostò il peso sulle punte dei piedi per sembrare almeno un poco più alto. Era rimasto piccolo e magro, il cuore gli si era indurito come succede a tutti diventando adulti, ma la devozione verso la sua Imperatrice non era stata scalfita. Era andato alla ricerca dell’Italiano coraggioso con l’unico scopo di mettersi nuovamente al servizio dell’amata Aninha, che ora tutti chiamavano Anita. Forse questa volta sarebbe riuscito finalmente a non essere più uno dei tanti, a farsi ricordare e apprezzare da lei. 

“Sei un poco gracilino”, disse il senhor Garibaldi guardandolo dubbioso. 
“Sono piccolo ma resistente”, rispose lui, tendendo il più possibile il collo verso l’alto per guadagnare ancora qualche centimetro. 

Gli occhi profondi del più anziano fissarono severi quelli del giovane, cercando di comprendere se sarebbe stato davvero in grado di combattere. Gli occhi del più giovane non si abbassarono ma restarono seri e fieri. Nel bel mezzo di questo scontro di volontà Anita ebbe un sussulto, “È lui!”, urlò sorpresa. 

I due uomini si voltarono a guardarla stupiti. “È lui: l’eroe di cui ti ho tanto parlato”, continuò la giovane donna, “il bambino che sfidò la tirannia. Colui che trasformò la Dama nella Dama Baffuta. Il cuore generoso che si sacrificò per tutti noi. Raramente ho visto tanta risolutezza nello sguardo di qualcuno. A soli cinque anni era più coraggioso di molti degli uomini adulti che ho conosciuto nella mia vita”. 
Poi infilò la mano in una borsetta che teneva legata ai fianchi e vi tirò fuori uno straccetto. “Sono più di dieci anni che aspetto di ridarlo al legittimo proprietario. L’ho conservato per te”, disse la nobile Regina inchinandosi di fronte al suo Eroe e porgendogli il pegno della di lei devozione. 

FINE


 *Ogni riferimento a fatti o persone realmente esistiti non è affatto casuale ma neanche storicamente preciso.*
Lampioni innamorati (foto di Vallesilvia17)

In occasione di San Valentino (sì, qualche giorno fa) per la mia rubrica su TorinOggi (Storie sotto la Mole) ho scritto un racconto dedicato a un coppia torinese. 

Una coppia come tante, potrebbero essere i nostri genitori o anche i nostri nonni, che hanno percorso la vita e la città tenendosi per mano e facendo delle gran passeggiate.

Buona lettura!

Luisa e Marco s'incontrarono per la prima volta a scuola. La scuola elementare Federico Sclopis in via del Carmine 27. Non erano nella stessa classe perché allora maschi e femmine stavano ancora divisi. 

Lei aveva solo sette anni quando una compagna dispettosa le strappò il nastro dai capelli. Lui ne aveva 9 e, per non farla tornare a casa in lacrime, rincorse la ladruncola per tutta piazza Statuto e alla fine recuperò il mal tolto. Luisa lo ringraziò disegnando un fiore sulla polvere della strada. 

Quando la scuola venne bombardata, entrambi dovettero interrompere gli studi. Marco li riprese poco dopo. Luisa, invece, rimase a casa rassettare e cucire con la madre. 

Marco amava la geografia. "Quando ci sposiamo ti porto a Parigi" le disse quando andarono per la prima volta a passeggiare al parco del Valentino.

Continua...

L’immagine, che ritrae il parco del Valentino sotto la neve, è opera di Uccio “Uccio2” D'Agostino


Il 13 gennaio del 1985 l'Italia fu coperta dalla neve. A Torino non si registrarono dei veri e proprio record ma, noi bambini sabaudi dell'epoca, quella nevicata ce la ricordiamo ancora. Ed, io, per festeggiare l'anniversario ne ho scritto un racconto su TorinOggi.
Buona lettura!


Erano finite da poco le vacanze natalizie, il presepe era stato smontato e messo al sicuro in cantina, mentre un rametto di vischio restava ancora appeso al lampadario dell'ingresso. 

Io ero appena tornato da scuola e, dopo aver mangiato di corsa, mi ero precipitato in cameretta a giocare con uno dei doni che Gesù Bambino mi aveva lasciato quell'anno, una macchinina telecomandata che era una vera bomba! 

"Vai a fare i compiti!" mi aveva inseguito mia madre, entrando in camera con le mani sui fianchi e l'aspetto minaccioso. Solo a quel punto avevo alzato lo sguardo e l'avevo visto, l'avevamo visto entrambi. Il cielo si era fatto bianco. Io lasciai perdere la macchinina e appiccicai la faccia al vetro della finestra. Mamma mi fu subito accanto, “È arrivata anche qui" la sentii dire.

Continua...

Applausi, gioia e giubilo, standing ovation per gli ultimi racconti nati dal Laboratorio Condiviso di Scrittura. Ogni partecipante ha pescato tra tutti gli esercizi assegnati quest'anno e ne ha scelto uno.

Che grande avventura è sta questa. Ringrazio tutti, tutti, tutti, coloro che hanno partecipato, quelli da un racconto solo come i fedelissimi, coloro che hanno letto e pure coloro che mi hanno detto "prima o poi partecipo eh" e poi chi li ha più visti? 

Ringrazio voi che avete regalato a me e al mondo le vostre storie, la vostra fatica, il tempo dedicato a una parola dopo l'altra a una frase dopo l'altra, la vostra immaginazione e, in qualche caso, persino i vostri segreti.

Questa avventura si conclude con una miscellanea di storie, tanta gioia e parecchia nostalgia.

Buona lettura a tutti e, non temete, qualcos'altro m'inventerò!





La sua camera era rimasta esattamente come l’aveva lasciata, tre anni prima. Le fotografie che avevano vinto dei premi erano ancora lì, appese alle pareti. Il letto aveva ancora il piumino a tinte vivaci che tanto gli piaceva, su una mensola le foto più importanti della sua vita lo guardavano, circondate di argento massiccio che suo padre aveva cesellato.

Dalla cucina proveniva un buon profumo di pasta al forno, il suo piatto preferito. La madre lo stava preparando per festeggiare il suo ritorno a casa per le feste, il padre leggeva il giornale sul divano del salotto, come faceva tutte le domeniche.

La sua attenzione era stata catturata da una fotografia al centro esatto della mensola, una ragazza con gli occhiali scuri ed i capelli blu che guardava dritta in camera. Ricordava esattamente quando la foto era stata scattata. Era sdraiata sul trampolino di una piscina vuota, il suo migliore amico sopra di lei che cercava di non precipitare di sotto mentre scattava la foto, una vita fa.

Poco tempo dopo, aveva preso la decisione più difficile della sua vita. Era una splendida domenica di sole i cui raggi attraversavano il salotto illuminando il divano sul quale i genitori si erano seduti. Dopo qualche esitazione aveva iniziato il suo lungo racconto, in cui ricordava il voler giocare ai cosiddetti “giochi dei maschi” quando era piccola, la mancanza di un ragazzo, tutti quei piccoli segnali che si sarebbero poi tramutati in una ineluttabile ed a tratti feroce presa di coscienza. Lei non era una ragazza, era un ragazzo intrappolato in un corpo che non gli apparteneva, ormai era arrivato a un punto tale che non era possibile tornare indietro. I dottori la chiamano “riassegnazione di genere”, aveva spiegato, e comprende l’assunzione di ormoni, lunghe sedute psicologiche ed infine la chirurgia. Non voleva soldi, aveva detto, il suo lavoro legato alla fotografia le aveva dato l’indipendenza economica già da un po’, insieme ad un piccolo appartamento che fungeva anche da studio, voleva solamente che loro sapessero e che cercassero di comprendere ed appoggiare la sua decisione.

La madre aveva preso un profondo respiro ed aveva parlato a lungo. Tutti quei segnali erano stati visti e discussi nell’intimità insieme al marito, avevano convenuto entrambi che c’era qualcosa di insolito in quella figlia che giocava come centravanti e che aveva sempre preferito i trenini alle bambole. Ma, aveva proseguito, avevano deciso che andava bene così, la cosa più importante era che lei fosse felice. Quindi no, non era stato esattamente un trauma sentire quelle parole dalla figlia che si dovevano abituare a chiamare figlio, ma di sicuro ci sarebbero volute molte spiegazioni ai parenti, in special modo alle zie che avevano una mentalità molto meno aperta della loro, ma che ci avrebbero provato.

Il padre invece aveva inaspettatamente piegato il giornale con molta cura e si era allontanato dalla stanza. Per quasi tre anni il ragazzo non aveva mai ricevuto da lui un messaggio, una telefonata o una lettera. Finché un giorno, al risveglio dalla sua quarta operazione chirurgica, aveva trovato un mazzo di fiori accanto al letto, il biglietto diceva poche ma potentissime parole: “Scusa. Ti voglio bene. Papà”. Aveva pianto di commozione e di gioia fino ad addormentarsi.

E così il ragazzo si ritrovava nella sua vecchia stanza, col profumo del pranzo ed i ricordi che gli parlavano dal contenuto delle cornici d’argento cesellate a mano. Passando davanti allo specchio, il riflesso della sua figura era irriconoscibile rispetto a quella ragazza coi capelli blu e gli occhiali scuri che guardava dritto, quasi a sfidare, l’obiettivo che la stava ritraendo. Adesso aveva i capelli cortissimi e biondo scuro, un filo di barba ed il fisico muscoloso e ben definito. Ma non tutto era cambiato, l’amore dei suoi genitori era immutato, dandogli forza e determinazione. Il cammino sarebbe stato ancora lungo e difficile, questo lo sapeva, ma con i genitori al suo fianco niente pareva impossibile.

Con un mezzo sorriso era uscito dalla stanza, chiudendo alle spalle la porta e il suo passato. Adesso avrebbe avuto tante cose di cui parlare con i suoi genitori, davanti ad un buon piatto di pasta e ad un futuro importante e luminoso.

Beppe Carta




“Ogni movimento quella mattina era fatto per irritare, un cartone inanimato alla volta, un continuo aprire e chiudere quella dannata porta. Tutto sembrava fatto per far uscire il residuo di tepore rimasto, per far entrare il freddo nel nido che si stava svuotando irrimediabilmente durante il peggiore degli inverni. Dal vetro era scomparso anche quella sorta di “benvenuto” appiccicato. Una specie di copia della coppia caricaturizzata, adesiva, bidimensionale, con colori brillanti, con facce allegre e vestitini tondi e morbidi, di quelle che recitano il mantra “Love is...”. Sì, la porta, quella che avevo lasciato sempre aperta, a tutte le ore, in qualsiasi giornata, con qualsiasi condizione meteorologica. Aperta a chiunque, soprattutto a chi non mi garbava (reciprocamente), anche a chi aveva remato contro la nostra coppia, anche a lui che da un anno la utilizzava come una portineria. Sulla porta del frigorifero avevo messo il mio cuore, che recitava “dove c'è Amore c'è Casa”, lo aveva visto e io non avevo potuto fare a meno di vedere il suo ghigno, che oramai aveva smesso di coprire. Più avanti nel tempo lo avrei stanato, per sentirmi rinfacciare che in fondo ero stata io ad averlo chiuso fuori di casa. In effetti quel giorno, quando stava traslocando nella sua nuova vita, ero ferma sulla mia posizione dichiarata da sempre, sui cerchi che si stavano chiudendo inesorabilmente. Neanche quella sera chiusi la porta. Ma poi arrivò l'indomani con tutti gli andirivieni necessari e qualcuno in più, allora mi sentii pronta... e fu così che mi chiusi la porta alle spalle e, questa volta, per sicurezza, diedi anche due mandate.”

Sirena Aliena

***

Da fuori, la fabbrica aveva perfino un bell’aspetto. Mi avevano detto che era opera di un grande architetto, Agnelli era un uomo che amava le belle cose. Avevo ventidue anni, fidanzato in casa, vivevo in un monolocale sul ballatoio in attesa di sposarmi con Lorella, mia coetanea, impiegata presso un avvocato. Tiravo la cinghia per mettere da parte i soldi per il matrimonio. Ero bravo a fingere. La domenica erano tutte uguali: pranzavo a casa dai suoi, poi andavamo in centro a fare una passeggiata mano nella mano, discorsi approssimativi sul nostro futuro, bacio tiepido sulla guancia sulla soglia di casa. Salivo sull’autobus e vedevo la gente prendere fuoco, chiedevo permesso, scusi, devo scendere, camminavo per chilometri sudato e affannato, cercando di riportare il battito del cuore alla normalità.

Guarda che faccia che hai, si vede che non te la dà. Ragazzi, qui dobbiamo organizzare una spedizione a puttane per il ragazzo pugliese, quella timorata di dio lo sta facendo andare fuori di testa. Gerardo, il mio compagno alle presse, si preoccupava per la mia salute. Gli altri annuivano, confabulavano, volevano trovare un rimedio. Io stavo zitto, loro mi assicuravano che non era così che doveva andare, l’avessero avuto loro un buco per scopare in santa pace alla mia età. Altro che matrimonio, tiè fuma, che sei preoccupante. Cazzo, ma da dove è uscito questo qui? Dalla Puglia, rispondevo. Ecco, sei un disonore per la tua terra.

Così, decisero per una cura di altro genere. Mi portarono al circolo operaio, due locali al piano terra in mezzo alle case popolari, pieni di gente, fumo, le chitarre, i manifesti di Potere Operaio con il sole radioso, le ragazze che ancheggiavano. Il vino aspro, forte, e un senso di comunanza mai vissuto prima. Dai, sorridi, mi dicevano i compagni, e bevi ancora un po’. E quelle chi sono? Le compagne, le femministe, occhio, che neppure quelle te la danno, o se lo fanno, poi ti fanno la predica che sei un fallocrate di merda, attenzione, ragazzo. Meglio la tua Lorella, o Loretta o come tramischia si chiama. A proposito, la vedi ancora, quella piaga? Certo che la vede ancora, sono fidanzati in casa, il ragazzo si è fottuto con le sue stesse mani.

How do iiu feel, like a rolling stone. Avevo imparato la canzone che mi rispecchiava in pieno. La cantavo, tutto concentrato per via del mio inglese popolare, quando era arrivata lei. Spostati, mi aveva detto, e si era seduta in braccio. Come è che ti chiami tu? Sei nuovo non ti ho mai visto prima. Aveva un profumo forte, pungente, che non conoscevo, è patchouli, mi disse. Aveva tre metri di sciarpa addosso, credo fosse fatta con gli avanzi di lana. Sembrava assorta, concentrata, gettava fuori il fumo della sigaretta e potevo contarle i denti candidi, mentre cercavo di tenere a bada un’erezione che si faceva avanti impavida. Secondo me aveva bevuto troppo, ma se è per quello anch’io non avevo scherzato. All’improvviso tutto sembrava talmente facile, posso venire a trovarti? A casa? Si, certo, cos’hai, sei tutto rosso, non ti senti bene? Deve essere che ho bevuto troppo. L’idea di averla in casa, solo per me, era intollerabilmente meravigliosa.

Dopo una settimana, quando ormai non ci speravo più, mi aveva bussato sulla porta a vetri ed era entrata come un uragano nella mia stanza. Dopo un attimo di reciproco imbarazzo, ecco che mi sospingeva sul divano letto, per fortuna già chiuso, e mi aveva abbracciato, avvolgendomi, inchiodandomi, prendendomi di sorpresa. Ero terrorizzato. Di sesso non ci capivo niente. Lei respirava piano sul mio maglione, io la trattenevo accarezzandola dolcemente tra i capelli, Capivo che quello era una specie di miracolo e non volevo rovinare niente. Ma quale fosse la prossima mossa, io non lo sapevo. Dovevo toccarle il seno, sfilarle il maglione, leccarle le dita? Non volevo rovinare niente. Mi piaceva stare così, stretto, sentire che non le stavo facendo del male. Il tempo passava e per quel che mi riguarda, non esisteva più niente al di fuori di noi due. La sera ci avvolgeva, non avevo il coraggio di accendere la luce.

Tu sei diverso, dagli altri, mi diceva, sei bello. Ora devo andare. Se non arrivo per le sette e mezza, mio padre mi spara. Dice che ho solo diciassette anni, a me sembrano tanti e a te? Mi faceva domande ma non aspettava mai le risposte, galoppava sempre un metro avanti a me, posso tornare vero? Sulla porta mi aveva baciato, un bacio vero, come quelli dei film.

Nel giro di un mese, avevo disdetto il contratto di affitto, dato il preavviso in fabbrica. Fai bene, avevano detto i compagni, sei troppo giovane per restare a marcire qui dentro, vai giù coltiva la terra, metti su una falegnameria, non farti succhiare la vita. Approvavano? Si, approvavano. Non vedevo più scoppiare gli incendi, le allucinazioni erano finite. Con Lorella era stato difficile. Era dura con me, non capiva, se avevo un’altra perché me ne andavo, non avevo un'altra e lei non c’entrava niente, ero io che avevo sbagliato, avrei deluso i suoi genitori, e i miei, certo che non crescevo mai, ero proprio un immaturo.

E l’altra? La principessa era tornata un pomeriggio, con i biscotti per il tè. Mi raccontava della manifestazione per l’aborto libero, dei suoi problemi a scuola, di un tipo che le piaceva. E come mai volevo tornare al paese, e la mia ragazza che diceva. L’ho lasciata. Davvero? Senti, sai che c’è, ti regalo la mia sciarpa per ricordo, poi per le vacanze vengo a trovarti, se non vado in Grecia con le amiche, se mio padre mi lascia, dio che palle, certo al ritorno potrei passare, la puglia però è di strada se scendo a Brindisi posso raggiungerti. Ma davvero l’hai lasciata?

Dopo una settimana, era arrivato il giorno della partenza. Il mio monolocale aveva l’aria triste e abbattuta di sempre, con le pareti gialline e il calendario appeso di sghimbescio a cui non avevo più strappato i giorni. l’ho scampata bella, avevo detto, rivolto alle mie valige sul pavimento. Cosa dici, ragazzo pugliese ex-operaio Fiat? Gerardo era venuto a prendermi. Niente, parlo da solo, andiamo che si fa tardi. Mi chiusi la porta alle spalle, per sicurezza diedi due mandate. 

Barbara Fiore



Lola Larsen era la ragazza più bella di tutto Buenos Aires. Un corpo esile ma dalle giuste forme, lunghe gambe da gazzella, capelli talmente chiari da sembra bianchi, occhi verdi da gatta. Un aspetto fatto per sedurre che nascondeva un carattere spigoloso e poco incline alle moine.

Era arrivata in Argentina, insieme ai suoi nonni, all’età di quattro anni. La madre era morta pochi mesi prima e i tre si erano imbarcati dalla Svezia per raggiungere Olav Larsen, suo padre. Ricco imprenditore che era partito per il Sud America quando la piccola Lola doveva ancora venire al mondo. Aveva annusato un’occasione e aveva scelto di lasciare la giovane moglie da sola con il pancione. La piccola Lola non gliel’avrebbe mai perdonato.

Questa piccola bimba svedese era venuta al mondo quando le giornate erano brevi e le notti lunghe ma la madre aveva scelto per lei un nome caldo e straniero proprio per legarla a quel padre così lontano.

I nonni di Lola erano morti nel giro di pochi mesi. Olav e la bambina erano rimasti da soli. L’uno accanto all’altro a guardarsi sconosciuti.

Lola sarebbe stata cresciuta da numerose tate, avrebbe imparato rapidamente lo spagnolo ma l’avrebbe sempre parlato con un curioso esotico accento che, ormai donna, ne avrebbe addirittura aumentato il già notevole fascino.

Ottima musicista, portata per le lettere e ben educata. Lola era una dama bella e fredda, chiusa in un mondo privo di affetti.

Non aveva ancora compiuto quindici anni quando la sua eterea bellezza cominciò ad attirare l’attenzione degli uomini per strada o degli amici di suo padre. Molti la guardavano con la reverenza che si deve a una Madonna, altri con la lascivia ispirata dalla Maddalena. Lei ignorava in ugual misura sia gli uni che gli altri. Li notava ma non ricambiava, mai. Non che non volesse sposarsi. Lo desiderava moltissimo. Voleva una casa propria, voleva lasciare dietro alle spalle un padre verso il quale provava un irrazionale ma inossidabile rancore.

Desiderava un marito ma non voleva sbagliare, voleva l’uomo giusto accanto a sé, dai quattro anni in poi era stata costretta a trascorrere la propria infanzia con chi non amava, non avrebbe permesso che succedesse ancora. Non che volesse innamorarsi follemente. No, quello, no. Anzi, quello lo voleva proprio evitare, non voleva che l’amore annebbiasse il suo giudizio, proprio com’era successo a sua madre. Voleva un uomo accanto che non l’abbandonasse. Non lo doveva amare, l’amore era un sentimento volubile, lei voleva una presenza stabile, a cui appoggiarsi, di cui fidarsi.

Ed è per questo che più cresceva più si guardava in giro con attenzione. Non troppo giovane né troppo vecchio. Una professione stabile, un animo gentile. Infine, tra tutti i conoscenti di suo padre scelse il notaio Pedro Lopez. Era scuro, dove suo padre era chiaro, era allegro dove suo padre era rigido, era un figlio di quella terra e la guardava con ammirazione ma anche con allegria. “Signor Pedro” disse offrendogli dei pasticcini durante un piccolo ricevimento che suo padre aveva voluto organizzare per festeggiare l’ennesimo successo.
“Signor Pedro…”
“Buona sera madame Lola”
“Avrei una domanda da farle”
“Mi dica” disse addentando il pasticcino e sporcando di zucchero a velo i baffi neri.
Gli altri erano riuniti a chiacchierare in piccoli gruppetti, attorno a loro non c’era nessuno.
Pedro la guardava in attesa. Lola allungò il collo, sollevò il mento e fece rigide le spalle ancora più del solito. 
“Avrei una domanda da farle”, ripeté, “le spiacerebbe sposarmi?”

Jane Pancrazia Cole






“Non l'ho mai raccontato a nessuno... che in un giorno d'estate, con trenta gradi e una cappa d'afa, a poco a poco, si respira gelo, soffia un vento sospeso di parole non dette per timore, per orgoglio, per pregiudizi, a scoprire i sentimenti; e d'un tratto sembra la scena di un teatro, dove le attrici sono manichini di cera in una vetrina; incomprensioni che ingabbiano le vite, ragioni che rimbalzano come una palla su muri di gomma; e quanta fatica per trovare un punto d'incontro e per spiegare le ali, per essere in pace con la vita.”

Naomi



Dal mio punto di vista? Di poteri non ne ho nessuno, sono gli altri ad essere desolatamente normali. La loro tridimensionalità è un piattume che fatico ad osservare.
Sono troppo spensierata mi dicono, ma non posso fare a meno di trarre la gioia dalla mia quotidianità quando posso attrarre a me qualsiasi cosa io desideri con la facilità con cui mi vesto di un sorriso.
Mi piace danzare, e roteare, con i miei abiti vellutati, e nel mio vorticare attiro gli sguardi di chi è smarrito nella propria quotidianità dagli angoli ragionevoli.
Se ruoto abbastanza veloce, posso sparire, smetto di riflettere la luce che può incontrare i loro occhi ordinari, divento altro.
Scelgo talvolta di non essere trovata, e scelgo spesso di guardare oltre, nelle dimensioni che gli altri non possono vedere, vi cerco la bellezza.
Quando lo desidero, ciò che tocco si può cristallizzare in un eterno presente e si allunga all’infinito, sospeso sull’orlo della mia pelle, perché posso flirtare col tempo, che mi è amico. Quando lo incontro, il tempo, lo sfioro con la punta delle mie dita e ci osserviamo con calma in un istante eterno. Interrompo il contatto ed è già lontano.
Mi chiedono perché così splendida io sia ancora single, ma io sono molto più che single, sono una singolarità.
Io mi basto e mi completo, mi riempio e sono luce, anche quando per i loro occhi risulto assente, custodisco il tesoro che mi rende invincibile e plasmo ciò che mi circonda come voglio, perché non sono imbrigliata nei confini che mi attribuiscono. Se pensate che il mio sorriso sia solo due labbra e dei bei denti, vi siete persi un viaggio infinito tra i miei ossi alveolari.
Spesso mi hanno chiamato supereroe, e mi hanno chiesto come usassi le mie capacità per salvare il mondo.
Non condivido il loro punto di vista, e non perdo tempo a cercare di spiegare cosa significhi la mia esistenza. Mi chiamo Singleton e custodisco il segreto che rende l’universo possibile.

Marina Alice Cibin



Vi svelo un segreto grande, enorme, monumentale: BABBO NATALE ESISTE. 

Ve lo dico perché l’ho conosciuto, una notte d’inverno di inizio dicembre al bancone del Civili (n.d.r. storico locale livornese) davanti ad un ponce al mandarino caldo caldo. 
Vi descrivo brevemente la scena, per come me la ricordo. È passata nella mia mente così tante volte, oramai, che mi sembra quasi di averla vissuta ieri e non anni ed anni fa. 

Quell’uomo grande e grosso, con un vestito oramai consunto, le mani piene di galle di chi lavora duramente, il capo chino e pensieroso di chi ne ha viste tante, mi fa, dopo avermi pestato un piede ed urtato pesantemente per alzarsi e cercare di dirigersi – forse - in direzione bagno: “Ma sono bria’o?”.
“No no, non si preoccupi, ha solo qualche macchia di alcol e zucchero qua e là sul vestito rosso” – provo a dire. 
“De, e regali fii” – mi risponde, come a dire “non si preoccupi, signore, non fa niente” e mi abbraccia, con quel barbone oramai appiccicoso e puzzolente. Credo fosse seduto là dall’inizio del pomeriggio e che quello fosse il trentesimo ponce. 
Quando mi ha mostrato il bicipite ed il suo tatuaggio, ho deciso di fare quello che si fa in questi casi: gli ho preso lo smartphone ed ho chiamato il primo numero nel registro delle chiamate. Nientepopodimeno che La Befana. 

Una mezz’ora più tardi mi ero ritrovato seduto al bancone con lei. La Befana. 
“È saòsa? Un è mi’a che aggaisce di fame! C’ha solo d’andà in pensione a fine anno.” - A quanto pare, Babbo Natale aveva anche fatto proprio il detto “moglie e buoi dei paesi tuoi”. 
Continuando: “È tarmente allezzito che du’ citti in meno a fine mese ni fanno bruciaùlo. Be’ mi’ vaini, chissà che fine ni ha fatto fa’’” – come a descrivere un Babbo Natale moderatamente tirchio e ben poco avvezzo alla gestione dei soldi. 
Quindi, il povero Babbo Natale era soltanto un anziano fragile in depressione pre-pensionamento. 
Che uomo! Che cuore! 
Quella è stata la prima e l’ultima volta che li ho visti. In realtà, l’ultima volta che sono stati visti da qualcuno. 

“Tip tap tip tap 
Questa è l’ora l’ora dei folletti 
Tip tap tip tap 
Pazzerelli saltano i folletti 
Nella casa 
Stiam cercando cose buone e dolci da mangiare 
Pazzerelli saltano i folletti 
Stiam cercando proprio te.” 
Questa è la melodia che ha accompagnato l’irruzione ed il mio accerchiamento da parte di 10 stupidi folletti nel mio salotto, qualche settimana dopo. Non sembravano dolci-teneri-pazzerelli: vi dico solo che non riesco più a guardare Netflix da solo nel mio salotto. 
Recitando lentamente “tip tap tip tap” si sono allontanati ed è rimasto solo un folletto un po’ più alto, con la giacca ed incravattato. 
“Signor Brucialippa” – sapeva anche il mio nome! – “la mia visita non è casuale. Lei è l’ultima persona ad aver visto Babbo Natale e la Befana. Dal 7 dicembre Babbo Natale numero 17 è completamente scomparso nel nulla.” 
“Il Natale è in pericolo!” – sono saltato giù dal divano, già immaginandomi come l’eroe di un film natalizio o l’eroe in tutte le testate di giornale: “il Signor Brucialippa salva il Natale”. 
“Signor Brucialippa” – con quel tono mi ci chiama solo la ragazza che viene a fare le pulizie quando lascio troppo sporco – “La notte di Natale NON è una notte improvvisata. 
Nemmeno Amazon ha un sistema così fitto ed organizzato di ricevimento missive, magazzini locali, spie diffuse in tutto il mondo per segnalare, per esempio, che la nonna o la zia non abbia già comprato il regalo che il bimbo desidera. 
Quindi non si preoccupi del Natale. Si preoccupi di dirmi TUTTI i dettagli, movimenti o frasi che quei due sciagattati hanno fatto o detto”. 
Nonostante l’accento nordico e l’atteggiamento a signorina Tumistufi, qualcosa da quei due “sciagattati” l’aveva presa. 
“Il Vecchio era sempre stato un po’ strano. Essendo tutto ben organizzato, lui doveva fare solo da uomo-immagine. 
Eppure una cosa la voleva fare, disgraziato. 
Girava per le case – tutte le case del mondo – la notte dell’8 dicembre e rubava un addobbo, un vecchio regalo, un oggetto non molto visibile. VOI pensate l’abbia rotto il gatto; VOI pensate che sia rimasto in chissà quale scatolone. No. Era lui, Babbo Natale numero 17. Il Ladro. 
Rubava ai ricchi per dare ai poveri? Macchè! Per dare a sé stesso. 
Gli piaceva avere l’Albero ed il Presepe più grandi del mondo. 
Pazzo di un numero 17. 
Ora, il numero 18 è un tedesco fanatico. Ha scoperto il magazzino “diverso” e si è ricordato di un oggetto che gli è sparito un Natale di 20 anni fa di cui non si era mai dato pace. Purtroppo il magazzino “diverso” non ha il catalogo digitale e cercare là dentro un piccolo oggetto di chissà quale forma è un delirio. 
Vuoi farmi lavorare in pace col nuovo capo? Eh?” – mi aveva preso improvvisamente per la collottola, mentre per il resto del tempo aveva camminato in cerchio muovendo esagitatamente le mani e parlando a sé stesso. Tanto che nel frattempo mi ero fatto un thè per dimenticarmi degli elfi. 

Io non avevo saputo aiutarlo. 
Ma quell’incontro con Babbo Natale e la Befana non lo dimenticherò mai. 
Ogni volta che ci penso mi viene da fumare. Ho iniziato di nuovo subito dopo quel 7 dicembre. Mi sono trovato un accendino in tasca con sopra incisa una birra dell’Oktoberfest e..voilà! Chissà dove l’ho recuperato. 
Sono quegli oggetti che recuperi, che perdi e non te ne accorgi nemmeno. 
Gli accendini sono come gli ombrelli, no? O come la decima pecora del Presepe...

Marianna Palmerini

***

Maya amava il Natale, trovava inebrianti le luminarie della città, le decorazioni dei negozi; profumava persino la casa spargendo ovunque scorze di agrumi e sorseggiava con piacere vari infusi speziati. Sua madre Emma invece rimaneva piuttosto indifferente all’atmosfera delle feste. Non che Maya avesse mai avuto una spiegazione in merito a quello strano fenomeno, ne prendeva semplicemente atto ogni anno, sperando che prima o poi la donna cambiasse idea. Con i pochi risparmi della paghetta aveva comprato un piccolo albero sintetico, che decorava con palline dai colori diversi. 
Avrebbe tanto voluto aprire quella scatola in legno – posta nello scaffale più alto del ripostiglio – con su scritto “Vecchie decorazioni da non usare”, ma era sigillata e ogni volta che chiedeva a sua madre che cosa contenesse, riceveva sempre la stessa risposta: “Tu fai finta che non esista”. 
C’era solo un addobbo natalizio che Emma ogni anno si prendeva cura di togliere da una sacca di pesante velluto rosso pieno di morbida ovatta: la statuina di un soldatino Schiaccianoci, proprio come quello dell’omonimo balletto, con tanto di giubba rossa, barba bianca, corona dorata e bastone di ordinanza; Emma era stata una ballerina professionista prima che Maya nascesse e lo Schiaccianoci di Marius Petipa era il suo balletto preferito, portava la figlia a vederlo ogni volta che quella rappresentazione era in città, soprattutto nel periodo natalizio. Maya gioiva nel vedere la madre che felice canticchiava tra sé le note tanto conosciute, seguiva i passi con un lieve movimento del capo, piangeva durante la danza dei fiocchi di neve. 
Sì, di quel periodo era decisamente quello il giorno che la ragazza preferiva. 
La notte della vigilia Maya fu svegliata da un tonfo, si girò verso sua madre che invece dormiva tranquilla e scese dal letto per andare a vedere cosa fosse successo. Era certa che il rumore fosse stato in sgabuzzino e mentre vi si avvicinava sentì anche dei lievi bisbigli, che crescevano di intensità man mano. Aprì la porta e accese la luce: i bisbigli sparirono ma si preoccupò non poco nel vedere la scatola in legno proibita che giaceva semi aperta sul pavimento, facendo trapelare tutto il suo contenuto. Erano delle decorazioni bellissime: tutte dipinte a mano, in vetro, ceramica, legno, di tutte le forme e dimensioni. Statuine a forma di Babbo Natale, cristalli di vetro; c’erano persino le statuette della favola di “Alice” di Carrol; di Pinocchio, una di un Mariachi col sombrero e tante altre. 
Il cuore della ragazza batteva a mille: se sua madre l’avesse scoperto? Se qualcuna di queste si fosse rotta nella caduta? Rimase incerta sul da fare quando d’improvviso una voce: “È tardi, è tardi è tardi! Che aspetti a portarci in un posto sicuro?” 
Dallo spavento per poco non fece scivolare il Bianconiglio dalle sue mani. 
“Tu parli?” 
“Shhh, o Emma potrebbe sentire!” Disse un’altra voce dalla scatola. 
“Ma che diavolo…” 
“Nessun diavolo ragazzina, noi portiamo gioia.” 
“Siamo rimasti chiusi dentro tutti questi anni a fare la muffa, altro che gioia!” 
Si lamentò un’altra voce. 
Maya era terrorizzata. Stava sognando? 
“Vamos vicino all’albero e te esplicheremo todo!” 
E lei molto lentamente, ancora in stato di shock, obbedì al piccolo mariachi. 
Una volta lì anche lo Schiaccianoci parlò: “Ce ne avete messo di tempo!” 
“Zitto tu, che sei l’unico che proprio non può lamentarsi!” Gli inveì contro Alice. 
“State tutti bene?” chiese Il Re di Cuori. 
“Io mi sono rotto in due pezzi, ma non sono grave.” Disse un angelo di coccio. 
“A me manca una punta.” Disse un intarsiato abete in legno. 
“Insomma voi chi siete?” 
Il Re di Cuori continuò: “Noi siamo le vecchie decorazioni dell’albero di Natale di Emma, alcuni di noi abbellivano addirittura l’albero della casa dei tuoi nonni a New York. Proveniamo da tutto il mondo, da tutti i posti in cui tua mamma ha vissuto e in cui ha viaggiato prima che tu nascessi. Vedi? Lui proviene da Amsterdam, lui da Stoccolma, io da Oxford...” 
“Viaggiava per via della danza?” 
“Non solo, era una passione che aveva in comune con tuo padre.” 
“Oh, stavi andando così bene…” disse un pennuto giallo su una calza grandissima con scritto ‘Sesame Street’. 
“Non preoccuparti.” Rispose Maya “Ho pochi ricordi di lui e mamma non ama parlarne.” 
“Dopo che tuo padre ha avuto l’incidente ricordare i momenti con lui le faceva troppo male e così ci ha messo tutti nella scatola.” 
“Ha messo tutti noi, non te.” 
“Alice ha ragione: tutti loro. Io sono stato risparmiato perché non faccio parte di quei ricordi.” 
“Io provengo da un romanticissimo week end a Praga proprio nei giorni di Natale”. Disse una campanella di cristallo. 
“Anche io sono stato comprato a Natale.” 
“Anche io…” 
“Pure io…” 
“Ora capisco.” Disse Maya “Ma perché parlate? La scatola è caduta per un incidente? Io non voglio finire nei guai!” 
“Abbiamo sempre parlato ma mai in tua presenza! È il tuo spirito natalizio che ti dà il potere di sentirci, io l’ho sempre percepito e mentre me stavo dentro l’ovatta ho proposto agli altri di provare il tutto e per tutto, sperando nel tuo supporto”. 
“Io non ho mai voluto parlarti!” 
“Oh Alice, lo Schiaccianoci non ha colpe, non credi? Vi prometto che farò il possibile per aiutarvi. Certo è che avete corso il rischio di rompervi tutti, siete così belli ma così fragili!” 
“In realtà Emma ha sempre avuto cura di noi, guarda qui.” 
La stessa cura con la quale Emma faceva riposare il soldatino natalizio era stata riposta nella scatola di legno; Maya diede un’ aggiustatina ai pezzi rotti, li pulì per bene e sostituì le palline colorate con quei nuovi amici che scintillavano alle prime luci dell’alba. 
Quello sì che era un albero di Natale super. 
“Credi che mi metterà in castigo?” Chiese la ragazza al soldatino di legno. 
“Ormai sei grande! Falle capire che il suo passato non deve essere un ostacolo alla sua vita, alla vostra vita e vedrai che non ci saranno più decorazioni natalizie rinchiuse, anzi, tante altre si aggiungeranno alla collezione!” 

E così fu. 

Dedicato a tutte le persone a cui manca viaggiare: non rinchiudete la progettazione di un viaggio futuro in una scatola anzi coltivatela perché prima o poi potremo tornare a vedere il mondo e lui non vorrà vederci impreparati! 

Elisa Pozzati
Ecco i Racconti di Natale del Laboratorio Condiviso di Scrittura.
C'è un po' di tutto, fantasia e realtà, dramma e stupidera.
Buona lettura da tutto il Lab e vi si dà appuntamento domani per l'ultimo esercizio dell'anno e, soprattutto, del Laboratorio.


8 Dicembre 
la pienezza di un numero 
il grembo di un’iniziale 

La Madre Immacolata 
l’inizio di Miriàm 
l’origine di tutte le Madri 

L’essere Madre 
l’essere corpo 

Sentire il corpo che non ha contenuto 
in un verbo che volge al passato 

Un senso di vuoto relativo 
da riempire con nuove concezioni 

Un futuro immediato 
uguale a tanti altri Natali passati 

Il rinascere nonostante tutti 
L’attesa di una magia 
che delude sempre qualcuno 

I giorni a seguire che si fanno leggeri 

Sopravvivere ogni volta 
per lasciarsi alle spalle 
il prossimo avvento.

Sirena Aliena









Dato che il Natale che sta per arrivare sarà particolarmente sfigato, mi sono detta che tanto valeva fare la sequenza e creare una specie di museo personale dei giorni di Natale andati a male. Dato che ho un certo numero di anni, ho avuto la possibilità di saltare di qui e di lì nei miei ricordi, e organizzare questa rassegna speciale. Fingete che il foglio che state leggendo sia decorato con foglie di agrifoglio e palle luminose intermittenti. Anche Santa Claus, se proprio ci tenete. 

1964 – Quell'anno mio padre portò a casa un albero così grande che fu difficile farlo passare dalla porta di ingresso. Quando lo issammo, la punta del pino si era ripiegata contro il soffitto, creando uno strano effetto, ricordava un gigante imprigionato. Una giraffa verde, un dinosauro gentile capitato per caso nel nostro appartamento. Impossibile infilzare il puntale sfavillante, sarebbe andato in mille pezzi. Ricordo che mia madre era molto nervosa, mentre Io mi divertivo un mondo a nascondermi sotto le accoglienti fronde odorose, con gli aghi che mi pungevano la faccia e le lucine che danzavano davanti agli occhi. Non mi importava se non c’era il puntale, amavo il mio compagno di giochi silenzioso e protettivo. A mia madre dava fastidio quell’odore insopportabile di resina e le mie incursioni di bambina visionaria. Mio padre aveva provato a socchiudere la finestra, ma il filo di corrente dava fastidio a mia madre e le procurava il torcicollo. Come se non bastasse, noi bambini le facevamo venire il mal di testa con quei litigi per i numeri estratti. Sai che c’è aveva detto mia madre, vado a letto. E così aveva fatto, portando con sé la sua amata borsa dell’acqua calda. 

1970 – la zia Caterina era rimasta vedova da poco ed era venuta a passare il Natale da noi. Mio padre ci aveva minacciato: non dovevamo per nessun motivo parlare dello zio Giulio. Ma fu lei che lo nominò, chiedendoci se avevamo ancora le costruzioni che ci aveva regalato lo zio qualche anno prima. Fummo assaliti dal panico, dove cavolo le avevamo messe? E se la zia le voleva vedere, fare una casetta per passare il pomeriggio, cosa avremmo potuto dirle? Che eravamo così cattivi da aver perso le costruzioni dello zio? Fu mio fratello a trarci di impaccio. Disse che avevamo aderito ad un’iniziativa di raccolta per i bambini terremotati e ci era sembrato così bello donare il regalo dello zio. La zia si era commossa, l’avevamo scampata bella. Ma il peggio doveva ancora venire. Mia madre, apparecchiando la tavola, si era accorta che la tovaglia di lino bianca era macchiata. La zia, prontamente, l’aveva rassicurata, dicendo che andava bene la tovaglia di tutti i giorni, in ogni caso le macchie si sarebbero potute nascondere con i bicchieri. Anche mio padre era di quell’avviso, e aveva preso l’iniziativa di occultare i terribili segni del misfatto. Per tutta la durata della cena mia madre non gli rivolse più la parola. Al momento di tagliare il panettone, ci comunicò che aveva il mal di testa e preferiva andare a coricarsi. Guardammo alla televisione Stanlio e Olio, con il volume molto basso, per non dare fastidio alla mamma. 

1979 – Ormai eravamo diventati grandi e del Natale non ci importava più niente. Ascoltavamo canzoni intitolate: love will tear us apart, again. Eravamo sempre vestiti di nero. Io mi ero tagliata i capelli a spazzola e mettevo il gel. L’università andava male, bivaccavamo nei corridoi della facoltà per non stare al freddo, insomma, la mia carriera scolastica stava andando alla deriva. Non parliamo di quella sentimentale, perché lì era un’ecatombe. Mia madre aveva cucinato spaghetti e una frittata, tanto la cena di Natale sarebbe durata al massimo mezz’ora. Mio padre aveva iniziato una cura per la depressione, che non dava grossi risultati. Forse fingeva di prendere le pastiglie e le buttava nella spazzatura? Non indossava più la sua impeccabile giacca da camera, ma un golf arancione tutto consumato sui gomiti. Ad ogni modo, era suonato il telefono. Era il solito tizio che cercava mia madre. Lei era corsa in corridoio, togliendosi il grembiule in fretta e furia. Quando era tornata, sembrava ringiovanita di dieci anni. Le avevo detto che l’albero di Natale era spento, probabilmente le luci si erano fulminate. Mia madre aveva risposto che non aveva importanza, tanto era l’ultimo anno che lo facevamo. 

1987 – Mio padre se ne ere andato da poco, per un male incurabile, come si diceva allora. Io mi ero trasferita dal mio fidanzato, che era colto e intelligente, ma aveva un debole per l’eroina. Durante le feste faceva sempre dei buoni propositi e si chiudeva in casa per non vedere nessuno, alle volte lo trovavo chiuso in bagno e mi sa che non era così vero che non vedeva i suoi amici. Mia madre aveva un fidanzato nuovo, quello delle telefonate si era prontamente dileguato quando aveva scoperto che mio padre si era ammalato in modo irreversibile. La nuova fiamma della mamma era un farmacista in pensione, piuttosto benestante, ma a sua detta molto guardingo nei confronti delle donne per via di un divorzio accidentato. Si erano conosciuti per una simpatica coincidenza: un’agenzia immobiliare aveva fissato ad entrambi un appuntamento alla stessa ora per visionare un appartamento in vendita. Quasi come “Ultimo tango a Parigi”, avevo detto a mia madre, che però non lo aveva visto. Quella sera lei non era né triste né allegra. Se ne stava in piedi a guardare la sedia di mio padre, con le mani impiastricciate di pastella per friggere. Cosa hai le avevo chiesto, ma non mi aveva risposto, il campanello aveva suonato, va ad aprire deve essere Remigio mi aveva detto. In effetti, non assomigliava per niente a Marlon Brando. Aveva un portamento goffo e non aveva la classe di mio padre, che metteva la cravatta anche per andare dal tabaccaio. Remigio, però, produceva dell’ottimo barbera. Per inciso, va detto che non ho mai più mangiato carciofi fritti buoni come quelli che faceva mia madre. 

1996 – Anno horribilis, Natale di merda. Sulla soglia dei quarant’anni, ero stata lasciata per una ventiseienne giovane e flessuosa. Niente di nuovo sotto il sole. Lacrime a profusione, problemi economici, crisi esistenziali acute, amiche che durante le feste ti trascinano da una parte all’altra della città come un sacco vuoto, ma ingombrante. Ricordo di aver dormito nella camera da letto del fratello di una collega molto più giovane di me. Il ragazzo doveva avere una trentina d’anni, ma quella in cui mi trovavo era la dimora di un perfetto adolescente. Le lenzuola erano appallottolate in un grumo disorganizzato e sul pavimento erano sparpagliate cinque o sei scarpe da ginnastica enormi e puzzolenti. La mattina di Natale la giovane amica ed io avevamo fatto colazione a mezzogiorno, con un mal di testa da postumi alcoolici, con quello che avevamo trovato nel frigo: resti di pasta al forno, olive condite e carciofi fritti, ma niente a che vedere con quelli che faceva mia madre. Dalla finestra della cucina si vedeva il Po che scorreva, placido e maestoso, nel gelo silenzioso del giorno di Natale. Ci immaginavamo i pranzi di famiglia, le decorazioni e tutto il resto, mentre noi eravamo a tavola senza nemmeno la tovaglia a mangiare direttamente dalla teglia. La mia amica aveva gli occhi di un azzurro disarmante, mi parlava di musica (adoravamo entrambe i C.S.I.) ed era straordinario che qualcuno si stesse prendendo cura di me. 

Cari lettori, qui finisce per quest’anno la rassegna, non sono riuscita ad andare oltre, per sintetizzare dirò che ci sono anche stati Giorni di Natale Carini, Decisamente Belli, Abbastanza Noiosi, Uno o Due Splendidi. Scrivo per dire che sono grata a tutte le persone che hanno passato con me questa data fatidica, rivolgo un pensiero a quelli che mi hanno fatto soffrire, e dato che sto per raggiungere la saggezza della vecchiaia, dico: va bè, dai, non importa. 

So già che quest’anno passerò il giorno di Natale da sola. Il Covid me lo impone. Così, per imbastire il prossimo racconto, ho deciso che lo potrò passare a scrivere, con il sottofondo di una buona musica e un bicchiere di vino. Tema: i momenti più belli della mia vita. 

Non è mica facile raccontare la gioia, tutti quelli che amano scrivere sanno che è molto più semplice buttarsi nelle storie sfigate, proprio come ho fatto io in questa occasione. Però è così divertente! Auguri, amici! 

Barbara Fiore



La casa era immersa nel buio e nel silenzio. Un uomo sedeva su una sedia in cucina, davanti a sé una tazza di caffè fumante ed un'altra tazza, vuota. Mentre preparava il caffè, Ettore – questo era il suo nome – tirò fuori due tazze, ma poi la consapevolezza di quello che era accaduto lo colpì come un pugno allo stomaco. Ettore fissò la tazza vuota e le lacrime rigarono il suo volto segnato dall’età. 

Appena due settimane prima lui e la moglie Giulia si erano svegliati alla solita ora, e avevano percepito subito che qualcosa non andava. I dolori alle ossa e quella insistente tosse secca che non avevano avuto fino al giorno prima li avevano messi in allarme. Da lì in poi tutto era precipitato: la chiamata al medico, il fastidioso tampone al naso, le condizioni di Giulia che erano peggiorate sempre di più fino alla comparsa degli infermieri e della barella all’uscio. Ettore si era ripreso quasi subito dalla malattia, ma la moglie era ancora isolata in ospedale senza poter comunicare con Ettore e lui era rimasto solo in casa, preoccupato a morte per la sorte della compagna di una vita. I figli lontani ed ormai affermati nelle loro rispettive professioni non sapevano nulla. Ettore inventava ogni volta delle scuse per l’assenza della moglie, una volta al mercato, l’altra volta in chiesa, ed alla fine delle chiamate Ettore puntualmente si scioglieva in un pianto disperato. 

Nonostante il buio, il silenzio ed il dramma che si stava consumando in cucina, sotto il letto della camera padronale regnavano euforia ed eccitazione. Sotto il letto, infatti, c’erano tre scatole che una mano armata di un pennarello rosso aveva etichettato con le scritte “addobbi”, “presepe” e “luci”. L’eccitazione era palpabile, all’interno delle scatole. Tutti erano ansiosi di fare mostra di sé sull’immenso tavolone della sala, a partire dall’albero di Natale in plastica – ecologico, puntualizzava lui – il quale non vedeva l’ora che i suoi rami venissero aperti, alle luci led supertecnologiche che Giulia aveva assolutamente voluto comprare, al presepe con bue, asinello, pastori e tutto quello che serviva per rendere il Natale un po’ più speciale. 

Ma tutti avevano capito che qualcosa non andava. Ogni sette dicembre, avveniva sempre lo stesso rituale. Le scatole venivano tirate fuori ed il loro contenuto diligentemente messo sul letto, precedentemente protetto con un telo di plastica (“che chissà quanta polvere fanno!” diceva sempre Giulia), dopodiché si partiva con la sistemazione dell’albero ecologico e del presepe, il tutto coperto da addobbi e lucine. Ettore e Giulia impiegavano tutto il giorno ma alla fine, stanchi e soddisfatti, si sedevano in salotto mano nella mano ad ammirare la bellezza di un lavoro ben fatto. Quest’anno, però, nonostante il momento di tirare fuori le scatole fosse passato da un pezzo, non era ancora successo nulla. La preoccupazione serpeggiava nelle scatole. 

I giorni passavano lenti, tra l’ansia di Ettore per la moglie lontana e malata gravemente e quella degli addobbi che ormai avevano perso le speranze di far bella mostra di sé. 

Due giorni prima di Natale il telefono, normalmente silenzioso tranne che per le chiamate dei figli, aveva interrotto il silenzio della casa. 

“Pronto…” 
“Ciao Ettore, sono io”, la voce era stanca ed affaticata ma Ettore l’aveva riconosciuta immediatamente. “Giulia! La mia Giulia! Come stai amore mio, mi manchi tanto!” 
“Ciao Ettore”, aveva ripetuto la donna, “anche tu mi manchi tanto. I medici però mi hanno detto che sono molto migliorata e che posso ritornare a casa tra una settimana. Hai preparato gli addobbi?” 
“Certo, è tutto pronto”, aveva mentito spudoratamente Ettore “manca solo il bambinello da mettere nella mangiatoia”. 
“Quello lo voglio mettere io quando tornerò”, aveva detto Giulia con un tono fermo nella voce “non importa se sarà più tardi del solito”. 
“Certo, sarà il nostro modo per festeggiare la nascita, anzi la rinascita”, aveva detto Ettore che ormai non riusciva più a nascondere l’emozione, “aspettiamo tutti solamente te”. 
“Tutti chi?”, aveva risposto Giulia con un tono sospettoso nella voce. 
“Tutti noi: gli addobbi, l’albero, il presepe e le lucine”, aveva detto Ettore che ormai piangeva a dirotto.

La telefonata si interruppe con Giulia che ancora stava ridendo. Ettore corse al letto, tirò fuori le scatole e tra le sue lacrime di gioia e le manifestazioni silenziose di giubilo degli addobbi, la casa prese vita, si riempì di lucine e addobbi. Natale era finalmente arrivato, anche per Giulia ed Ettore. 

Erano tutti felici tranne il bambinello, che avrebbe dovuto aspettare ancora un po’ ma poi sarebbe diventato il protagonista indiscusso del presepe e se ne fece una ragione. 

Beppe Carta


Mamma Pallina Rossa guardò papà Pallina Blu con le greche sopraccigliari alzate e lo invitò ad andare in cantina a prendere le scatole con gli umani natalizi prima del risveglio dei bambini. Lui le sorrise bonario con i suoi fiocchi di neve glitterati belli accesi sulle rotondità e rotolò verso la porta. I loro figli, Orsetto Con Sciarpina, Cavallino Dorato e Folletta Natalizia, aspettavano l'otto dicembre praticamente tutto l'anno, con grandissima trepidazione.
Mamma Pallina Rossa adorava più di tutto iniziare ad addobbare l'albero con le stelle del cinema, delle più sfavillanti e sorprendenti, e non si limitava ai più banali attori di Hollywood ma andava a trovare elegantissimi attori francesi del cinema d’essai e le più esagerate star bollywoodiane. L'anno poi del cinema spagnolo con tutti i cast di tutti I film di Almodovar non se lo sarebbe dimenticato mai nessuno.
Dal canto suo papà Pallina Blu preferiva di gran lunga appendere gli addetti alle professioni manuali e si divertiva un mondo a posizionare maniscalchi, panettieri, pittori e ciabattini. “Metalmeccanici come se piovessero!” era il suo motto, ma la spiritosa mamma Pallina Rossa lo correggeva sempre con “Metalmeccanici come se dovessero!” e si facevano tutti insieme grasse e lucide risate mentre i bambini un po' attoniti appendevano il logo della Fiat e della Pirelli. 
I più piccoli invece impazzivano ad aggiungere le schiere di ballerine coi tutù rosa, le pattinatrici, i giocatori di palla canestro e i venditori di caldarroste. Una aggiunta dell'ultimo minuto dei programmatori software, qualche litigio su chi dovesse piazzare i contorsionisti e i clown, e il gioco era fatto. Un festoso albero di Natale con le più splendide e varie umanità natalizie dispiegate nella loro sfavillante eleganza. 
Sotto l'albero, si sarebbero presto accumulati i regali: laccetti dorati dei più svariati modelli, stencil per greche glitterate, soffici cuscinetti da riposo, coroncine plastificate di moderna tecnologia e lucido per plastica per essere sempre eleganti in ogni occasione. 
Che ricorrenza splendida l'otto dicembre, un giorno perfetto per la famiglia Addobbi. 

Marina Alice Cibin



"Facciamo il presepe quest'anno?"
"No, troppo lavoro, non ho tempo"
"E daiiii"
"NO!"

"Facciamo il presepe quest'anno?"
"No, quest'anno no"
"E daiiii"
"NO!"

"Il presepe?"
"No, due palline sull'albero e ci togliamo il pensiero"
"Ma daiiii"
"NO"

Lo scontro di volontà tra me e mia madre si svolgeva sempre uguale ogni 8 dicembre. Io ero una bimba, piccola, gracilina e decisamente caparbia. Una testa tonda, dura e riccia in bilico su un lungo mucchietto d'ossa. Lei era una donna giovane, lavoratrice, maniaca del controllo e dell'ordine. E il muschio, si sa, fa disordine.

Alla fine mia madre, distrattamente, si lasciò sfuggire un "Il prossimo anno" e io, 365 giorni dopo, mi presentai a riscuotere il mio obolo di carta, plastica e neve finta.
"Me l'hai promesso" le dissi mentre lei stazionava sul water. Meglio prendere il nemico di sorpresa. Esibendo quel tono e quello sguardo tipici dei bambini dalla morale inattaccabile, i principi saldi e l'animo bacchettone.
"Hai ragione" sospirò. "Ma non ora, devo andare a lavoro"
"Lo farò io" proposi, in qualità di vera appassionata natalizia e – come si sarebbe scoperto con gli anni – unico membro della famiglia portatore del gene della creatività.
Lei vacillò, sospirò e poi indicò la lungagnona alle mie spalle, "Fatelo voi due, mi raccomando".

La lungagnona era mia sorella, maggiore di 8 anni, Maria. Già un'adolescente, poco interessata agli addobbi natalizi e molto più ad uscire con le amiche, che però quel pomeriggio mollò tutto per mettersi all'opera con me.
Il pastore, la fornaia, "Questa sembra la Loren", pecore a profusione, cigni e papere a rincorrersi su uno specchietto, le montagne, "Accartoccia la carta", il cielo stellato, le lucine, i re magi, "Perché ne abbiamo due neri?" "Boh", Gesù bambino, "Ma lui non arriva a mezzanotte?" "Sì, ma il nostro è attaccato alla mangiatoia" "Prendi il cotone, soffoca il bambinello". Fatto.

Il risultato finale ci parve perfetto e attendemmo con ansia e orgoglio il ritorno di nostra madre dal lavoro.
"Ta daaaaaaaaa" allargammo le braccia verso la scrivania sacrificata per l'occasione.
"Ma che bello, brave!"
"Grazie!"
"Però..." 
Spostò pecore, Re magi, papere e pastori. Riconfigurò montagne, impianto urbanistico e disposizione luci. "Ecco, così va molto meglio".
"Che ti puoi aspettare da una che fa polemica sulle barzellette" sciabattai via offesa nell'orgoglio e nell'estetica.

Solo dall'anno successivo la maniaca del controllo si arrese, la scenografa Pancrazia ebbe la meglio e la lungagnona Maria abbandonò i pastorelli in favore del fidanzatino.

Mia madre ed io abbiamo sempre avuto questo modo di rapportarci l'una con l'altra. Anzi col tempo, i nostri scontri sono diventati meno sottili e più espliciti, anche esplosivi, quando necessario. Dovreste sentire le nostre telefonate, che si parli di politica, scelte di vita, o sugo col tonno, non ci tiriamo mai indietro da esprimere la nostra ferrea opinione, quasi sempre contraraia a quella dell'altra. La lungagnona si chiede sempre perché io non lasci mai correre. Il perché non lo so, o forse sì, perché questo è il mio modo di essere figlia di mia madre. E quello è il suo modo di essere madre di questa figlia. 
E per noi, tutto sommato, funziona.

Jane Pancrazia Cole


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