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La figura di Lidia Poët ultimamente è diventata molto popolare grazie a una serie su Netflix ma, non per darmi delle arie, io le dedicai un racconto più o meno un paio di anni fa. Quel che si dice: precorrere i tempi!

Eccola la storia di Lidia secondo me: 

"È successo, è passata!" gridò Luisa, la nipote prediletta, precipitandosi nello studio di zia Lidia. "Quanta agitazione" commentò la donna, sfilandosi gli occhialini che portava in bilico sulla punta del naso. 
"Ma non sei contenta? È una vita che aspetti che questa ingiustizia sia sanata". 
"È vero" sorrise la donna, "ma che io sia dannata se gli darò la soddisfazione di vedermi agitata. Agitate, umorali, troppo sensibili, a loro piace vederci così, come dei cuccioli iperattivi da vezzeggiare, sgridare e, soprattutto, tenere al loro posto"
"Capisco ma da oggi il tuo posto sarà quello che ti compete, finalmente"
"Vero cara, non avrei potuto dirlo meglio… e ora stappiamo lo spumante che ad esser compassata ci penserò domani!"

Il giorno dopo dallo studio dell'avvocato Poët, fratello di Lidia, partii una piccola spedizione – formata da parenti, amici e nipoti –, alla cui testa camminava spedita Lidia stessa, elegante, con i capelli perfettamente acconciati e un filo di perle a sottolinearne la femminilità. 

Il segretario alzò lo sguardo stupito quando vide presentarsi davanti allo sportello quel gruppo vario e numeroso. 
"Desidera?" chiese a Lidia. 
Lei, tirando fuori dalla borsa tutti i documenti che sapeva necessari, si limitò a dire: "Nulla, solo il posto che mi spetta", provocando l’ilarità dell’affezionata nipote. 

Era il 1919 e Lidia Poët, all'età di 65 anni, poteva finalmente rientrare e, questa volta, rimanere nell'Ordine degli avvocati. 

Laureatasi a Torino il 17 giugno 1881, svolto il praticantato e superato l’esame di abilitazione alla professione forense, Lidia Poët aveva chiesto ed ottenuto l’iscrizione all’Ordine. Prima donna in Italia. Ma veloce com’era stata ammessa era anche stata estromessa, con gran soddisfazione delle voci scandalizzate che, nel frattempo, si erano levate nella penisola e non solo. 

ll Procuratore Generale del Re, infatti, aveva impugnato l’iscrizione della Poët con motivazioni che ora tutti troveremmo risibili. Le donne, tra le altre cose, vennero giudicate troppo pure per mischiarsi con le faccende triviali del tribunale e troppo schiave della moda per mantenere il giusto decoro. E nessuno, allora, giudicò il Procuratore stesso troppo prevenuto per permettersi un giudizio obiettivo. 

Lidia, nonostante l’espulsione dall’Ordine, continuò a fare il suo lavoro, almeno in parte, ad occuparsi dei clienti, redigere documenti, lasciando però che li firmasse il fratello, le cui giacche classiche, ovviamente, non rischiavano di arrecare imbarazzo alla toga. 

Nel 1919, però, la legge numero 1126 ammise finalmente le donne all’esercizio delle libere professioni e Lidia Poët divenne la prima donna d’Italia, iscritta all’Ordine degli avvocati. L’Ordine di Torino, per la precisione. Un orgoglio per lei e per la città.

"Ragazzi, mi dispiace ma sono positivo". 
Sono iniziati così, con questo messaggio in un gruppo whatsapp, 16 giorni indimenticabili. 

Niente di originale, ci sono passati in molti durante le feste. Ma Marito ed io abbiamo vinto il bonus di trascorrere i suddetti 16 giorni nella nostra tanto desiderata casa nuova, talmente nuova da essere ancora senza cucina, senza porte e con il citofono fuori uso. 

Dal 29 dicembre al 14 gennaio. 
Isolamento preventivo da contatto con positivo, diversi test rapidi negativi, "Va tutto bene", due giorni di febbre, "Sarà solo una banale influenza", improvviso mal di gola bastardo, "Staremo isolati qui per sempre e non riusciremo mai a finire la casa, il mondo ci odia!”. 
Due test molecolari (1 a testa) fatti in mezzo al nulla nebbioso e malaugurante di Orbassano. Positivi. "Te l'ho detto che il mondo ci odia!". 
Di conseguenza,10 giorni di isolamento obbligatorio. Intanto passa tutto, per fortuna, mai stati così in forma, mai stati così annoiati. 
Ordiniamo la spesa online, non funziona il citofono, non si apre il portone, "La lasci lì, arrivoooo" urla Marito bardato come in CSI. Non c'è il frigorifero, "Tutto sul balcone". Mangiamo pane formaggio e prosciutto oppure pane prosciutto e formaggio. 
Il mio compleanno agli arresti domiciliari, "Tanti Auguri!". Ci vuole qualcosa di caldo, mamma Cole cucina, papà Cole (ultraottantenne) consegna, non funziona il citofono, non si apre il portone, "Lascia tutto lì, non ti avvicinare, per l'amor di Dio!" intimo da dietro la FPP2, che mi rende innocua ma in cambio mi manda in cancrena le orecchie. 
Passati 10 giorni dal molecolare, ci mettiamo in coda davanti alla farmacia. Entro dopo Marito, "Le ha pagato lui il tampone" fa ammiccante il farmacista. Sono definitivamente passati i tempi in cui gli uomini mi offrivano da bere. Quanta amarezza. 
Test fatti, attendiamo i risultati, "Ci vorrà un'oretta". Arriva un'email molto prima, "Non si apre, cellulare maledetto!", un'ansia che neanche ai tempi dell'università. Negativi! "Siamo liberi! Vai a prendere il cane! Non rientrerò mai più a casa, metti in moto e giriamo per la città, guarda com'è bella Torino, c'è anche il sole, la vita è meravigliosa!" 

È passato un mese abbondante, ora abbiamo la cucina, un citofono funzionante e persino le porte. Ma che esperienza indimenticabile è stata. 

Questo testo è dedicato a cuggi, l'untore inconsapevole divorato dai sensi di colpa, e a Elena, costretta in pochi metri quadri a un passo dall'esaurimento nervoso. 

(*) Il cane ha approfittato del nostro isolamento per soggiornare dalla nonna. 
(**) Sì, i virgolettati più isterici sono tutti miei.


“Lo fate il viaggio di nozze?”
È questa la domanda che ci fanno tutti appena sanno dell’imminente matrimonio.

“Boh, non lo sappiamo, dobbiamo ancora decidere”
È questa la risposta che diamo a tutti.
All’inizio.
Poi, a poco a poco, l’idea si fa strada nei nostri cervelli, i preventivi richiesti non pretendono nessun nostro organo interno come anticipo e così, al fine, decidiamo.

“Stati Uniti” è la nuova risposta. La mia più specifica “Stati Uniti Nord Orientali“ per poi partire con l’elenco delle tappe principali: New York, Washington, Pittsburgh, cascate del Niagara, Ithaca (no, non quella di Ulisse) e Boston. Lo ripeto a chiunque, decine di volte, nascondendo malamente l’eccitazione. Perché Pancrazia vostra, la donna di mondo, alla veneranda età di ventrentquarant’anni, non è mai stati fuori dall’Europa. E sempre la suddetta Pancrazia vostra da cinque anni esibisce nella propria cucina un quadro dedicato a New York. Una speranza, un progetto e ora, finalmente, un biglietto!

E così il 12 giugno c’imbarchiamo finalmente per questo viaggio. Tutto bello. Tutto stupendo, non fosse che sempre la Pancrazia di cui sopra ha un piccolo, insignificante, minuterrimo problema: non ama volare. Non amo volare.

Non che ciò mi abbia mai impedito di viaggiare ma fino a quest’occasione le mie esperienze si sono limitate a viaggi lunghi al massimo un paio d’ore. Paio d’ore passate tutt’altro che rilassata. Come sopravvivere dunque alle nove ore tra Roma e New York? I multimedia! Sì, quello schermetto che, in caso di viaggi lunghi su grandi apparecchi, ogni passeggero si trova davanti e che pare offrire tutte le distrazioni possibili: film, telefilm, news e persino video giochi.

L’aereo decolla e io mi attacco a telecomando e cuffiette come ai miei unici salvatori. Tutto questo mentre il marito, dopo aver sacrificato le sue mani alle mie unghie durante il decollo, si guarda "Una poltrona per due" e ride di gusto. Il fatto di averlo già visto un milione di volte non scalfisce il suo entusiasmo. Per fortuna tra i film da scegliere non ci sono quelli di Bud Spencer e Terence Hill, altrimenti lui si piazzerebbe su quell’aereo per sempre e io farei il viaggio di nozze da sola.

Comunque, mentre Eddie Murphy imperversa sul suo schermo, sul mio si susseguono nell’ordine: Tetris, Modern Family, I Griffin, Animali Fantastici e dove trovarli… che se non ci pensa la Rowling a darmi serenità non so chi potrebbe riuscirci. Ed è proprio guardando le avventure di Newt Scamander – sotto il plaid, con il sedile reclinato – che alla fine mi addormento. Che meraviglia, io in aereo non dormo mai. Questa volta sì. Questa volta mi riposerò pacifica per poi zompettare negli Stati Uniti più carica che mai. Apro gli occhi, mi stiracchio, chissà quanto manca all’atterraggio, un’ora? Poco di più? Guardo lo schermo: 6 ore e 35 minuti! Credo di aver fatto pisolini più lunghi in metropolitana. 

E così seguono 6 ore di noia NOIA NOIAAAA. Guardo spizzichi e mozzichi di tutti i film a disposizione, tutti film che tra l’altro ho già visto, sbuffo, m’irrito per la calma di marito, m’irrito perché sono tutti sereni, mi annoio oltre ogni immaginazione. Poi però, finalmente, il comandante annuncia che stiamo per atterrare e io ripianto le mie unghie sulla mano paziente di marito. Perché è proprio nel momento in cui l’aereo punta verso terra, lo stomaco ti sale in testa e tutto traballa, che pensi che, tutto sommato, lassù a vederti "Una poltrona per due" non ci stavi tanto male.

Continua…

Se siete miei amici “dal vivo” lo sapete.
Se siete miei amici sui social lo sapete.
Se non appartenete a nessuna delle due categorie precedenti, o siete molto distratti, è possibile che non lo sappiate e quindi ve lo dico io: mi sono sposata. Il 9 giugno. Giuro.

È per questo che sono andata negli Stati Uniti, in viaggio di nozze. Questa serie di post non sarà dedicata al matrimonio ma al viaggio. No, niente simpatico aneddoto sulla scelta dell’abito. No, nessun racconto hot riguardo all’addio al nubilato (i tre addii al nubilato che mi hanno organizzato, 3!). E no, neanche un resoconto dettagliato circa le parole che ci siamo scambiati il marito ed io. Sono una blogger (o forse lo ero, data la frequenza dei post negli ultimi anni) abituata a parlare dei fattacci propri ma voglio comunque esercitare il mio diritto al pudore.

Non racconterò nulla delle nozze ma posso dirvi che è stato un matrimonio divertente. Una festa molto più che un pranzo. Certo, non c’era il sole, ha persino un poco piovuto ed io per le prime due ore ero tesa come una corda di violino, ma poi gli amici hanno cominciato a ballare, mi sono rilassata e mi sono divertita.
Il marito invece se l'è goduta fin dall’inizio e in tutte le foto sfoggia un sorriso che levati.

Sono una donna poco organizzata e quindi sono stata una sposa poco organizzata. Nessun miracolo da nubenda si è compiuto, io sono sempre io e mi sono dimenticata le scarpe di ricambio. Ma, dato che ad ogni problema c’è sempre una soluzione, quando i piedi hanno cominciato a dolere ho scelto di andarmene in giro scalza alla “chi se ne fotte”.

Ho avuto la cerimonia più bella del mondo, perché l’ha celebrata un amico, il migliore. Le letture e le musiche le abbiamo scelte marito ed io. Testimoni e amici ci hanno prestato le loro voci. Eravamo in una saletta piccola, tutti appiccicati, non è partita subito la marcia e io, sibilando tra i denti “la marcia, la marcia” mi sono rifiutata di entrare fino a quando non ho sentito la musica giusta. Poi, quando il celebrante ha cominciato a parlare, il vociare di fondo non si è chetato e sempre io, con l’eleganza che mi contraddistingue, mi sono girata e ho cazziato gli invitati “Sssssshhhh è arrivato fin da Catania per questo, lo vogliamo ascoltare o no?”
Insomma una sposa serena.
Però, vi giuro, la cerimonia è stata proprio bella.

Al matrimonio c’erano tutti, o quasi, qualcuno non ha potuto, a qualcuno abbiamo dovuto rinunciare, avete presente cos'è compilare una lista invitati per un evento del genere? Una tragedia!
Tra i presenti menzione d'onore a mio zio del Belgio che ha più di 80 anni ed è tutt’altro che in salute. Fino all’ultimo ci ha detto che non ce l’avrebbe fatta e invece, due giorni prima delle nozze, ce lo siamo ritrovato a Caselle. Aveva preso il biglietto da mesi e ci aveva fatti tutti fessi. Noi Cole abbiamo la pellaccia dura e l’animo mattacchione.

C’erano i miei genitori, i nipoti, mia sorella, Mati, le amiche, gli amici, i cugini, gli zii, la famiglia del marito con una mascotte di pochi mesi. C'erano quelli scatenati e quelli più tranquilli. C'erano persino  la saldatrice di Flashdance, Frank Sinatra e tutto il Trono di Spade. Parevano tutti felici. Felici per noi.

Ho lasciato i capelli semi sciolti perché volevo rimanere me stessa quel giorno, niente piega e impalcatura laccata ma ricci liberi e voluminosi, che sono il mio marchio di fabbrica. Però, ogni volta che qualcuno mi abbracciava, pensavo “cacchio mi schiaccia i capelli!” ma poi mi scioglievo, perché io mica li ho mai ricevuti tanti abbracci così, e quando mi ricapita?

A noi, gli sposi, è piaciuto tutto. Perché è stato a modo nostro. Che il bello di sposarsi dopo una certa è anche questo, si abbassano le aspettative degli altri e si alza il tuo livello di "mi sposo io e decido io". Anche se chi mi conosce dice che quel livello io, probabilmente, ce l'avrei avuto altissimo anche a vent'anni...

Ora basta però, che mi ero promessa di non raccontare nulla.

Il 12 giugno siamo partiti per gli Stati Uniti e voglio scrivere di questo.

Continua…
C'erano una volta un Re e una Regina, 
giovani, belli ed innamorati. 

Vivevano in un meraviglioso Castello e sognavano che un piccolo erede venisse a rallegrare la loro dimora. 
Sogna che ti risogna, un giorno il desiderio si compì e nacque una piccola Principessa. Ma proprio piccola, eh! Alta quanto il moccolo di una candela. 

Nessuno sapeva spiegarsi il perché e il per come da due ragazzoni così fosse nata una tale frugoletta. Forse la bambina era stata vittima di un sortilegio? Oppure la Regina aveva mangiato la zuppa restringente del Cuoco BuonoANiente? O ancora il Re era divenuto bersaglio di un folletto dispettoso? All'inizio tutti si fecero mille domande, ma poi la piccola imparò a sorridere e a nessuno importò più di nulla. La testolina coronata era una preziosa benedizione per tutto il regno, che ne ammirava i piedi minuscoli, le mani sottili, e gli occhi tondi tondi perfetti per studiare il mondo. 

Ella era un gioiellino che poteva tuffarsi in una ciotola di zuppa, dormire raggomitolata nel guscio di una noce, o giocare a nascondino tra le tazze di tè. 
Il papà, durante i ricevimenti regali, se la metteva nel taschino del tait, come un fiore all'occhiello, proprio sopra il cuore. 
La mamma, tenendola sul palmo della mano, le insegnava a ballare il valzer, più leggera ed elegante di qualsiasi altra principessa. 

Certo, non mancavano le preoccupazioni, bisognava stare attenti a non schiacciarla o al furore del vento che poteva trascinarla via. Ma le attenzioni in più erano ripagate dal sorriso della piccola e dall'amore che gonfiava i cuori del Re e della Regina. 

Gli inverni divennero primavere, l'amore cresceva, eppure la Principessa rimaneva sempre piccina. Ma ciò non le impediva di godere del mondo e degli amici. Guardava gli spettacoli teatrali arrampicata sulla spalla di uno dei suoi cugini. Scriveva lettere d'amore usando la rugiada delle rose rosse come inchiostro. Andava in gita aggrappata al campanello della bicicletta della sua migliore amica, “Drin drin” faceva e giù tutte due a ridere. 

Anni seguirono ad anni, tutto cambiava ma rimaneva uguale, fino a un giorno inaspettato. 
Quel pomeriggio la Principessa, ormai raggiunta l'età adulta, si era coricata per un pisolino di bellezza, ma poi uno strano fastidio ne aveva causato il prematuro risveglio. Era cominciato con un un friccicorio che era divenuto prima un curioso solletichio, ed infine un franco prurito. 
"Mamma, Papà, correte!" aveva chiamato immediatamente a gran voce. 
E i due sovrani si erano precipitati nella stanza della loro prediletta. 

Grande fu lo stupore quando la trovarono volteggiare a mezz'aria sopra il letto a baldacchino. Agitava le sue ali nuove di zecca. Ali dorate da Principessa delle fate! Dalla camera volò fuori dalla finestra fino al cortile, poi salutò i cavalli nelle stalle e, tornando nel palazzo, si mise a giocare tra le mille candele dei lampadari della sala da ballo. 
Volava e rideva felice, mentre tutti la seguivano con i piedi ben piantati in terra. 
“Attenta, tesoro”, le diceva la Regina. 
“Non ti stancare troppo”, le suggeriva il Re. 
“Le principessine per bene non dovrebbero spettinarsi così”, la sgridava bonariamente la vecchia tata.

Ma lei non ascoltava nessuno, felice com'era dell'incredibile scoperta. Di tutte le teorie proposte alla sua nascita, sortilegi, dispetti, malie, nessuno aveva pensato alla più ovvia, a un regalo. Lei era stato un Regalo. La Regina delle Fate aveva saputo del desiderio dei due saggi e generosi regnanti, e aveva deciso di accontentarli facendo loro dono di una delle piccole fate appena nata sul perfetto pistillo di una margherita. 

La Principessa si riempì d'orgoglio a sentirsi tanto speciale poi però guardò i suoi genitori e una fitta di dolore le trafisse il petto. 
Ogni fata, diventata adulta ha l'obbligo di svolgere i propri compiti, deve tornare nel bosco a proteggere piante e creature magiche. Nemmeno la bella Principessina poteva fare eccezione. 

Quindi scese a baciare le guance bagnate di pianto della sua mamma, e accarezzò il nasone rosso di commozione del suo papà. 
“Devo andare” disse. 
“Sì”, le risposero. Poi portarono le loro mani intrecciate all'altezza del taschino del tait, “Vai, noi ti terremo sempre qua”. 

"Arrivederci", disse la nuova Principessa delle Fate a loro e a tutta la folla che si era riunita commossa alla sua partenza. “Arrivederci” disse. E, prima di volare via, sorrise ancora.
One at a time

He walks briskly between tracks and shops.
Small steps under arches and down corridors.
Under arches and down corridors.

He wanders stealthily between suitcases and travelers.
Looking right and then left.
Right and then left.

He slips unseen from one floor to another.
He seeks the victim and finds the prey.
"Do you want it? It's ripe. One euro"

He sells corn on the cob.
At the station.
One at a time.


End.

Eccolo qua il mio secondo "anglo-parto".
Continuo il percorso, il viaggio, la sperimentazione con la lingua del bardo.
Cammino lungo questa strada fatta di ritmo, struttura e suono. 

"One at a time" è nato in italiano ma è stato parallelamente modellato anche in inglese, con diversi passaggi e correzioni dall'una all'altra versione. (Sì, tutto questo lavoro per poche righe) Infine è intervenuta la penna rossa della mitica Renée, l'amicaammmericana, che mi supporta, sopporta e sgrida come neanche una maestrina incazzosa:
"Sì, Pancrazia, il soggetto lo devi sempre mettere in inglese, non lo puoi sottintendere. Altrimenti sembri un'ignorante sgrammaticata"
"Ma mi spezza il ritmo! Oh Cielo, questa lingua infelice tarpa le ali della mia creatività!"
"Aoh, fly down, Sciecspir dei miei boots!"

Direi che il prossimo passo, la prossima sfida, sarà scrivere direttamente in inglese.
Ci sto decisamente prendendo gusto!

ps: la versione italiana la potete trovare su Humans Torino (Avete messo il like a Humans Torino? Non avete ancora messo il like a Humans Torino? Cosa aspettate a mettere il like a Humans Torino?!?! Mettete il like a Humans Torino!)
His story 

The tracks are on fire.

The old man walks and sweats in a wool coat.

He sees me from afar. I smile.
He sits next to me. He smells.

"Do you take the next train?"
"Yes"


I pull out the headphones from the bag. I select the music.

It's not enough.
He speaks.
I give up.
I listen.

He starts telling his story.

A difficult childhood.
A bad mother. A selfish mother.
She's still alive. She's still bad and selfish.

A happy youth.
The '80s full of women, business, money, and friendship.

And then: drama.
Wrong choices. No more friends.
Debts.
Prison.

"Were you in prison?"
"Yes, it was a big scandal"
He's happy to have my attention, finally.

He speaks.

I listen.
Listen and surf the web. I want to know the truth, his words aren't enough.

I find something.

The story is true.
Him? I don't know.
I can't recognize his old tired face in the young man smiling on my phone.

"From the hills to the jail. He could have helped me, but he didn't"
"Who?"
"Him"
"Him? Him?"
"Yes. He's a son of a bitch!"
"He died years ago"
"He's a son of a bitch. Anyway."


The end.


Siete arrivati fino a qua? Bene. Avete appena letto il mio primo racconto in inglese. Oooooooooh.
Era ormai da tempo che volevo provarci. Esprimermi in un'altra lingua. Trovare un ritmo diverso.
L'occasione di buttarmi in questo mare grandissimo e straniero (nell'ovvio senso della parola) mi è stata data da Humans Torino. La pagina facebook dove il mio socio Sergio ed io raccogliamo volti e storie da sotto, sopra e tutto attorno alla mole. La maggiorparte dello spazio è dedicata a foto accompagnate da brevi didascalie, ma sono presenti anche piccoli racconti rubati alla quotidianità d'inconsapevoli passanti. 

Nelle ultime settimane il socio ed io abbiamo deciso che sarebbe stato il caso di tradurre tutti i post di Humans anche in inglese, "che magari non guadagnamo neanche un like, ma comunque fa figo", abbiamo sentenziato all'unisono da cialtroni par nostri. Così abbiamo iniziato a lavorarci. Così ho(!) iniziato a lavorarci.
Prima ho scelto le didascalie più brevi, poi quelle più semplici, infine ho deciso che fosse tempo di provarci con un racconto. E oggi ci ho provato.
"His story" è il risultato di questo esperimento. Esperimento rivisto e corretto da nientepopodimeno che Renée, una delle Comari berlinesi. Non so se mi spiego!

E' stato faticoso ma incredibilmente stimolante poter rimettere mano alle mie parole, cercare un nuovo respiro, riadattare il tutto a una lingua diversa. Il racconto è sempre lo stesso ma è anche un altro. E io ne vado molto orgogliosa. Questo piccolo figlio, ammettendo che a qualcuno interessi, potrà essere letto da milioni di persone in più. Lui ha un passaporto che, almeno nei miei sogni, lo potrà far viaggiare. 
E' la prima volta che ciò accade a una mia storia. Ed era il momento che accadesse.

Quindi, volete farmelo un piacere? Mandate questo link a i vostri amici sparsi per il mondo. Fate "partire" questa piccola storia per il suo lungo viaggio. 
Grazie. Thank you.

N.d.A: la versione italiana del racconto la potete trovare qui.
Una storia vera. 
I binari bruciano.
Il vecchio col completo di lana passeggia sotto la pensilina.
Suda.

Mi punta da lontano. Sorrido. Mi si siede accanto.
Puzza.

"Anche lei deve prendere questo treno?" chiede.
"Sì" rispondo.
Tiro fuori gli auricolari. Seleziono la musica
.

Non basta.
Lui parla.
Mi arrendo.
Lo ascolto.
Racconta.

(...)

Volete sapere come finisce questa storia?
Seguite il link.
E se ancora non conoscete quella pagina fermatevi a dare un'occhiata.
E' roba mia. Ovvio che è roba mia.
Lampedusa, 3 ottobre 2013

Amore mio,
mia adorata Chara,
mia bellissima giovane moglie.

Quando ti ho salutato hai messo le tue mani sul mio viso e hai appoggiato la tua fronte contro la mia.
"Tornerai a prendermi?" mi hai chiesto.
"Tornerò" ti ho giurato.

Chara, dolcissimo amore mio, penserai che non ho mantenuto la mia promessa. Penserai che sono un marito infedele. Penserai che non ti amo abbastanza.

No. Non pensarlo. Non pensarlo neanche per un attimo.

Ho freddo e il mare si chiude sopra di me.
Ho freddo e mi scalda solo il pensiero di saperti al sicuro. Di saperti viva.

Tornerò Chara, tornerò dopo che avrai vissuto una lunga vita felice.
Tornerò per camminare con te. Tornerò per accoglierti.

Tu perdonami. Perdonami per non essere stato abbastanza forte. Ma giuro che ci ho provato. Ci abbiamo provato tutti.

Vivi, Chara, vivi anche per me.
Ognuno ha una storia da raccontare.
Come la ragazza coi ricci e gli occhiali dorati.
"Sono felice e disperata", dice prima di un sorso di Berliner.
"Dovrei fare un viaggio", pensa ad alta voce.

"Sì, lo dovremmo fare", le risponde l'amico che le sta seduto accanto.


Ognuno ha una storia da raccontare.
Io racconto le mie e quelle degli altri.
Ascolto.
Ingoio.
E poi risputo fuori.

Vere o finte.
Mie o no.
Dalle orecchie alla mano.
Dallo stomaco alla tastiera.

Ognuno ha una storia da raccontare.
Mentre te la racconta, te ne fa dono.
Mentre l'ascolti, ringrazi per la fiducia.

Ognuno ha una storia da raccontare e una vita da vivere.
Ognuno ha una storia da raccontare.

Come la barista dalla caviglia tatuata.

Ti serve una rossa in bottiglia mentre dice di sua madre:
"La conosco appena. Mio padre invece si è spezzato la schiena per me".

Ma da solo non è mai riuscito a stare. Una fidanzata dopo l'altra. Una donna dopo l'altra.
"Alla fine mi sono stufata e me ne sono andata"

Un lavoro. Una mansarda. Una vita indipendente. A 15 anni.
A quell'età devi stare attenta. Ti devi difendere. Ti fai venire la scorza dura. Fuori e pure dentro.

"Ho fatto le cose per bene. Non è mica facile quando ci si trova da soli così piccoli. Sono già passati dieci anni e non ho mai combinato un casino. E non ho mai avuto bisogno di chiedere aiuto", dice accarezzandosi la pancia.

E' orgogliosa.
Di sé. Del bambino che attende. Della famiglia che si sta costruendo.
"Non è successo per caso. L'abbiamo voluto."

Ognuno ha una storia da raccontare.

Ognuno ha una storia da raccontare.
Come l'uomo dalla cravatta gialla.
Ingoia piccoli sorsi di una bionda torbida e ad alta voce dice di suo padre: "Era bello come il sole! Ma io ho preso da mamma. Diciamo che sono simpatico. Un tipo"
Ride.

Il padre andò a comprare le sigarette. E sparì in una nuvola di fumo.
Sparì lasciando una moglie e tre figli.
Tre figli. Due femmine e un maschio.
"Da quando se ne è andato ho fatto sempre il mio dovere. Ho fatto l'uomo di casa."
Per quarant'anni si è caricato sulle spalle ogni responsabilità. Ha vissuto la vita che gli era stata assegnata, senza un dubbio, senza un ripensamento. Sapeva cosa c'era da fare e l'ha fatto.

"Le foto delle mie figlie", mostra orgoglioso. "Non sono bellissime?"

Per quanrat'anni ha fatto ciò che ci si aspettava da lui.
Poi, quando tutto era sistemato, quando tutte erano sistemate, ha aperto la porta e ha cominciato a camminare. Ha cominciato a vivere.

Non è scomparso in una nuvola di fumo. Non lo farebbe mai. Non potrebbe stare senza le sue donne.
"Le mie figlie hanno capito. Pure le mie sorelle. Persino mia madre. Mia moglie no"

"Frocio!" gli urlano da un tavolo.
Lui ride, paga da bere a tutto il locale e se ne va via con un inchino.

Ognuno ha una toria da raccontare.
Ciaf ciaf ciaf.

Sentite questo rumore?
Tranquilli, non è niente. Sono solo io che sguazzo nella mia pozza.
Io che, quando vengo a sapere di certe collaborazioni e progetti, mi sento contenta come una bimba a Natale e, metaforicamente ma non troppo, prendo a sguazzare felice come un ippopotamo nella propria pozza.
Mi rendo conto che l'immagine manchi di una certa poesia ma, secondo me, rende molto l'idea.

Ma qual è l'iniziativa che ha risvegliato in me tanta contentezza?  È quella di Giulio Mozzi, responsabile del blog Vibrisse, bollettino di scritture e letture.

A Giulio Mozzi è venuta un'idea deliziosa: un libro tutto fatto di ricordi d'infanzia.
Ma mica dei suoi. O meglio, non solo dei suoi. Ma anche dei vostri. Dei nostri.

Sono necessarie e sufficienti poche righe. Una scrittura semplice. Un episodio vero o verosimile, realmente avvenuto o frutto di un'antica e ormai inossidabile elaborazione.
L'obiettivo è quello di dare l'illusione che, cito direttamente da Mozzi, "questi ricordi siano di una sola persona dall’infanzia enorme, smisurata, infinita."

Ora lo capite perché sguazzo?
Vi buttate nella pozza insieme a me?
Io devo ancora scrivere il mio ricordo ma non credo che resisterò alla tentazione.

Accipicchia quanti siamo! Io sono la molestatrice sulla destra.

Spiegazioni più dettagliate del progetto le trovate direttamente qua. Per partecipare avete tempo fino al 30 settembre.

Ciaf ciaf ciaf.

Quello di oggi è il penultimo appuntamento con le repliche di Radio Cole.
Per l'occasione ripesco una delle iniziative più conosciute (nel mio piccolo) e di successo (nel mio piccolissimo) realizzate su queste pagine: il racconto a puntate "Adelina".

I lettori storici non l'avranno certo dimenticato. Agli altri, come sempre, buona lettura.

Vengo qua tutti i giorni. D'inverno il freddo e l'umidità mi entrano nelle ossa, ma in primavera con il sole ed il cielo limpido è un vero piacere passeggiare lungo i viali.
I visitatori della domenica sono tanti e diversi, ma in settimana ci sono sempre le stesse facce.
Le sorelle Zaccaria che avranno trecento anni in due.
La vedova Greco con la cofana color carta da zucchero, il rossetto e le guance dipinte, neanche avesse ancora settant'anni.
E poi quello scostumato del Cavalier Casotti che quando mi vede si toglie il cappello, mi saluta con un piccolo inchino e comincia con le sue chiacchiere: "Ma come la trovo bene signora Adelina", "Le andrebbe un caffè signora Adelina?", "Io vado sempre in balera, perché non ci viene anche lei signora Adelina?"
Ma per chi mi ha presa? Se il bastone non mi servisse per camminare gliel'avrei già spaccato su quella capoccia pelata.

Continua...
Nell'inverno del 2009 conobbi un artista che mi raccontò la sua storia.
Pochi mesi dopo io la raccontai a voi.
Ve la ricordate?
Domenico e Giovanni.
(Prima parte.)

Quando si è una ragazza di poco più di vent'anni si ha il guardaroba pieno di vestiti adatti ad ogni stagione.
Attenzione, non sto parlando di abiti nati per andare bene con ogni temperatura. Ciò sarebbe saggio e utile, e non è assolutamente questo il caso!
Parlo di frivoli abitini sottoveste che le ventenni si ostinano a portare in qualunque periodo dell'anno: per il veglione di san Silvestro come per il falò di ferragosto. Indifferentemente.
E' inverno? Ci si piazzano sotto dei collant ed un paio di stivali. E' estate? Li si abbina con dei sandali.

Se poi sei una ragazzetta inglese ubriaca i sandali te li metti pure a gennaio, ma questo è un altro discorso.

Io e le mie degne amiche, in quanto ventenni, quel lontano 31 dicembre del 2000, a 1200 metri d'altitudine, tra le vette innevate piemontesi, scegliemmo un abbigliamento che sarebbe stato perfetto anche per un aperitivo ai Caraibi.
A nostra difesa voglio solo ricordare che la festa si sarebbe dovuta tenere in un caldo appartamento. Teoricamente un giaccone ed un paio di scarpe chiuse sarebbero stati più che sufficienti per superare il tragitto auto-portone. Ma così, ovviamente, non fu.

Gnocche più che mai raggiungemmo tronfie l'ingresso del party. Suonammo il campanello, l'uscio si aprì, e in un attimo fummo travolte da un branco di piumini, sciarpe, doposci e cappellacci di lana.
"Evviva: andiamo ad aspettare la mezzanotte sulle piste!", vociò gaio l'informe gruppone adeguatamente abbigliato mentre guadagnava l'uscita.
"...", rispose pietrificato il manipolo di minigonne fascianti e mocassini appena lucidati. Perché, a ben guardare, anche gli esponenti maschili della comitiva avevano optato per un abbigliamento leggero ed urbano.

Dopo interminabili minuti trascorsi sulle scale a guardarci con gli occhi persi. Il più "coraggioso", il più incosciente, il montone capo del gregge di pecoredilanaprivate cui appartenevo, si erse nel suo metro e 60 cm scarsi di altezza e, forte del calore infusogli dal limoncello bevuto prima di uscire, esclamò con voce stentorea: "Non vorremo mica farci ridere dietro da questi? Non vorremo mica fare la figura dei soliti fighetti di città? Andiamo anche noi sulle piste!", urlò precipitandosi verso l'uscita.
E noi, idioti, dietro a lui.

Ovviamente io, che mi metto il golfino anche a luglio, cercai di oppormi.
"Ma guardate che moriremo di freddo."
"Quante storie! Dovremo resistere solo pochi minuti."
Pochi minuti.
Pochi minuti un par di balle.
Stazionammo sulle piste da sci dalle 11 all'una di notte.
Voi avete idea di cosa voglia dire stare due ore vestiti da sera in piedi su una pista da sci? Io sì.
Voi avete idea di cosa voglia dire avere talmente freddo da desiderare di darsi fuoco? Io sì.
Voi avete idea di cosa si provi ad avere un vestitino leggero con sopra un cappottino altrettanto leggero e, per sbaglio, finire in mezzo ad una battaglia di palle di neve? Io no. Ma la mia amica C sì, e ancora va in analisi per superare il trauma!
Fu un vero miracolo che nessuno di noi perse per il freddo qualche falange. Io, a distanza di anni, ancora mi conto con orgoglio e commozione le mie dieci cazzutissime dita dei piedi che, nonostante l'ipotermia acuta e contro ogni legge fisica, quella notte scelsero di rimanermi fedelmente attaccate.

Grazie care, approfitto di questa occasione per ringraziarvi pubblicamente.

Furono le 2 ore più lunghe della mia vita e, ad onor del vero, non solo della mia. Ben presto lo sconforto ci travolse tutti e, con l'ultimo briciolo di orgoglio e folle irrazionalità rimastoci, decidemmo di non ripresentarci davanti all'uscio dei simpatici montanari che ci avevano tirato un pacco sì grande e sì gelido. E prendemmo a vagare sconsolati per il paese, cercando riparo in ogni locale, ogni baretto, ogni pertugio dell'amena località sciistica.
Ormai eravamo in giro e il capodanno l'avremmo festeggiato così: a membro di segugio!

Ogni posto era strapieno e noi eravamo troppi: mentre il primo riusciva a raggiungere il bar e ordinare qualcosa, due terzi del gruppo erano ancora fuori a spingere, spintonare, e cercare con poca fortuna di entrare.
Nel disperato ed inutile tentativo di scaldarci ci attaccammo ad ogni forma di alcool disponibile. Qualcuno vi dirà di avermi vista addirittura sfondare a spallate la vetrina di una profumeria e scolarmi una confezione da mezzo litro di Just Cavalli Parfume. Costui mente sapendo di mentire.
Era Chanel numero 5. Sono una donna di classe io.
La mia amica S, fino a quel momento astemia, in stato di evidente alterazione alcolica, mi costrinse ad accompagnarla in bagno. Nel senso che la dovetti proprio accompagnare fino a dentro il cesso, e tenerle la manina mentre lei, colta da un attacco di ridarella, cercava di mantenere l'equilibrio su una turca e non farsela sulle scarpe.
Che bei momenti.

Alla fine tornammo stremati, bagnati e incacchiati come bisce nel nostro monolocale. Ci insaccammo come cacciatorini nei sacchi a pelo e perdemmo i sensi su ogni superficie utile: letti, divani, tappeti, vasche da bagno e tavoli da pranzo.

Io e il fedele amico O scappammo a valle appena si fece giorno. Senza guardarci indietro. E con Michele Zarrillo e la sua stracacchio di rosa blu a farci da colonna sonora.
Tornai dalla Germania per passare le vacanze di Natale in terra natia.
Trascorsi il 24 ed il 25 nel caldo soffocante abbraccio parentale.
Azzardai un 26 davanti ad un piatto di tagliatelle al ragù insieme al mio ex. Per dimostrare che potevamo essere amici, che l'andare all'estero mi aveva fortificata, che non soffrivo più per lui e che, mentre l'infingardo guardava con rinnovato interesse la nuova cosmopolita versione di me, io sarei stata in grado di mantenere il controllo e non buttargli le braccia al collo nel tentativo di sedurlo oppure strangolarlo.

Infine venne San Silvestro. Una festa in montagna con una trentina di amici a cui piaceva sia la vecchia sia la nuova versione di me. E che non si offendevano quando dicevo loro di voler ripartire ma, anzi, programmavano gite per venirmi a trovare e fare un poco di sana bisboccia crucca assieme.
Tanti mesi di lontananza però avevo finito col farmi dimenticare o sottovalutare qualche insignificante particolare riguardo al simpatico gruppo con cui solitamente mi accompagnavo.
Avevo dimenticato, per esempio, che alcuni di loro fossero degli emeriti deficienti con cui uscivo solo in quanto amici di amici di amici di amici.
Avevo dimenticato che S e B, fino a poco tempo prima amiche morbosamente indivisibili, ora non si parlavano più e avevano trasformato la comitiva in una sabauda versione della Guerra Fredda, con tanto di muro di Berlino a forma di gianduiotto.
Avevo dimenticato che E non sarebbe venuta alla festa perché P si era innamorato di un'altra, e lei stava ancora a raccogliere i cocci. Che, per quanto volessi bene a P, l'avrei volentieri preso a mazzate per tutto il male che aveva fatto alla povera E.
Avevo dimenticato persino che il mio caro amico O, con cui mi trovai a fare tutto il viaggio in macchina dalla pianura fino alla vetta, avesse come indiscusso mito musicale Michele Zarrillo. E, infatti, mi toccarono due ore filate di "Una rosa blu" senza soluzione di continuità.

Ma tutto ciò non aveva importanza. A Capodanno le cose vecchie e brutte si buttano dalla finestra e si tengono solo quelle belle che ci accompagneranno per tutto l'anno nuovo.
Tutto si supera.
Tutto o quasi.

Ognuno di noi aveva generosamente contribuito a costituire un importante tesoretto da spendere in salatini, bevande varie e soprattutto alcolici. Tanti alcolici.
Arrivati tra i monti, mentre io ed altre giovani nonne Papere esibivamo orgogliose i dolci preparati per l'occasione, mi accorsi che tutto quello zuccheroso ben di Dio avremmo dovuto mandarlo giù con l'acqua del rubinetto. Sul tavolo, infatti, facevano bella mostra di sé solo una bottiglia striminzita di Limoncello ed una di Vodka scadente. Nient'altro.

"E la birra?"
"Non l'abbiamo presa"
"Davvero un colpo basso per una che è appena arrivata dalla Germania. Vabbè, vi perdono. Ma il resto della roba da bere dov'è?"
"Da nessuna parte: è tutto qua."
"State scherzando, vero? Ma che c'avete fatto con tutti quei soldi?"
E a quel punto gli occhi dei quattro mentecatti responsabili dell'approvvigionamento brillarono di lucida follia. "Guarda che meraviglia", mi dissero orgogliosi, esibendo una vera e propria santa barbara: petardi, tric e trac, bombe a mano e altre fesserie simili.

Partiamo dal presupposto che io odio i cosiddetti "botti" e che quindi magari non sarò proprio obiettiva, ma a voi sembrerebbe normale per una spesa di 30 persone comprare solo un pacchetto di patatine sbriciolate, appena un litro e mezzo di bevande, ma una quantità tale di petardi da far venir giù una valanga?

Superato lo shock della spesa e della mia conseguente crisi isterica, tutti noi, giovani e belli, procedemmo alla vestizione.
La festa vera e propria si sarebbe tenuta in un appartamento poco distante e molto più grosso, dove ci aspettava un altro gruppo di amici di amici di amici di amici di amici.

Continua...
Il breve ritorno in Italia in occasione delle feste natalizie rappresenta un importante spartiacque per lo studente Erasmus tipo. Seppur per pochi giorni, si torna a casa. Si torna da mamma e papà. Si torna a godere di tutti gli inutili e intossicanti comfort a cui si è dovuto e potuto facilmente rinunciare pochi mesi prima.

Io lasciai Berlino una fredda e grigia mattina, salutata dai miei internazionali amici con la passione e lo struggimento che si dovrebbe a un giovane soldato diretto al fronte. Partii con il cuore pieno di malinconia e lo zaino vuoto per poter fare incetta di generi di prima necessità: la mozzarella di bufala, il parmigiano reggiano, cd, libri e qualche top sexy. Il minimo indispensabile per rendere più confortevole la seconda parte della mia permanenza in terra germanica. Del resto era solo quello che importava.
I parenti mi aspettavano in Italia e non vedevano l'ora di riabbracciarmi ma io, in quanto studente Erasmus tipo, me ne fregavo altamente. Desideravo solo che i giorni italici volassero via in fretta per poter tornare alla mia estera esistenza.

Atterrata a Torino provai fastidio per tutto: colori, odori e rumori. L'accento torinese? Orribile! Gli abiti italiani? Tristi! Ed il profumo del Curry Wurst? Dov'era finito il profumo del Curry Wurst?
Appena le porte automatiche del gate si aprirono venni travolta dall'amorevole e stritolante abbraccio dei miei familiari. Io all'inizio reagii riottosa e infastidita da tanto latino e chiassoso amore ma, appena tornata a casa, mi abituai rapidamente al trattamento di riguardo che mi era riservato. Divano, televisione, patatine, il tutto condito dal lusso di non aver nulla di urgente di cui occuparmi. Un rientro nell'accogliente bozzolo dell'infanzia prolungata. Il benvenuto all'emigrante che torna a casa, alla figliola prodiga, alla ragazzotta che in Germania non mangia abbastanza, "guarda come ti sei fatta magra, ci pensa mamma tua adesso a te".

E' strano però, come pochi mesi lontani dalla mia patria, mi facessero sentire un'aliena. Ero partita a settembre e a dicembre amici e parenti mi sembravano estranei e vagamente fuori di testa. MammaCole su tutti.
"Cristina ha fatto questo", diceva, "Cristina ha fatto quest'altro. Cristina è tanto brava."
Tutto ciò mentre io allibita mi chiedevo chi cacchio fosse questa Cristina. Pur avendo una famiglia numerosa, anche indagando fino alla terza generazione di cugini, a me di "Cristina" non ne risultava neanche una.
"Scusa, madre cara, non per essere indiscreta, ma sta Cristina chi cazz è?"
"Come non lo sai? Dove hai vissuto finora? E' una delle concorrenti del Grande Fratello!"
Avevo lasciato una nazione più o meno sana e, al mio ritorno, mi trovai in mezzo ad un branco di teledipendenti completamente folli.
Persino l'alternativa AmicaMeri sentì il bisogno di avvertirmi: "Guarda che qua sono diventati tutti pazzi. L'unico modo per sopravvivere è lasciarsi assimilare. Ormai esiste un solo argomento di conversazione: il Grande Fratello. Pure se non lo guardi ne devi conoscere le dinamiche, altrimenti sei destinato alla solitudine e all'isolamento sociale."
"Come quando in prima superiore eri un Paria se non guardavi Beverly Hills 90210?"
"Peggio. Molto peggio."

Ma io mi sentivo troppo internazionale e cool per occuparmi di tali facezie. L'inizio della fine del mio paese come l'avevo conosciuto fino ad allora non era più importante della mia nuova pettinatura da tedesca, del mio nuovo appartamento a Prenzlauerberg, e dei messaggi dei miei nuovi amici Erasmi che, ritornati in patria anch'essi, ululavano alla luna in attesa del ritorno all'amata Berlino.

Passai il Natale a scofanarmi panettoni e cannoli siciliani, e ad imboscarmi in valigia pandori da esportare oltre confine. Poi mi preparai per il capodanno: una notte di divertimento tra i monti piemontesi insieme a una ventina di cari vecchi amici. O almeno così credevo.

Continua...

N.d.A: questo post era nato per raccontarvi del mio Capodanno durante l'Erasmus ma l'introduzione mi ha un po' preso la mano e così, per il tanto atteso San Silvestro del 2001, dovrete ancora avere pazienza.
No, non l'ho mica fatto perché sono sadica. O forse sì?

N.d.A(2): nel frattempo sappiate che su SettePerUno è stata pubblicata la seconda parte del mio racconto "151°". L'avete letta? Che state aspettando?
Una bugia. Una scusa. La rabbia. Il fuoco.

Non ci sono vittime, per fortuna.
Ma ad uscirne ferita è una città che brucia e si divide tra chi comprende e giustifica, e chi non ha più parole per esprimere la propria incredulità.

Io non trovo le parole nel presente e così le ricerco nel passato. Le ricerco in un vecchio racconto che scrissi una vita fa in occasione di un concorso di beneficenza. Una storia nata dall'elaborazione e le suggestioni di una vicenda raccontatami da altri, e di un'esperienza vissuta in prima persona.
Il primo vero racconto che io abbia mai scritto. Un racconto ingenuo, il cui stile ora sento appartenermi poco. Ma i cui sentimenti ancora riconosco. Quelli sono i miei. Sono ancora vivi dentro di me e bruciano. Bruciano nel cuore e negli occhi.

                      L’ultimo giorno di scuola.

Oggi è l’ultimo giorno di scuola e si è appena conclusa la recita di fine anno.
Bambini e genitori si riversano rumorosi e allegri nel giardino. C’è Lucia con la maglia piena di brillantini e i codini trattenuti da fiocchetti rosa. C’è Marco con le mani sporche di colori ed i capelli a scodella. C’è Justine con la pelle di cioccolata e il sorriso di vaniglia. C’è Peter che corre in tondo e non si fa acchiappare mai.
E poi ci sono loro: Gabriele ed Eric, due bimbi stretti stretti in un abbraccio. Da domani non si vedranno più, la scuola materna è finita.

Gabriele è nato una calda mattina di giugno.
La clinica aveva muri imbiancati da poco, lenzuola fresche di bucato ed un parco verde e rigoglioso tutt’attorno. Lui aveva la pelle chiara e i capelli color oro.
Gabriele era un bambino piccolo e gracile che si ammalava spesso. E quando iniziò a camminare, e poi anche a correre la situazione peggiorò. Correva per gioco dietro agli altri bimbi o al gatto della vicina. Correva e rideva ma poi di colpo era costretto a fermarsi. La gola gli si faceva stretta ed il posto delle risate era preso da una tosse forte, terribile che sembrava non finire mai.
Lui era fragile, troppo fragile per poter avere una vita uguale agli altri. Niente asilo nido, “Attento! Non correre!”, niente giochi nei parchi, “Attento! Non correre!”, nessun luogo affollato, “Attento! Non correre!”.
Ma in quel corpo di carta velina erano imprigionate una mente brillante ed una personalità vivace. Troppo vivace per poter essere trattenuta.
Non bastavano più le favole ed i racconti a saziare quegli occhi curiosi e quelle orecchie attente. I genitori dovettero arrendersi alla fame di vita del loro piccolo eroe.
Gabriele cominciò finalmente l’asilo.
Le maestre lo definirono subito "sopra la media".

Eric è venuto al mondo una fredda notte d’inverno.
La sua giovane madre non fece in tempo a correre all’ospedale ed il piccolo nacque nella roulotte di famiglia, mentre la pioggia scrosciante spazzava il Campo.
Lui era un neonato grande e robusto, con la pelle scura, folti capelli color del carbone ed occhi grandi e neri da perdercisi.
Visse gran parte del primo anno in braccio alla madre, avvolto in una fascia colorata. Mentre andavano in giro per le strade della città, lui veniva cullato dolcemente dall’ondeggiare dei fianchi di lei, ancora troppo piccolo per capire cosa significassero la mano tesa della donna e gli sguardi di disapprovazione dei passanti.
Una mattina degli uomini in divisa vennero a prendere sua madre al Campo. Lui stava giocando in mezzo alla polvere con i cuginetti, ma quando la vide allontanarsi le corse dietro. Lei si fermò, lo prese in braccio e lo portò con sé.
Nel nuovo mondo che li attendeva non c’erano più il cielo azzurro e la libertà, ma muri, sbarre e regole da seguire. Non c’erano più i giochi del papà e le nenie della nonna ma visi sconosciuti e sguardi ostili.
Il bambino smise di ridere e di parlare.
Ogni giorno che passava il suo mutismo si faceva più ostinato e lo sguardo più rabbioso. Le sue manine si chiusero a pugno, sempre pronte a colpire chi si avvicinava troppo. La sua mente ed il suo cuore si negarono a chiunque cercasse di avvicinarsi.
In gabbia lui divenne selvaggio e cattivo. Secondo alcuni divenne perfino stupido.
Eric, come vuole la legge, rimase in carcere con la madre fino al compimento del terzo anno di età.
Il primo giorno di scuola materna venne catalogato come "un po' indietro".

Un pomeriggio nel cortile i due si trovarono per caso l’uno accanto all’altro.
"Vuoi giocare con me?”
"Si.”

Due bambini così diversi s'incastrarono perfettamente.
Eric comprese la fragilità di Gabriele.
Lo aiutò a rialzarsi dopo ogni caduta, inventò giochi più tranquilli per quando l’altro era troppo affaticato, lo protesse dai dispetti dei compagni, lo affiancò nelle mille folli avventure che inventarono.
Gabriele si accorse delle difficoltà di Eric.
Prese a spiegargli le cose con una pazienza che nessun adulto riuscirebbe mai ad avere, lo aiutò con discrezione e rispetto, lo accompagnò passo per passo nelle scoperte delle cose straordinarie che gli stavano attorno e delle potenzialità infinite racchiuse dentro di sé.

Oggi è l’ultimo giorno di scuola.
Due bimbi si abbracciano stretti stretti.
Uno adesso è più forte e sicuro, conosce la bellezza di un gioco all’aria aperta e di uno sguardo d’intesa con un amico. L’altro ora ha riaperto la mente ed il cuore, ha ripreso a ridere ed è ogni giorno più sveglio e curioso.

Oggi è l’ultimo giorno di scuola.
Due bimbi si abbracciano stretti stretti.
Da domani non si vedranno più, la scuola materna è finita.
Uno a settembre comincerà le elementari vicino a casa dei nonni, l’altro tornerà al Campo e poi chissà.

#torinoburning su twitter
Dipinsi ogni giorno per quattro anni, con la testa rivolta all'insù, il collo incriccato e la faccia sporca di colore. Lavorai come un dannato dello inferno, in fretta e senza pause, in fretta prima che lo muro si facesse asciutto, in fretta colla paura che l'ispirazione dello core e dello animo volasse via leggera come un augelletto di primavera.

M'attendevo complimenti e danari ma ricevetti solo critiche, scherno e pochi spiccioli che mi bastarono appena per bere un goccio di quello buono al di là dell'acqua.
Camminai infelice pe le strade acciottolate del borgo, tra i canti della gente e i gridi delli mercanti. Camminai co la pancia colma di rabbia tra il profumo dei pentoloni sullo foco. Camminai co i piedi che mi doleano, fino al giorno in cui Esso passò di lì e quei taccagni delli fraticelli lo chiamarono a convegno, "Guardate, guardate che porcheria c'ha fatto quello sciocco", gli dissero, "Quattro anni di lavoro per un'accozzaglia di gambe! Cosa sono, beati o rane? Quanti spicci potrà mai valere un'offesa pe li occhi tanto grande?"
Il Maestro alzò lo sguardo e si stupì: "Quanto? Prendete la cupola e riempitela di monete d'oro. E' questo lo valore di codesta opera."

Nessuna ricompensa sarebbe mai stata più preziosa del di lui rispetto pe lo lavoro mio.

Ho sempre amato la storia dell'arte e domenica, durante la mia gita a Parma, mi hanno raccontato un aneddoto che mi ha molto colpita.
Avete riconosciuto i protagonisti del racconto?

Vi lascio tre indizi:
1) l'artista incompreso veniva da un paese in provincia di Reggio Emilia ma l'episodio narrato si verificò a Parma;
2) il Maestro era veneto;
3)
Photo by Ciccio De Ciccis


Il vincitore verrà premiato con onore e gloria. E basta.

N.d.A: se per caso mi legge qualche reggiano che ha voglia di convertire il racconto in dialetto, sappia che avrebbe la mia eterna riconoscenza.
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