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I miei DiarioRacconti originano tutti da una storia vera. Delle volte preferisco rimanere estremamente fedele all'originale, come nel caso dell'Erasmus, altre volte mi sbizzarrisco, mettendoci molto del mio ed utilizzando la vicenda reale solo come fonte d'ispirazione.

Una decina di anni fa la mia amica Sissi mi disse più o meno così: "La prima moglie di mio nonno morì giovane lasciando dei figli piccoli. Così mia nonna, sua sorella, sposò mio nonno per crescere i bambini. Da questo secondo matrimonio è nato il mio babbo."
Qualche mese fa, improvvisamente, mi è tornata alla memoria questa incredibile storia di vita vissuta ed ho deciso che una vicenda così meritava di essere narrata. All'inizio il racconto doveva essere molto più breve, com'è nel mio stile, ma Adelina è un personaggio volitivo ed ingombrante e così con il passare delle settimane si è guadagnato molto spazio nei miei pensieri e molto tempo davanti al pc.

La trama dunque era già scritta tutta in quelle tre righe ed io mi sono divertita a giocare con l'ambientazione, le suggestioni, la personalità dei protagonisti e le sottotrame. Ossia con tutto ciò che avete trovato nel mio racconto e che non è presente in quelle poche righe.

E' stata proprio una bella avventura.
Grazie a tutti voi per aver dedicato così tanta attenzione e trasporto alla "mia" Adelina.
"Carissimi lettori,
siamo finalmente giunti alla fine.
La storia finisce da dove è cominciata."

Augusto ed io siamo stati sposati per più di cinquant'anni.

All'inizio eravamo due estranei che dividevano lo stesso letto e dormivano dandosi le spalle, ma a poco a poco ci siamo avvicinati ed abbiamo cominciato a cercarci con gli sguardi e con le mani.

Assieme ne abbiamo passate così tante.
Abbiamo visto la fine della guerra e gli americani che entravano in paese. Quel giorno portarono euforia e cioccolata e la sera, complice l'aria di festa ed il vino, Augusto ed io facemmo all'amore per la prima volta. Eravamo così impacciati: io non sapevo niente di queste cose e lui aveva paura di spaventarmi o farmi male. Quella notte, a più di un anno dal sì pronunciato in chiesa, diventammo realmente marito e moglie.

Abbiamo cresciuto sei figli: un esercito di maschi rumorosi e disordinati ma onesti e con un cuore grande. Ad occuparmi della casa e di quel branco di selvaggi delle volte mi sentivo peggio di una schiava, ma poi a guardarli negli occhi uno ad uno ero orgogliosa come una regina.
Io per loro, per tutti loro, sono sempre stata "mamma Adelì" e lui semplicemente "il Babbo".

Abbiamo cercato fortuna in città, che la poca terra che avevamo ed il ricamo non bastavano più per dare da mangiare a tutti quanti. La campagna ci mancava tanto, ma per la nostra famiglia la fabbrica fu una benedizione.
E mentre i nostri figli si sono sparpagliati per tutto il mondo, noi, una volta che ci siamo fatti vecchi, siamo tornati al paese e ogni estate abbiamo insegnato ai nipotini a cavalcare i muli, cacciare le rane e fare il bagno nel ruscello.

Cinquant'anni sono così tanti che alla fine non ti ricordi neanche com'era la tua vita prima, ti sembra che debba continuare così per sempre e che un giorno passerai al Creatore assieme a tuo marito, a braccetto, come quando andavate a passeggio la domenica. Ma non succede quasi mai purtroppo. Di solito uno dei due se ne va prima e lascia da solo l'altro.

Una mattina di quasi dieci anni fa mi svegliai all'alba, la stanza era buia e tranquilla, ma c'era qualcosa che mi disturbava.
Nella nostra camera da letto di solito non c'era mai silenzio. Augusto russava, ma non russava in maniera normale, lui era come un trattore e una betoniera messi insieme. Soffiava, sbuffava, grufolava, uno poteva stare ad ascoltarlo per ore senza annoiarsi mai, perché lui inventava sempre rumori nuovi.
Ma quella mattina no, quella mattina era come se Augusto nella stanza non ci fosse più. Mi girai a guardarlo e lui era lì, immobile.
"Augù, ma che fai? Non sarai mica morto? Dai non scherza, Augù"
Che cosa stupida da dire: il mio Augusto non avrebbe mai scherzato su una cosa così.
Era proprio morto. Morto stecchito.

Augusto ma che si muore così? Senza avvertire? Senza darmi il tempo di salutarti? Di dirti quanto bene ti ho voluto e quanto mi hai resa felice?

Vengo qua tutti i giorni per dirtelo, Augù, sei stato tutta la vita mia.

Fine.

Prima parte, seconda parte, terza parte, quarta parte, quinta parte, sesta parte, settima parte
Quella notte non chiusi occhio.
Sapevo cos'era giusto fare. Sapevo cosa avrei voluto fare. Ma non riuscivo a decidermi su cosa avrei davvero fatto.
Avrei dovuto occuparmi dei bambini. Me lo imponeva il senso del dovere e soprattutto l'affetto incondizionato che provavo verso di loro.
Avrei voluto andare da Augusto e prenderlo a male parole. Che diritto avevano lui e mia madre di sconvolgermi la vita? Di darmi un tale peso? Di decidere tutto alle mie spalle?
Ma quando finalmente si levò il sole non avevo ancora deciso cosa avrei davvero fatto.

Arrivata alla sera, dopo una nottata in bianco ed una giornata di lavoro, mi dolevano tutti i muscoli e a tenermi su erano solo i nervi che sentivo nello stomaco come un gomitolo tutto ingarbugliato.
Dopo aver messo i bambini a letto, Augusto si sedette di fronte a me ed io gli vomitai addosso tutto quello che pensavo.
Gli dissi quanto ero arrabbiata con lui e mia madre che si preoccupavano delle voci di paese e se ne fregavano di me.
Gli dissi che mi sarei aspettata della riconoscenza per tutto ciò che avevo fatto per i bambini e non una trappola che non mi lasciava via d'uscita.
Ed infine gli dissi la cosa più crudele di tutte. Gliela dissi perché ero furiosa e sapevo che l'avrebbe ferito. Gliela dissi nonostante avessi ormai imparato a conoscerlo e rispettarlo. "Pensavo che volessi davvero bene a Lucia e invece non vedi l'ora di rimetterti un'altra serva a pulirti casa e a scaldarti il letto"
Lui non alzò la voce, non mi insultò come avrei meritato, ma mi guardò con degli occhi severi e delusi che mi fecero sentire l'ultimo dei vermi sulla terra: "Per me Lucia è stata una benedizione. Ringraziavo il Signore ogni mattina per quell' angelo che mi aveva messo accanto. Penso a lei tutti i giorni e me la sogno tutte le notti, ma ai miei figli non possono bastare i ricordi: loro hanno bisogno di una madre"
Dio solo sa quanta fatica deve essere costata una dichiarazione così al mio Augusto, sempre riservato e geloso dei propri sentimenti.

E' passata una vita intera da quella sera ma io ancora mi vergogno di avere insultato lui e l'amore che provava per mia sorella. E me ne vergognai talmente tanto anche in quel momento che iniziai a piangere come una scema.
Io ero così mortificata che lui si intenerì e mi disse: "Sta serena Adelì. Non c'è fretta, prenditi un po' di tempo per pensarci. E non ti preoccupare, se decidi che non te la senti, ci parlo io con tua madre e le dico che è colpa mia, che sono stato io a cambiare idea. Così non ti darà il tormento."

Mi lavai la faccia, mi avvolsi nello scialle e poi a passi stanchi mi diressi verso casa.
Ero quasi a metà strada quando finalmente nella mia testa si fece chiarezza. Non so se fu l'aria gelida di gennaio o il fatto che Augusto mi avesse fornito una via d'uscita. O forse fu Lucia che da lassù mi mise una mano sulla capoccia e l'altra sul cuore. Fatto sta che tornai indietro a passo spedito, bussai e quando la porta si aprì dissi solo: "Si."

Quella primavera nella chiesetta del paese si celebrò un matrimonio d'amore.
Non quel tipo d'amore che lega un uomo e una donna. Ma quello che ci legava entrambi ai bambini e a Lucia.

Continua...

Prima parte, seconda parte, terza parte, quarta parte, quinta parte, sesta parte
Dopo la morte di Lucia il peso della sua famiglia ricadde completamente su di me.
Una volta si usava così: gli uomini da soli erano persi ed i vedovi non erano mai lasciati allo sbando, soprattutto se c'erano dei bambini di mezzo.
Augusto poteva lavorare nei campi per dodici ore senza fare una piega, ma non era in grado di cuocersi neanche un uovo e soprattutto non era capace di accudire i propri figli. Li amava con tutto il cuore, ma non sapeva proprio da dove cominciare per occuparsi delle cose pratiche. Insomma, a quei tempi, nessuno si sarebbe mai sognato di chiedere ad un padre di pulire il sedere ai suoi figli, era una cosa inconcepibile e per questo c'era bisogno di una zitella. Io, appunto.

Enrico, il più piccolo, cercava la madre con ogni gesto ed in ogni sguardo. Chiedeva continuamente: "Dov'è mamma? Quando torna?" Noi gli spiegavamo che lei adesso era con gli angeli, che lo guardava dal cielo e lo amava tanto. Lui si chetava un attimo, ma poi ricominciava da capo: "Dov'è mamma? Quando torna?"
Mi si stringeva il cuore a vederlo così confuso e spaventato, lo prendevo tra le braccia e gli promettevo che gli sarei sempre stata accanto, che non sarebbe mai stato da solo.
Sandro invece non chiedeva nulla ma aveva gli occhi tristi e rassegnati. La notte faceva sempre dei brutti sogni e si svegliava piangendo. Piangeva a lungo, forte, con i singhiozzi che gli mozzavano il respiro, gli toglievano le forze e lo lasciavano stremato. Augusto gli si sedeva accanto, gli accarezzava la testolina e lo lasciava sfogare senza dirgli niente. Perché in certi momenti non c'è niente da dire. Che se non è libero di piangere un bambino che ha perso la mamma, allora chi lo è?

Il bello di avere molte cose da fare è che non si ha il tempo di sentire il dolore. Io non avevo neanche il tempo di piangere Lucia. Dovevo lavorare, dare un occhio a mia madre, che dopo la disgrazia sembrava invecchiata di dieci anni, occuparmi di Augusto, dei bambini e della casa. Solo la mattina presto, sdraiata nel lettone accanto a mamma, ripensavo a mia sorella, me la sentivo vicina, mi sembrava di averla di nuovo accanto, ne percepivo quasi il profumo. Ma non potevo abbandonarmi a questi pensieri e così mi alzavo e ricominciavo un'altra giornata.

Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, erano ormai passati sei mesi da quell'orribile notte quando mia madre mi disse: "La gente parla"
"E che dice?"
"Parla di te ed Augusto"
"Che c'è da dire su me ed Augusto?"
"Passate molto tempo assieme"
"Certa gente dovrebbe lavarsi la bocca con il sapone. Io non passo il mio tempo con lui ma con i bambini"
"I bambini hanno bisogno di una madre"
"Appunto! Io faccio quello che posso, ma non è mica facile. Mi ammazzo di fatica ogni giorno. Non ho tempo di dare retta alle chiacchiere dei cretini"
"Hai ragione. Ma Augusto ed io ne abbiamo parlato. Dovete sposarvi"
Ancora me la ricordo, come se ce l'avessi davanti in questo momento, la faccia di mia madre che in tutta tranquillità mi dice che devo sposare il vedovo di mia sorella.

Io lo so che a sentire queste cose adesso ai giovani gli vengo i brividi, ma una volta era una cosa quasi normale. Normale per Augusto e mia madre perlomeno. Non tanto per me.
A me sembrava che il mondo stesse andando alla rovescia, che fossero diventati tutti pazzi. Me la presi con Dio, la morte, mia madre, Augusto e pure Lucia che mi aveva lasciata in un tale pasticcio.
Mamma, che conosceva bene i suoi polli, mi fece sfogare e poi disse soltanto: "Se non ci pensi tu, Augusto cercherà qualcun' altra per crescere i figli di Lucia"
Qualche altra?
A me sposare Augusto sembrava una cosa assurda, una cosa sbagliata, una cosa sporca. Mi sembrava di rubare la vita di mia sorella.
Ma l'idea che un'altra donna crescesse i miei nipoti mi era ancora più odiosa.

Continua...

Prima parte, seconda parte, terza parte, quarta parte, quinta parte
Lucia ed Augusto erano felici.
Lui era orgoglioso di una moglie così bella che tutti gli invidiavano.
Lei amava occuparsi di lui e della loro piccola casa.

A me mancava la nostra famiglia com'era prima, ma giorno dopo giorno mi abituai e poi, quando iniziarono ad arrivare i nipotini, scoprì che la nuova situazione poteva anche essere meglio della vecchia e che a me fare la zia piaceva tanto.
Il primo a nascere fu Sandrino, grosso come un vitello e scuro come il papà, con le guanciotte tonde da mordere e gli occhi grandi e neri come pozzi.
L'anno dopo fu la volta di Enrico il Bello, chiaro come la mamma, con i capelli sottili e i lineamenti delicati.

Mentre Augusto si occupava della poca terra che avevano e delle loro bestie, Lucia continuava a ricamare con noi. Di lavoro non ce n'era molto, che con la guerra anche i ricchi di città stringevano un po' la cinghia, ma noi riuscivamo comunque ad andare avanti con tanti sacrifici, le ossa che sporgevano, ma una nuova serenità nel cuore.
Ogni giorno mia sorella veniva a casa nostra e si portava dietro i bambini. Quelle quattro mura non erano mai state così vive.
Loro giocavano nel cortile tra le galline e il fango, mentre noi li tenevamo d'occhio dalla finestra. Quando rientravano erano sempre tutti inzaccherati. Mamma e Lucia facevano la voce grossa e li sgridavano e quei due mascalzoni, un po' per finta e un po' sul serio, si rifugiavano dietro di me. L'avevano capito subito che ero io la mollacciona del gruppo, quella che non resisteva ai loro musetti da canaglie ed alle loro vocine lamentose. "Zia Adelìììì" mi chiamavano ed io mi scioglievo come una scema. Per loro sarei andata a piedi fino al santuario della Madonna, per loro avrei sfidato un re a duello, per loro avrei fatto qualsiasi cosa.

Augusto e Lucia desideravano tanto una femminuccia e la benedizione sembrò finalmente arrivata quando Enrico aveva quasi due anni. Mia sorella scoprì di essere di nuovo in attesa ed era talmente convinta che questa volta sarebbe stata una bimba che cominciò a ricamare dei vestitini meravigliosi. Dei piccoli capolavori, così belli che le mogli di Sandro ed Enrico li conservano ancora come dei tesori.
Il tempo passava e Lucia si faceva sempre più grossa e un giorno la Pazza la fermò per strada, le guardò il pancione e le disse: "Ne aspetti due. Due femmine."
Una volta non esistevano mica le macchine che ci sono adesso, che ti dicono se tuo figlio è maschio o femmina, grande o piccolo, bello o brutto, sano o malato. Una volta era una sorpresa fino a quando il bambino non usciva fuori. La levatrice lo prendeva per i piedi, gli dava una sculacciata e poi guardava se aveva tutte le cosine al posto giusto, contava le dita e controllava pure se aveva il pisellino oppure no. Ma la Pazza per queste cose era una vera sicurezza, ci prendeva sempre, meglio di una macchina.
E così Lucia andò da Augusto con il cuore leggero e pesante al tempo stesso: "Sono due femmine. Come facciamo?"
"E che problema c'è? Ne volevamo tanti, no? San Giuseppe ci ha fatto la grazia! Dove potevano mangiare in tre, mangeranno in quattro. La guerra non durerà per sempre: stà serena Lucia, che quando ti preoccupi ti viene la faccia brutta."
Augusto non è mai stato un tipo sdolcinato, ma neanche uno che si spaventava facilmente.
Augusto era una roccia.

Il travaglio cominciò un mese dopo, al tramonto. Mia madre andò a casa di Lucia ed io tenni Sandro ed Enrico con me.
Mi ricordo tutto di quelle ore. I bambini erano molto agitati, non stavano fermi un attimo e crollarono addormentati solo a sera tarda, accoccolati vicino alla stufa come due gattini. A quel punto li presi in braccio uno alla volta e li infilai nel lettone con me.
Loro dormirono profondamente tutta la notte, ma io non chiusi occhio: ero troppo curiosa di vedere le mie nipotine nuove di zecca. Me le immaginavo belle come Lucia, con le guanciotte rosa e le ciglia lunghe, due principessine, due regine. Due bambine belle come le figlie dei Signori.

Scivolai fuori dal letto all'alba, uscì a prendere le uova ed in cortile incontrai mia madre. Aveva una faccia che non le avevo mai visto, con due occhi grandi ma vuoti. Disse solo: "I bambini, dobbiamo pensare ai bambini"
Non avevo mai visto mia madre piangere, neanche quando mio padre l'ammazzava di botte, neanche quando lo stomaco le faceva male dalla fame.
Mia madre piangeva ed io sentivo il mio cuore spezzarsi.
Lucia, la mia Lucia, se n'era andata: il signore si era preso lei e le sue due gemelline.
"I bambini, dobbiamo pensare ai bambini" ripeteva mia madre.
Io avrei voluto scappare, scappare come facevo un tempo, correre fino a quando ti sembra di scoppiare e non senti più il dolore e neanche la paura.
Ma questa volta non potevo, non ero più una bambina, non c'era più Lucia, c'ero solo io.
"I bambini, dobbiamo pensare ai bambini"

I bambini adesso erano l'unica cosa importante.

Continua...

Prima parte, seconda parte, terza parte, quarta parte
Il mio Augusto non è mai stato una gran bellezza.
Era piccoletto con la fronte bassa e tanti capelli duri come il fil di ferro, che per sistemarglieli ogni mattina era una battaglia. Lui si sedeva in canottiera ed io bagnavo il pettine in un catino pieno d'acqua. Gli tenevo la testa premuta contro il seno e lui un po' rideva e un po' si lamentava: "Piano Adelì, mi vuoi tirare il collo?" "Ma stai zitto tu, che stai comodo come tra due guanciali". Quello era il nostro momento della giornata e ci piaceva così tanto che andammo avanti a farlo anche quando di capelli glien'erano rimasti pochini.
Augusto era anche zoppo, perché da bambino aveva avuto quella brutta malattia, quella che ti lascia con una gamba più piccola dell'altra: la polio. Per camminare aveva bisogno del bastone, ma lavorava come e più degli altri, faceva il doppio della fatica e non chiedeva mai sconti.

Ma a quei tempi ancora non lo conoscevo e, quel giorno di settant'anni fa, quando lo incontrai non vidi un uomo per bene, ma solo un porco arrivato per mettere le zampacce su mia sorella.
Lui e mia madre rimasero a parlare per ore, facendo conti e progetti: "Soldi ce ne sono pochi, ma non dobbiamo farci ridere dietro da nessuno in paese. Basterà fare qualche sacrificio in più. Sarai bellissima Lucia mia, moriranno tutte d’invidia!"
Io non ci capivo niente, mi sembrava di stare facendo un brutto sogno, uno di quelli che ti ci vuole un pizzico bello forte per svegliarti.
Quando finalmente ci trovammo da sole, sdraiate tutte e tre nel lettone che dividevamo, feci la domanda che mi tenevo dentro da ore: "Perché Lucia deve sposare quello storpio schifoso?"
Non ebbi neanche il tempo di vederlo arrivare, ma sentì solo lo spostamento d’aria: mia madre mi mollò un ceffone, che a ripensarci adesso ancora mi fa male. "Guai a te se lo dici un’altra volta. Tu sei solo una ragazzina, che ne vuoi sapere? Questo matrimonio è una benedizione."
Io piansi in silenzio, al buio, per il dolore e l'umiliazione.
Lucia, accanto a me, attese che il respiro di nostra madre si facesse regolare, poi mi abbracciò stretta stretta e mi sussurrò all’orecchio: "Augusto è un bravo ragazzo"
"E' brutto come il peccato e con quel piede storto sembra un demonio arrivato dall'inferno"
"Esagerata, non è così male. E poi io sono senza dote: è una vera fortuna che almeno lui mi voglia"
"Ma che bisogno c'è di sposarsi?"
"Io voglio una famiglia"
"Io e mamma siamo la tua famiglia"
"Voglio dei figli"
A questo non avevo niente di buono da rispondere e così continuai a piangere.
Piangevo perché il mio mondo veniva stravolto.
Piangevo perché Lucia se ne andava e ci lasciava sole.
E, anche se non l'avrei mai ammesso neanche al diavolo in persona, piangevo perché io sarei rimasta intrappolata in quella vita mentre lei andava avanti.

Lucia ed Augusto si sposarono il 24 aprile del 1938.

Continua...

Prima parte, seconda parte, terza parte
Con la morte di quellubriaconedetopa', come lo chiamava mia madre, le cose per noi cambiarono. Eravamo finalmente libere da quella croce ma spaventate per il futuro. A quei tempi avere un uomo in casa, anche se pigro, violento e cattivo, era comunque una gran bella comodità. I creditori erano pazienti con un colosso di 130 kg, i truffatori stavano alla larga dagli ubriaconi maneschi ed i porci non allungavano le loro zampacce sulle ragazze con un padre che le poteva difendere. Per fortuna mia madre sapeva benissimo come andava il mondo, era una gran lavoratrice, aveva il cervello fino e non si faceva né spaventare né truffare.
Noi ci mantenevamo grazie al ricamo. Lavoravamo tutte e tre, tutti i giorni, tutto il giorno per preparare tovaglie, lenzuola e tende per le case delle signore di città. Quella vecchia disonesta della Barbagallo, che a ricamare non era mai stata buona ma a far di conto si, faceva da tramite per tutte le ricamatrici del paese. Lavorava poco e si teneva una commissione altissima, che a ripensarci ancora adesso mi prudono le mani dal nervoso.

La mamma parlava sempre "pane al pane e vino al vino" ed un giorno dritta come un fuso, come un generale di fronte ai soldati, ci disse: "Figlie mie, siamo povere e lo resteremo per sempre. Le ragazze senza dote non si sposano. Un uomo che vorrà convincervi del contrario è un mascalzone e dovrete stargli alla larga." Io ero piccola e all'amore neanche ci pensavo, ma per Lucia che sognava una famiglia con tanti bambini fu un bel rospo da mandare giù, povera anima.
Intanto il tempo passava e mia sorella era ogni giorno più bella, col viso dolce e sereno di una Madonna. Mentre tutti gli uomini del paese la guardavano come se fosse un bel polletto arrosto, di quelli con le cosce tenere e la pelle croccantina.
Anch'io mi stavo faticosamente sgrezzando ma si capiva che bella come Lucia non ci sarei mai diventata. Per mia madre era una benedizione, "Che già così ne ho abbastanza di pensieri" diceva.
Ormai, dopo quasi quattro anni, avevamo raggiunto una stabilità: lavoravamo sodo, riuscivamo a mantenerci ed in paese ci rispettavano. Io credevo che le cose non sarebbero mai cambiate, che saremmo sempre rimaste solo noi tre, ed ero contenta così.
Ma un giorno, tornando a casa da una commissione, mi venne incontro sulla porta mia madre che, felice come non l'avevo mai vista, mi tirò dentro ed esclamò: "Che aspetti? Saluta il tuo futuro cognato"
In mezzo alla stanza c'erano due sedie, su una stava Lucia con gli occhi bassi ed un sorriso timido, e sull'altra un uomo dall'aria goffa ed impacciata. Lo riconobbi subito: era uno dei dieci fratelli Parise, quello che era stato malato da piccolo, quello con il piede destro piegato verso l'interno, quello zoppo.
Era Augusto.

Continua...

Prima parte, seconda parte
Augusto ed io siamo nati e cresciuti nello stesso paese. Mentre lui era un tipo tranquillo che passava inosservato, io ero conosciuta e additata da tutti come cattivo esempio. Ero una bambina con il muso sempre sporco, una piccola delinquente, un'erba cattiva, una vagabonda che invece di stare chiusa tra le quattro mura di casa, come una signorina per bene avrebbe dovuto, passava le giornate in giro a combinare chissà cosa e chissà con chi. Secondo il parroco, la perpetua e la maggior parte delle donne il mio destino era quello della femmina perduta.
In realtà io avevo le mie buone ragioni per stare sempre fuori e tutti al paese lo sapevano benissimo. Ma si sa che a farsi i fatti propri si campa cent'anni e degli altri chi se ne fotte!

Mio padre aveva due grandi passioni: il vino e le donne. Il vino lo beveva, le donne le menava. Era grasso e pigro, sempre troppo stanco per alzare il sedere e andare a lavorare, ma quando c'era da rincorrerci con la cinghia recuperava tutte l'energie. Ribaltava il tavolo, rompeva le sedie e ci urlava dietro le peggio cose, tanto che io a cinque anni conoscevo certi insulti da fare rigirare i morti nelle tombe e far cadere l'aureola ai santi.
Mia madre, che pesava cinquanta chili bagnati, rimaneva ad affrontarlo, rispondendo colpo su colpo e soprattutto bestemmia su bestemmia, mentre mia sorella ed io correvamo a nasconderci.

Lucia, più grande e giudiziosa, era capace di starsene accucciata nella stalla per ore, aspettando che le urla e le botte finissero, ma io non ce la facevo, a me bruciava la terra sotto i piedi. Così correvo via a cercare la banda dei maschi, che io con le femmine non mi ci sono mai trovata.
Andavamo allo stagno a catturare le rane, giocavamo alla guerra, prendevamo a sassate il cane rabbioso della Pazza, ma la cosa che ci piaceva di più era esplorare la casa diroccata della signora Ines, buonanima. Gli scalini erano quasi tutti marci, i vetri alle finestre rotti e dentro i pochi mobili rimasti si potevano trovare tante bestie diverse: ragni grossi come pagnotte, qualche lepre di passaggio e parecchi topi. A noi un posto così sembrava il paradiso, ci passavamo le ore sfidandoci per vedere chi fosse il più coraggioso e chi il più fifone. Gino, detto il piscialetto, perdeva sempre e gli toccava continuamente pagare pegno. Una volta gli tirarono tutti uno scappellotto, tutti tranne me: "Non ti tiro uno schiaffo se mi fai vedere il pisello", gli dissi.
Lui alzò le spalle e abbassò i pantaloncini. Fu una vera delusione. Mi sembrava impossibile che un coso così insignificante potesse fare tanta differenza. A mio padre bastava quel cosino mollo per comportarsi da padrone? Ovviamente anche due mani grosse come badili lo aiutavano parecchio.
Mia madre era uno scricciolo di donna ma era grande, grandissima. Mio padre era un uomo grosso ma una persona piccola piccola e quando morì, nel 1934, nessuno di noi lo pianse.

L'unica cosa triste fu che in quell'occasione mia madre decise che anch'io, ormai dodicenne, ero abbastanza grande per lavorare e che i miei giorni con la banda erano finiti, "Che se ti becco ancora ad andare in giro te ne dò tante ma così tante che non ti siedi per un mese!"

Continua...

Prima parte
Cari lettori, 
non temete questa storia non sarà infinita come l'Erasmus. 
Il racconto è semplicemente troppo lungo per poter essere sacrificato in un post unico e quindi ho deciso di suddividerlo in varie parti, che verranno pubblicate a pochi giorni l'una dall'altra.
Buona lettura,
Jane

Vengo qua tutti i giorni. D'inverno il freddo e l'umidità mi entrano nelle ossa, ma in primavera con il sole ed il cielo limpido è un vero piacere passeggiare lungo i viali.
I visitatori della domenica sono tanti e diversi, ma in settimana ci sono sempre le stesse facce. Le sorelle Zaccaria che avranno trecento anni in due. La vedova Greco con la cofana color carta da zucchero, il rossetto e le guance dipinte, neanche avesse ancora settant'anni. E poi quello scostumato del Cavalier Casotti che quando mi vede si toglie il cappello, mi saluta con un piccolo inchino e comincia con le sue chiacchiere: "Ma come la trovo bene signora Adelina", "Le andrebbe un caffè signora Adelina?", "Io vado sempre in balera, perché non ci viene anche lei signora Adelina?" Ma per chi mi ha presa? Se il bastone non mi servisse per camminare gliel'avrei già spaccato su quella capoccia pelata.
Gli uomini sono tutti uguali, dai 15 ai 95 anni pensano sempre a quella cosa là.
Tutti uguali tranne il mio Augusto. Lui sì che era una persona seria, un gentiluomo come non ce ne sono più. Non fraintendetemi, era serio ma aveva il sangue caldo anche lui e a letto sapeva fare il suo dovere, lo sapeva fare eccome. Sei figli mi ha dato. Tutti maschi e tutti sani e forti come tori.

Eccolo là. Quant'è brutto in quella foto. Appena la vidi glielo dissi subito: "Augu', sta foto è così brutta che te la metterò sulla tomba"
Lui non rise. Non è mai stato un tipo spiritoso.

Continua...
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