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E i personaggi secondari si decisero finalmente a scendere in piazza. Ribaltarono trame, imbrogliarono intrecci, malmenarono indegni protagonisti. 
La rivoluzione ebbe inizio.

Questo è un micro racconto, l'ho scritto io anni fa, lo amo molto. Sappiatelo.

Voi avete mai scritto un micro racconto? No? Bene, inizierete oggi grazie al Laboratorio Condiviso.

Un micro racconto, o mini racconto, o microracconto, o miniracconto – come vi pare! – è un testo breve, anzi brevissimo, che riesce a contenere al suo interno una storia intera. Poche parole, scelte con cura, per raccontare misteri, avventure, grandi amori!

Io adoro questo tipo di narrazione perché è immediata e al tempo stesso complessa. In grado di mettere tutto il mondo sopra una capocchia di spillo, grazie all'ispirazione del momento seguita da un lavoro di fino da orologiaio.


Un micro racconto può essere ricco d'ironia, magari con un colpo di scena finale, tipo questo:

Lei lo condusse nella stanza in fondo al corridoio. Lui la seguì. Detestava i convenevoli, preferiva darsi da fare, arrivare subito al sodo. 
Varcarono la soglia. Le luci erano soffuse. Il letto grande. 
Lui si tolse la giacca. Allentò la cravatta. Sbottonò i polsini. Arrotolò le maniche. Lei avvertì un leggero capogiro. Lui la sorresse. 

"Non si preoccupi. Ora penseremo a tutto noi. Noi, delle Onoranze Rampini"


Oppure può essere costruito su un gioco di parole, tipo quest'altro:

"ZAC", dissero le forbici tagliando i ponti.


O ancora può inserire nella narrazione il titolo stesso, come in questo caso:

IL TONFO
Finalmente si decise a fare un passo avanti.
L'ultimo.


Le possibilità sono infinite, la libertà è ampia, l'unico obbligo è la brevità.

Raccontatemi ciò che volete e mandatemi quanti microracconti potete – vabbè, facciamo fino a un massimo di dieci –, avete tempo fino a domenica 12 luglio alle ore 12.

Per tutti gli esempi che volete, sbirciate pure sul blog oppure buttatevi su google, troverete davvero un'infinità di proposte. 

Lo so che vi state chiedendo: ma la lunghezza? Vi lascio un limite massimo di  500 caratteri, spazi inclusi. Sono tantissimi, probabilmente ve ne serviranno di meno.

Buona scrittura e, questa volta più che mai, buon divertimento!


Tipo di testo: micro/mini racconto. 
Numero di testi: non più di 10.
Lunghezza testo: dai 3 ai 500 caratteri, spazi inclusi. 
Email: janecole@live.it. 
Oggetto: laboratorio condiviso di scrittura. 
Specificare nel testo dell’email se volete restare anonimi o meno, se volete essere taggati (su FB) o meno. Scadenza per far pervenire il testo: domenica 12 luglio 2020, ore 12.

Volete leggere tutte le piccole storie nate da questo esercizio? Le trovate qui.
Un matrimonio interrotto da una nonna molesta con un perentorio "No, no, no, voi due non potete sposarvi!" 

Questo era il punto di partenza del dodicesimo esercizio del Laboratorio Condiviso di Scrittura. I partecipanti dovevano spiegare, a modo loro, le motivazioni che avevano portato all'exploit della nonna.

A seguire tutte le diverse versioni che raccontano "Cos'è andato storto?"

Ma prima di queste permettetemi una piccola confessione: la protagonista dell'esercizio non si chiama Rosa per caso. Nonna Rosa era la mia nonna materna, un donnone dal carattere forte, la voce potente e la risata contagiosa. Nella sua lunga vita, affollata di figli e nipoti, non è mai capitato che interrompesse un matrimonio ma, nel caso l'avesse ritenuto necessario, sono sicura che non si sarebbe fatta alcuno scrupolo a farlo. Ciao nonna, qua ti si pensa sempre e questo esercizio è tutto per te.

Buona lettura.




Sara si girò di scatto, udendo stupita la voce della sua amata nonna, dalla quale aveva anche preso il nome. In Sicilia uno dei più popolari diminuitivi di Rosaria – o Rosa – è infatti Sara.
“Nonna mia, cosa stai dicendo?”
“Saretta, amore mio, non sono impazzita! Voi due non potete sposarvi” – disse, tirando su il naso – “Non adesso, non così almeno.”
Silenzio.
La cerimonia, così formale, così solenne, celebrata nella chiesa a cielo aperto nel giardino della villa appartenuta alla famiglia di Sara da generazioni, aveva reso inerti gli ospiti a seguito di quel “contrattempo”.
Non si sentiva volare una mosca, solo il mare che sbatteva contro la scogliera sulla quale il giardino si affacciava.
Non sapete cos’è una chiesa a cielo aperto? Non avete presente San Galgano? Non interrompete per piacere con domande sciocche.
Dove ero rimasto? Ah. Non si sentiva volare una mosca, solo il mare che sbatteva contro la scogliera sulla quale il giardino si affacciava.

Solo dopo qualche minuto lo sposo aveva iniziato a muovere pian piano i muscoli del suo viso, passando dallo stupore alla rabbia. E, inveendo a male parole, iniziò a muoversi verso la vecchina, non potendo pensare che a potenziali tradimenti (presenti o passati) o ad un’incipiente demenza senile, come del resto, state facendo tutti voi. 
Solo la caduta del parrucchino di suo padre – che improvvisamente si era svegliato dal torpore, in quella scacchiera di spettatori oramai immobili, e di scatto gli era andato incontro – lo aveva calmato e fatto sorridere, consapevole dell’incapacità del suo genitore di accettare l’invecchiamento e della conseguente capacità di sfociare così facilmente nel ridicolo.
“Beh, ognuno ha le sue” – pensò, propendendo verso la versione “incipiente demenza senile” della nonna acquisita. Raggiunse Sara, accovacciata ad ascoltare la nonna seduta sulla carrozzina, e le mise una mano sulla spalla. Lei si girò, i loro sguardi si incontraroro e si sorrisero: non sarebbe bastato certo un episodio così a dividerli.

“Dimmi, nonna Rosa, perchè non ci possiamo sposare?” – continuò.
“Amore mio, lo vedi questo fazzoletto di lino? Mi stavo soffiando il naso e ho visto queste lettere ricamate sopra: RR. Rosaria Raspini, mia nonna. Dall’inizio dell’ottocento ci stiamo tramandando in famiglia il nome, da nonna a nipote. Ed anche una tradizione ad esso legata. Purtroppo, ogni tanto mi dimentico le cose...”
Francesco sorrise e le si avvicinò per darle un buffetto su una gota.
“Quindi? Cosa dobbiamo fare? Cosa manca?” – disse Sara guardando anche sua madre, che sembrava avere un punto interrogativo sulla fronte. Sotto lo sguardo di Sara, improvvisamente si accese ed iniziò conpulsivamente a chiamare il dottore di sua suocera plurime volte e senza successo – maledicendo sotto voce la sanità pubblica e gli statali – e poi a correre verso il catering, e la perdemmo di vista, prima dietro le aiuole e poi dietro l’angolo della villa.

“Ogni sposa deve portare con sé all’altare una rosa essicata, presa dal bouquet del matrimonio della Rosa precedente e recitare un pezzo dal suo libro preferito. Dentro questo libro la novella sposa inserirà una rosa fresca e lo rimetterà nella nostra biblioteca. In attesa del matrimonio successivo.” – raccontò nonna Rosa.
“Allora è semplice! Nonna Rosa, qual è il tuo libro preferito? Che pezzo hai recitato al tuo matrimonio?” – rispose sorridente Sara.
La risposta era quasi scontata: “Cara mia, era quello... no quell’altro... aspetta... aveva le pagine blu!”
In questi momenti, Sara avrebbe tanto voluto ci fosse sempre il suo nonno, che, oltre ad essere il suo nonno preferito, era anche un po’ la memoria storica della famiglia, che sapeva come farla stare insieme e che col suo sorriso sdrammatizzava ogni situazione.
Sara prese la mano del suo futuro marito e si spostò in mezzo alle panche dove si trovavano gli invitati. “Cari tutti, come sapete siamo così felici di avervi tutti qui oggi a celebrare con noi questa nostra felicità. Abbiamo questo imprevisto, non ci possiamo sposare senza che io abbia la rosa essiccata che ci tramandiamo di sposa in sposa nella mia famiglia. Le tradizioni vanno rispettate.
Cosa abbiamo da perdere? Diamo un tocco di inatteso a questo matrimonio! Trasformiamo questo imprevisto in un gioco, in una piccola caccia al tesoro. Il celebrante ci farà la cortesia di attenderci?” – disse sorridendo al parroco del paese, anche lui invitato al successivo banchetto. Come avrebbe potuto dire di no? “Ci sposteremo tutti all’interno della villa, nella biblioteca. Siamo in 100, i libri sono circa 4.000, ne controlliamo 40 a testa e chi troverà la rosa verrà adeguatamente ricompensato! Avrete così tutti anche modo di vedere le sale più affascinanti della villa. Vi chiedo cortesemente di seguirmi.”

Cosa pensate che sia successo? Come una mandria di pecore tutti gli invitati uscirono dalla chiesa e si spostarono verso la villa e non appena raggiunto il giardino c’era chi mugugnava, chi fumava il sigaro, la zia Lucia rinunciava definitivamente a calzare ancora le scarpe. 
Il papà di Sara, sornione, era invece rimasto a chiacchierare con sua mamma: “Mamma, sei la regina della confusione. Era il caso di scatenare questo putiferio?”
“Che putiferio, mio Luigi?”

“Ecco a voi, cari tutti, la biblioteca” – riprese Sara, non lasciando mai un momento la mano del suo Francesco – “vi prego, aiutatemi a trovare la “rosa” essiccata.” 
Adesso una mandria di tori si era lanciata verso le sale, spandendosi come l’olio ovunque. Adesso era la fretta di concludere la cerimonia e di iniziare il banchetto la forza motrice più forte di molti. 

“Sara! Ecco ho trovato qualcosa!” – urlò la sua migliore amica arrampicata sulla scala con i tacchi a spillo ed il vestito da damigella – “Ma è solo un biglietto dell’autobus usato come segnalibro”
“Sara Sara Sara!” – si avvicinò la cuginetta di 8 anni, ma solo per mostrare la nuova collezione di ragni di biblioteca.
Il prozio Mario, invece, si era messo a sedere sulla poltrona a leggere “La geopolitica anglosassone” con i piedi su un tavolino. 

Sara pensò: “Cosa mi sono messa in mente? Seguire le idee di una donna così anziana ed un po’ fuori di testa.
Non ce la faremo mai”. In quell’esatto momento, come se le leggesse nella mente, Francesco la strinse forte tra le sue braccia. E la baciò come se non ci fosse nessun altro al mondo. Sara, un po’ destabilizzata, in quel momento sentì che forse, dopo un quarto d’ora perso, potevano anche continuare con il loro matrim...
“Aspetta aspetta aspetta Francesco! Prendi la scala! L’ho visto! Il libro con la costola blu! È lì! È cobalto, impossibile da scambiare con qualcos’altro!” 
Ed effettivamente la nonna aveva ragione: dentro c’era una rosa oramai seccata ed un foglio A4 ripiegato su sè stesso. Sara lo aprì ed una piccola lacrima le scese sulla guancia. 
“Andiamo Francy! Ragazzi, zii, zie, cugini, mamme, qui abbiamo finito! Grazie mille! Possiamo tornare in giardino per la mia lettura e lo scambio degli anelli! Grazie mille: ho scoperto un tesoro!” 

Fu difficile riunire di nuovo tutti, ma dopo ancora un altro quarto d’ora, eravamo di nuovo tutti in chiesa.
Sara, non appena raccolta l’attenzione di tutti, iniziò di nuovo: 
“La tradizione a quanto pare dice di leggere un brano da un libro. Io, con questa simbolica rosa in mano, vi voglio leggere invece una lettera. 

Cara mia Saretta,
se stai leggendo questa lettera ti stai sposando ed io non ci sono più. 
Sarebbe stata un’emozione forte per me esserci, in un intensificarsi di emozioni, a partire dalla tua nascita, alla tua comunione, al tuo diploma, fino alla laurea. 
La prima cosa che ho visto di te è stato quel ricciolo biondo sbarazzino: eri te. Lo sapevo fin dal primo momento che con la tua determinazione non mi avresti deluso. 
Eppure io non ci sono più. Almeno questo tu pensi: non ci sono più a vedere ogni tua gara di nuoto, ad intervenire nei tuoi battibecchi con tua mamma, non cammino più con te nel parco facendoti scoprire ogni varietà di nuova pianta o fiore. 
Questo è quello che tu pensi. 
Ma non è vero, perchè io sono in ogni tuo ricordo, in ogni tuo movimento, in ogni fiore nuovo che cresce sul tuo terrazzino. 
Ed anche oggi sono qui, in prima fila, sulla prima panca, in trepidante attesa di vedere questo tuo giorno speciale ed infine darti un bacio sulla tua meravigliosa testolina. 
Augurandoti tutto l’amore possibile ed un matrimonio felice: come quello mio e di tua nonna Rosa. Ogni singolo giorno insieme noi lo abbiamo vissuto tenendoci mano nella mano e lo abbiamo concluso intrecciando i piedi insieme ogni notte. Spero tu possa avere lo stesso, ma vigilerò sempre anche io perchè ciò avvenga. 

Sempre con te, 
Nonno Sebastiano” 

Beh cosa credete? È stato facile mettere in mano a Rosa quel fazzoletto di lino: conosco bene mia moglie e gli oggetti che le fanno tornare a mente i ricordi. 
Come avrei potuto non esserci davvero anche io al matrimonio della mia nipotina? 

Marianna Palmerini 



Nonna Rosa continuava a sventolare il fazzoletto di lino come una bandiera, agitando la mano. 
Sara scambiò uno sguardo di intesa con Francesco e le corse incontro per capire, placare questa improvvisa resa della nonna ad ogni buon senso. 

“Nonna, cosa dici? Perché non possiamo sposarci? Stai bene? Vuoi un sorso d’acqua? Nonna, che succede?” 

Nel frattempo, in ordine sparso: la madre della sposa minimizzava il disastro con sorrisi imbarazzati rivolti a chiunque incrociasse il suo sguardo, sussurrando a mezza voce, ma avendo cura di farsi sentire da tutti, che era stata un’imprudenza dare alla nonna un bicchierino di spumante prima della cerimonia;     gli zii dottori, rispettivamente proctologo e ortopedico, dispensavano nozioni sull’impatto emotivo delle cerimonie nelle persone sensibili; la madre dello sposo guardava con insistenza il suo figliolo solo soletto all’altare per cercare di carpirgli in modalità telepatica la ragione di quel baccano;     gli invitati si scambiavano sguardi allarmati, ciascuno pensando che no, non poteva saltare il matrimonio! 

E poi nonna Rosa si guardò intorno, spaesata e imbarazzata, lesse negli occhi della nipote la grande preoccupazione e le chiese scusa. “Mio Dio, cosa ho combinato Saretta! Sono una vecchia pazza, scusa, scusatemi tutti, Saretta che vergogna!” 
E con lo stesso cipiglio con cui aveva urlato per interrompere la cerimonia, ora pregava Sara di riprenderla, garantendo di star bene, che chissà cosa le era preso, di stare tranquilla che doveva sicuramente essere stato lo spumante! E fece avvicinare al banco anche Francesco, perché aveva rovinato anche la sua festa e lui proprio non se lo meritava, lui che voleva così bene alla Saretta. 

E quindi la cerimonia riprese, don Elio la buttò sullo scherzo, le preghiere furono accolte, le promesse furono fatte, e furono lacrime di gioia per tutti. 

Al ricevimento, Nonna Rosa non toccò il vino e si inumidì appena le labbra di champagne al momento del brindisi. Sorrise a tutti, ad ogni invitato chiese personalmente scusa del suo comportamento. Abbracciò Francesco, strinse a sé Sara. Prese le loro mani tra le sue, augurò loro tutto il bene di questo mondo. Poi andò alla toilette e pianse per dieci minuti filati. Quando uscì, davanti alla porta c’era Irene.

“Nonushka? Che c’è?”
E nonna Rosa si arrese di nuovo, perché a Irene non si dicono bugie, che quando ti guarda ti legge dentro. E raccontò che in chiesa, per un terribile istante, non aveva riconosciuto Sara vestita da sposa, che le era sembrato che Francesco si stesse sposando con un’altra e lei non poteva accettarlo. E poi era stato come risvegliarsi da un sogno… anzi, da un incubo. E raccontò dei vuoti di memoria, della visita dal dottore che continuava a rimandare. Di quanto si sentisse sola da quando il nonno non c’era più. 
“Nonushka, non devi affrontare tutto questo da sola! Ci sono io!” 

Quella sera, Sara e Francesco partirono per il viaggio di nozze. 
E, in un certo senso, anche nonna Rosa partì. 

Il suo viaggio durò mesi, anni. Le terapie neurologiche si rivelarono da subito inefficaci, gli episodi di straniamento diventarono sempre più frequenti e le affabulazioni sempre più fantasiose. Il carattere mantenne la sua dolcezza nonostante il quotidiano fosse sempre più ricco di sorprese. Quetiapina e Talofen rendevano tollerabili quelle più spaventose. 

“Ma quanto è buono il pollo” diceva a cena mangiando gli avanzi del suo pranzo. “Ma sai che non l’ho mai mangiato?” 

“Ma che bella casa! Ma sai che non sapevo di averla comprata con il nonno?” 

E la casa si riempiva di volti nuovi. In particolare, c’era una signora che ogni giorno la salutava dallo specchio del bagno. 

“Ma sai che quella signora è proprio simpatica? Sorride sempre! Sono proprio contenta di averla incontrata. E sai una cosa? Sono proprio contenta che tu lavori qui. Com’è già che ti chiami?” 
“Irene. Mi chiamo Irene”
“Che bel nome! E com’è che mi hai chiamato prima? Hai detto un nome strano.”
“Nonushka. Ti piace?” 
“Sì… mia nipote mi chiamava sempre così. Adesso è un po’ che non la vedo.” 
Irene le diede un bacio sulla guancia. “Non preoccuparti, Nonushka. Quando la incontro te la saluto e le dico di venire a trovarti.” 

La Peppa



"E no, no no no no!" tutti si girarono a guardare nonna Rosa che, in piedi in mezzo alla navata, sventolava fazzoletto e pugni: "No, no, no, voi due non potete sposarvi!" 

Tutti gli ospiti si immobilizzarono, tutto rimase bloccato per un tempo indefinito. Anche una mosca fastidiosa che si accaniva sul cappellino di zia Lucia si posò su una panca e se ne stette lì buona senza disturbare. 

Nonna Rosa cominciò a percorrere la navata con ancora il fazzoletto di lino stretto nel pugno. Gli sguardi di tutti la seguirono finché non raggiunse i due sposi e la sentirono dire “sposi, prete e genitori con me in sacrestia, presto!” Nessuno si mosse, erano tutti sconvolti da quello che stava succedendo. Nonna Rosa prese di nuovo in pugno la situazione ed emise un forte e prolungato fischio che l’aveva resa famosa nel paese come “Rosa la pecoraia”, ma lei non se ne era mai curata più di tanto. Scossi dal fischio, il piccolo gruppetto si diresse verso la sacrestia col prete che faceva strada. 

“Allora, che succede?”, chiese il prete che già si vedeva seduto sul lettino del cardiologo. Nonna Rosa prese a raccontare. 

“Un’ora fa, mentre eravamo tutti al rinfresco, ho scambiato quattro chiacchiere con Maria, la madre dello sposo”. Maria si fece bianca in volto e confermò: “Sì, abbiamo parlato di come Francesco fosse fortunato ad avere trovato Sara e di come stanno bene insieme. Ma questo cosa c’entra?” 

Nonna Rosa riprese la parola: “È vero, ma mi hai anche detto che Francesco fu trovato nella ruota del convento di San Francesco ed accudito dalle suore del convento finché non l’avete adottato, per questo l’avete chiamato Francesco, giusto?” 

“Tutto giusto, ma non vedo come…” Maria si bloccò di colpo. Una strana idea, un’intuizione, cominciò a farsi strada nella sua mente. 

“Vedo che ci stai arrivando”, proseguì nonna Rosa. “Mi hai anche detto che Francesco è al corrente di tutto, quindi non c’è bisogno di nascondere la verità. Ma quello che tutti voi non sapete è che mia figlia, circa due anni prima di sposarsi, ebbe un’avventura con un ragazzo di fuori, che dopo averla messa incinta si dileguò. Mio marito ed io decidemmo che avrebbe dovuto portare a termine la gravidanza, l’aborto era fuori discussione”, qui il prete fece un sospiro di sollievo, “ma che l’avremmo poi lasciato appena nato alla ruota del convento. Non potevamo permetterci lo scandalo e le chiacchiere.” 

Ilaria, la madre della sposa, contrariamente al suo nome cominciò a piangere e singhiozzare: “furono i nove mesi peggiori della mia vita. Chiusa in casa per non far notare la pancia che cresceva, mentre tutti pensavano ad una brutta malattia. Ricordo la notte in cui portammo mio figlio alla ruota, pioveva ed era buio. Ricordo ancora i suoi occhi che mi guardavano, ed il suo bellissimo faccino…”. Anche Ilaria si interruppe, stava guardando Francesco riconoscendo in lui quel bambino di tanto tempo fa. Ma poi si riprese e continuò: “ricordo anche di una voglia sulla coscia destra a forma di…di…Australia”

“Australia?” dissero tutti insieme. “Sì, Australia” riprese Ilaria “proprio sopra il ginocchio della gamba destra”. Tutti si guardarono attoniti. C’era un solo modo per capire come stavano le cose: Francesco doveva calarsi i pantaloni. Il parroco provò a elevare una debole protesta, ma fu zittito da tutti quanti.

Francesco quindi prese a slacciarsi i pantaloni tra la curiosità e l’angoscia di tutti quanti, parroco compreso, finché una voglia dall’inequivocabile forma del continente australiano si presentò a tutti. Era incredibilmente realistica e si intravedevano perfino la Nuova Zelanda e la Tasmania. 

“Oh cazzo, è proprio lui!” esclamò nonna Rosa. 
“Il linguaggio, per favore!” la riprese il parroco ancora sconvolto dalla piega inaspettata che avevano preso gli eventi, e in parte anche per aver visto Francesco in mutande. 

Mentre Francesco si rimetteva a posto i pantaloni, Sara cominciò a ridere. Cominciò con una risatina sommessa ma poi esplose in una fragorosa risata. Tutti cominciarono a pensare che fosse diventata pazza, forse gli ultimi avvenimenti l’avevano turbata a tal punto che la sua mente non aveva retto. 

“Lo sapevo!” esclamò lei. “È da quando ci siamo conosciuti che ho una strana sensazione, come se avessi una strana affinità con te, come se fossimo intimamente legati. Io pensavo che fosse amore, ma adesso capisco che era altro. Sei mio fratello!” 

“Fratellastro!” si affrettò a precisare nonna Rosa. “Stessa madre, padri diversi. Ma questo non cambia la sostanza delle cose. Siete fratellastri, non potete sposarvi”. 

Carlo, il padre di Sara, si schiarì la voce e prese la parola “ma tutto questo non si può dimostrare, abbiamo solo il racconto di Ilaria e una voglia a forma di Australia sulla coscia di Francesco!”. In realtà sapeva benissimo come erano andate le cose alle quali lui stesso aveva partecipato, ma vedeva già tutti i soldi spesi per il rinfresco, la chiesa e il ristorante che volavano via dalla finestra. 

Sara si fece seria e prese tra le mani il volto di Francesco: “Non mi importa se non ci possiamo sposare, e non mi importa nemmeno di aver perso un marito sull’altare. Ho sempre desiderato un fratello fin da quando ero piccola ed ora Dio, nei suoi intricati e misteriosi disegni, me ne ha regalato uno. Sentivi anche tu che c’era qualcosa di strano, che andava oltre all’amore, vero?” 

Francesco, con gli occhi lucidi per l’emozione, le rispose: “Sì, anch’io sentivo che c’era qualcosa che andava oltre l’amore per te, ma non riuscivo a capire cosa fosse. Ora che tutta la verità è venuta a galla il mio sentimento per te è ancora più forte. Sei mia sorella e niente potrebbe rendermi più felice.” 

Il parroco e tutti i partecipanti a questa vicenda non fecero più nulla per trattenere l’emozione e fu un’esplosione di lacrime di gioia, di nasi soffiati, e di grandi sorrisi. Decisero inoltre che trasformare il pranzo di nozze in una festa per i fratelli ritrovati non sarebbe stata una cattiva idea, quindi decisero di uscire a comunicare la notizia a tutti gli altri. 

Si spesero quasi due ore a rianimare gli svenuti e tranquillizzare gli animi, ma alla fine la festa fu una delle meglio riuscite del paese. 

Negli anni a seguire Sara e Francesco trovarono l’amore celebrando insieme il matrimonio con i rispettivi partner. Nonna Rosa questa volta non ebbe nulla da dire. 

Beppe Carta




"E no, no no no no!" tutti si girarono a guardare nonna Rosa che, in piedi in mezzo alla navata, sventolava fazzoletto e pugni: "No, no, no, voi due non potete sposarvi!" 

“Ecco la nonna ci si è rincoglionita!” esclamò Sandro, il nipote simpatico, guadagnando un paio di risatine e il peggior sguardo di censura di cui era capace Don Giuseppe. 

“Nonna che fai? Torna a sederti”, le ordinò Sara ringhiando da dietro il velo. “Non vorrai mica rovinarmi il mio grande momento?” 
“No, non mi siedo e non credere di potermi dare ordini, ragazzina, ti ho vista nascere, ti ho pulito nasino e sedere. Che, a pensarci adesso, forse non mi sarei dovuta preoccupare neanche così tanto di farlo nel giusto ordine!” 
“Ma nonna?” frignò indignata la sposa. 
“Senti, cara, io ti voglio bene e lo sai. Ma Francesco non è l’uomo per te” 
“E perché?” 
“Perché, sarò anziana ma, a differenza di ciò che crede quello screanzato di Sandro – che il prossimo Natale col cavolo che la vede la busta! – non sono ancora rincoglionita!” 

“Nonnina…” intervenne mieloso il nipote. 
“Taci, cretino!” 

“Nonna, senti, ne parliamo dopo, io mi dovrei davvero sposare” riprese suadente Sara. 
“Certo, un giorno, quando troverai la persona giusta ma non oggi con un uomo di cui non t’importa nulla. Credevo di averti cresciuta meglio di così, molto meglio di così!” 
“Ma nonna, io lo amo!” urlò stizzita la sposa. 
“Bugiarda, bugiarda come la tua taglia di reggiseno! Che credi che non lo so che ti sei rifatta l’artiglieria con i soldi che ti avevo dato per l’università?” 
“… io, io, io gli voglio bene” 
“Certo, la mia nipotina sensibile, ma fammi il piacere! Francesco ha settant’anni, un’anca in titanio e, sicuramente, pure un culetto flaccido! Ma tu lo guardi e vedi solo il suo conto in banca da sceicco!” 
“Ma io … lo stimo?” 
“Nipote mia, hai solo venticinque anni, quanto soffrirebbe a vederti così la buonanima di nonno Alberto” 

E il ricordo del nonno fu la goccia che fece traboccare il vaso della coscienza di Sara. 

“Ma io…. Io…. Io voglio i suoi soldi!“ e finalmente la sposa scoppiò in un pianto liberatorio. Il trucco le colava sulle guance mentre, tra i singhiozzi, abbracciava la nonna adorata. 
“Ecco, brava, su, su, sfogati tesoro mio, la verità rende liberi” 
“Perdonami nonna”, singhiozzava “perdonami, hai ragione, dovrei essere migliore di così ma io voglio essere ricca”, singhiozzava “non voglio lavorare un solo giorno della mia esistenza”, singhiozzava “voglio farmi mantenere e fare la bella vita alla faccia di tutte le mie compagne del liceo che si sono laureate e pensano di essere migliori di meeeeee!” 
“Ma no, piccolina” la consolava la nonna. “Io ti capisco, sei giovane, sei bella, tu te la meriti una vita così. Ma ti rendi conto che tuo suocero, quello col parrucchino di moffetta, ha 99 anni? Sono una famiglia longeva, non puoi neanche sperare in una precoce e serena vedovanza! Magari potresti trovarti un bell’imprenditore cinquantenne, che dici?” 
“Sai che non è una brutta idea, dici che ci riesco?” 
“Ma sì, dai, magari però prima ti rifai anche il naso” 
“Ok, mi presti i soldi tu, nonnina? 
“Poi ne riparliamo, eh” 

Sara chiese scusa all'ormai ex fidanzato. Francesco la perdonò. Poi, dopo che si furo abbracciati un’ultima volta, lei si avviò fuori dalla chiesa. Dietro la sposa amici e parenti. Qualcuno sconvolto, qualcuno sollevato qualcuno divertito. Davanti all’altare rimasero solo Francesco e nonna Rosa. 

“Ha preso tutta la faccenda come un vero signore, me ne complimento” gli disse Rosa. 
“Se devo essere sincero, una ragazza così giovane può essere molto impegnativa, mi sento sollevato”
Nonna sorrise e gli porse la mano, “Allora, addio”. 
“E no, comunque mi ritrovo di nuovo tutto solo per colpa sua, il minimo che possa fare per farsi perdonare è accettare un mio invito a cena, non crede?” 
“Non sapevo le piacessero anche le donne più grandi” 
“Neanch’io”, rispose Francesco stringendo la mano di Rosa tra le sue. “Questa sarà proprio una giornata da ricordare. Ah, dimenticavo, non è affatto flaccido” 
“Malandrino” 
“Non sa quanto” 
“Ci speravo”

Jane Pancrazia Cole


Continua la mia rubrica periodica sul quotidiano online TorinOggi: Storie sotto la Mole. Racconti dedicati alle leggende di Torino. Questa volta è il turno di Nostradamus e della sua leggendaria visita in città. 
Il medico entrò nella sala seguito da un servitore sollecito. Avvolto nella sua palandrana scura incuteva una certa naturale reverenza e altrettanta curiosità. Era stato chiamato dalla Francia ed accolto con tutti gli onori dovuti a un uomo della sua fama. 

Attese seduto su una comoda poltrona. Su un tavolino un bicchiere di vino e dei piccoli dolci. “Desiderate altro?” chiese il servitore. Lui si limitò a un cenno di diniego con il capo. Troppo preso com'era da alcuni fogli che teneva sulle ginocchia e leggeva e rileggeva. Una parte delle sue Profezie, ancora in essere.

Continua...
La sposa attraversò la navata della Chiesa stretta al braccio di suo padre, tra le mani uno splendido bouquet di rose. Parenti ed amici, seduti l'uno accanto all'altro, la guardavano commossi scattando compulsivi con i loro smartphone. Lo sposo, che l'attendeva in piedi accanto al parroco, le sorrise con dolcezza. "Sei bellissima" le disse una volta giunta all'altare. "Anche tu non sei male" rispose lei.

La cerimonia procedette liscia tra cori celestiali e lacrime di ordinanza, nonna Rosa si soffiava il naso in un fazzoletto di lino, zia Lucia cercava di sfilarsi con noncuranza le scarpe nuove strette come morsi di cani ai piedi, la madre della sposa tremava dalla voglia di sistemare il parrucchino storto del consuocero. 

Quando il prete si schiarì la voce e prese a recitare le domande di rito l'attenzione di tutti tornò agli sposi.
"Francesco, vuoi accogliere Sara come tua sposa, promettendo di esserle fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarla e onorarla tutti i giorni della tua vita?"
"Sì"
"Sara, vuoi accogliere Francesco come tuo sposo, promettendo di essergli fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarlo e onorarlo tutti i giorni della tua vita?"
"Sì"

"E no, no no no no!" tutti si girarono a guardare nonna Rosa che, in piedi in mezzo alla navata, sventolava fazzoletto e pugni: "No, no, no, voi due non potete sposarvi!"
Io ho scritto questo e ora tocca a voi. 
Raccontate cos'è andato storto, spiegate il motivo della scenata della nonna. Fatelo con un flashback, o partendo da dove ho interrotto io, o da dove cavolo vi pare. Non c'è bisogno che scriviate come andrà a finire ma, se vi va, ovviamente avete la mia benedizione. Chi sono io per fermarvi? Non sono mica nonna Rosa!

Come sempre, avete massima libertà. Usate i personaggi già presenti o aggiungetene anche altri, sguazzate in questa famiglia, in queste due famiglie. E, se avete delle domande, contattatemi via blog, social o email.

Avete tempo per spedirmi i vostri lavori fino a domenica 28 giugno alle ore 12, buona scrittura!

Tipo di testo: qualsiasi (racconto, poesia, flusso di coscienza, etc…).
Lunghezza testo: dai 100 ai millemilioni di caratteri, spazi inclusi.
Email: janecole@live.it.
Oggetto: laboratorio condiviso di scrittura. 
Specificare nel testo dell’email se volete restare anonimi o meno, se volete essere taggati (su FB) o meno. Scadenza per far pervenire il testo: domenica 28 giugno 2020, ore 12.

Volete leggere tutti i Racconti nati da questo esercizio? Li trovate qui.
"Non l'ho mai raccontato a nessuno" era questo l'incipit da cui partire per l'undicesimo esercizio del Laboratorio Condiviso di Scrittura.

Un incipit evocativo che ci ha regalato grandi soddisfazioni. Grandi storie, autobiografiche o meno, non è importante questo, quanto le emozioni profonde che emergono da ogni singola riga. Un grazie speciale a tutti i partecipanti e un augurio di buona lettura a tutti gli altri.


Non l’ho mai raccontato a nessuno, sa?

Quella volta che sono tornata a casa dopo il famoso lockdown del 2020, dopo la morte di mia nonna, è stata proprio difficile. Non credevo, prima di partire dalla Terra delle Montagne, di aver sofferto così tanto la solitudine ed il lutto.

Ero a pezzi. E me ne sono accorta sull’aereo.

Era il primo weekend di “libertà”, in cui si poteva viaggiare. Guardavo le facce delle persone in fila intorno a me in attesa al gate. Ho provato ad attaccare bottone, ma non c’erano grandi facce tristi. Eppure era stata una situazione difficile per tutti, non solo per me. Appena, da Roma Fiumicino, siamo partiti in direzione Pisa ho visto il mare. Ed ho iniziato a piangere. E sono scoppiata in lacrime, con la mascherina, vedendo l’Elba e la Meloria.

Il mare non è noioso, non è monotono come il fiume ed il lago. Ed è anche imprevedibile, si increspa, mescola tutto. La natura che sento anche mia.

In quel distanziamento - due persone per fila - ho sentito singhiozzare la ragazza nella mia stessa fila.

Ho fatto finta di niente per non imbarazzarla. Ma tra me e lei sembrava un concerto.

Non so se ha presente la canzone “Autogrill” di Guccini: descrive un momento di incontro tra due persone, con lui che sente l’anima della persona accanto “vicina”, ma non riesce nemmeno a dirle una parola.

Ecco: alla fine del concerto singhiozzato, appena arrivati, al momento della discesa, io ho provato quella sensazione. Volevo solo dirle ciao e farle un sorriso da sotto la maschera.

“Fila dalla 1 alla 10”. Ecco il nostro momento!

Mi sono alzata. Lei si alzata. Ma se ne è andata ad occhi bassi.

Sarà stata davvero lei a piangere? Era di lei il singhiozzo che mi accompagnava? Nell’alienazione e nell’incognito delle maschere?

Nella paura del diverso. Quanto mi ha fatto paura il diverso, ed anche a quella ragazza. Soprattutto in quel momento. Il diverso che non è empatico, che non piange per un’emozione. Quello che non mostra solidarietà, quello che ha avuto paura del contatto vero, anche solo con un sorriso. Ma anche quello che si vuole avvicinare troppo alla tua sfera, perchè in quel momento solo stare vicini era pericoloso, indipendentemente dalla natura dell’altro.

Era già quel momento evidenza della guerra che ne sarebbe venuta fuori. La crisi economica degli anni ‘20 e la Prima Guerra Fredda Sociale, dopo 2 anni di Distanziamento. Si ricorda?

Marianna Palmerini



Non l'ho mai raccontato a nessuno, nemmeno a me stessa. Quando sentivo una pulsazione in quella direzione, nei miei pensieri, la reprimevo. Era come se improvvisamente comparisse un bozzetto e io lo andassi immediatamente a schiacciare con un dito. Inizialmente faceva resistenza, poi si iniziava ad infossare sotto al peso del mio polpastrello. Sembrava quasi che il mio dito ci lasciasse l’impronta. Poi rimaneva un’aureola nella parte più esterna, sulla circonferenza del bozzetto. A questo punto ero costretta ad ingegnarmi per appianare quel rigonfiamento e allora iniziavo a spingere con il palmo della mano, con tutta la forza che avevo, con gli occhi chiusi. Credevo che chiudendoli avrei esercitato più pressione. Una volta appianato, rimanevo qualche minuto a contemplarlo, soddisfatta. Ma continuavo comunque a guardare lì, in quel punto. Anche volendo, non riuscivo a distogliere lo sguardo. Solo un evento improvviso ed eclatante riusciva a farmi pensare ad altro, e poi magari non ci pensavo più per giorni, settimane, anche mesi. Se ne andava per come compariva. C’ho messo tanto a dirlo a me stessa. Qualche volta poi ne ho parlato al muro della mia stanza, altre volte l’ho confidato al soffitto. Dirlo guardando negli occhi qualcuno era invece un ostacolo insormontabile. Un giorno però ho trovato un’escamotage: l’ho detto al cane.

Anonimo



"Non l'ho mai raccontato a nessuno..."

Quella sensazione di inadeguatezza verso il mondo esterno che non riesco a spiegare e mi porto dentro.

A proteggermi quella corazza che mi sono creata durante il periodo dell'adolescenza. Purtroppo, questo sentimento riemerge ogni volta che la vita mi mette davanti ad un qualsiasi problema.

Come poter dimenticare quelle parole apparse sullo schermo "Faresti meglio a sparire per sempre".

La ferita più profonda è stata generata dal tradimento della fiducia data senza remore a quella persona che credevo un' amica.

Scoprire che quelle parole erano state suggerite proprio da colei alla quale avevi aperto il tuo cuore e confidato i tuoi sentimenti è stato peggio di un pugno in pieno volto.

Cosa spinge una persona, a cui non hai fatto nulla di male, a buttare su di te tanto odio immotivato. Soprattutto chi lo fa riesce a prevedere le conseguenze portate da tali gesti?

Nel mio caso sono state diciamo "solo psicologiche, e cerco di combatterle ogni giorno, ogni volta che sento del suicidio di un ragazzo o ragazza a causa del bullismo ripenso alla lettera e mi vengono i brividi... e se fossi stata io quella ragazza?

Anonimo



"Non l'ho mai raccontato a nessuno, ma era giusto fartelo sapere. Addio, figlio mio.” 

Così si concludeva la lettera che Miguel aveva trovato nella tasca del pigiama di suo padre, morto quella mattina. Lo aveva portato via dall’orfanotrofio del convento di Villa Real quando aveva sette anni, e già dopo un anno Miguel aveva cominciato a pensare a lui come ad un padre. 

Si chiamava Augusto Lorenzin, un uomo alto, forte e dolce al tempo stesso. La malattia l’aveva portato via nel giro di sei mesi, riducendolo ad uno scheletro. I suoi occhi, però, erano sempre gli stessi: luminosi, pieni di vita e di intelligenza, con un fondo di tristezza e di malinconia di chi ha vissuto sulla propria pelle gli orrori della guerra e dei campi di concentramento.

Miguel riprese in mano la lettera, si asciugò gli occhi, e rilesse quel foglio ingiallito scritto a mano.

“Figlio mio, 

è da tanto tempo che avrei voluto consegnarti questa lettera, ma non ho mai avuto il coraggio di farlo. Mi sto portando dentro questo peso da quando ti portarono all’orfanotrofio dopo la sparizione di tuo padre. Il tuo vero padre, intendo. Già, perché io conosco la tua storia da quando ancora avevi un padre, quando vivevi in quella piccola casa nel barrio di Puerto Madero, vicino al negozio di Pedro.

A quei tempi vivevo nel barrio Palermo, da buon italiano. Mi ha sempre fatto sorridere che un veneto come me sia andato a vivere a Palermo, anche se si parla una lingua diversa. Avevo un piccolo negozio di gastronomia che avevo chiamato “Gastronomia Italia”, un po’ per ricordare le mie origini, un po’ per attirare gli italiani che vivevano nel barrio. La mia attività funzionava bene, avevo tanti clienti affezionati che venivano a comprare un po’ di tutto. Ero finalmente sereno, dopo anni passati con la paura e l’orrore appoggiati sulla mia spalla come una scimmia arrabbiata.

Avevo sempre le maniche arrotolate fin sopra i gomiti, ed ogni tanto mi cadeva l‘occhio su quelle sei cifre tatuate sull’avambraccio. Allora distoglievo subito lo sguardo perché mi riportavano alla mente dei ricordi che ho cercato di nascondere nella parte più profonda ed inaccessibile della mia mente.

Un giorno il campanello d’ingresso tintinnò e la mia vita cambiò di colpo. Era lui, era sicuramente lui: gli occhi gelidi, il portamento militare e quell’espressione che non sono mai riuscito a dimenticare. Si chiamava Herbert Von Hurer, ed era stato il comandante del campo di concentramento nel quale avevo vissuto i tre anni più terribili della mia vita. La mia mano corse subito a coprire il tatuaggio e sentii il sudore imperlare la mia fronte. Lui non mi riconobbe.

Molto educatamente mi chiese se avessi a disposizione dei bratwurst, perché a Buenos Aires non se ne trovavano neanche al mercato nero. Colsi l’occasione e gli dissi che li avrei potuti trovare ma che c’era bisogno di tempo, se mi avesse lasciato il numero di telefono avrei potuto procurarglieli. Il mio cuore batteva all’impazzata. Mi diede il numero e l’indirizzo con un sorriso appena accennato e sparì dalla porta. Nei giorni che seguirono mi procurai quello che stava cercando, lo chiamai e ci demmo appuntamento al negozio, verso l’orario di chiusura.

Fu fin troppo facile, lo portai nel retrobottega e gli dissi che sapevo chi fosse. Lui sbiancò, cercando di convincermi che avevo sbagliato persona, allora gli sussurrai la frase in tedesco che pronunciava più spesso, e che era sinonimo di percosse e torture: “Der letze, der in die Baracke eintritt….”. Con un filo di voce completò la frase: “…muss Pfand bezahlen”. “L’ultimo che entra nella baracca…deve pagare pegno”.

Fu facile sopraffarlo: con gli anni avevo ripreso peso e mi ero irrobustito, mentre lui era parecchio dimagrito e non faceva più esercizio fisico. Le mie dita affondarono nel suo collo e lo tennero stretto finché smise di muoversi. Avevo anche pensato a come liberarmi del cadavere, ma non voglio scendere in dettagli. Sappi solo che se vorrai ritrovare il corpo di tuo padre non ti sarà possibile.

Dopo che i vostri vicini di casa diedero l’allarme si scatenò per tutta Buenos Aires una caccia all’uomo per ritrovare tuo padre. La notizia fu riportata da tutti i giornali, i titoli parlavano della misteriosa sparizione del Barrio di Puerto Madero. Io leggevo avidamente tutti gli articoli, alla ricerca di un eventuale testimone che avesse potuto vederlo mentre entrava nel mio negozio, ma non si trovarono testimoni attendibili o tracce che potessero portare a me. Ma lessi di te, il bambino di sette anni figlio dell’uomo scomparso, orfano di madre ed ora anche orfano di padre. Senza parenti che potessero prendersi cura di te, finisti all’orfanotrofio.

Fu lì che ti trovai dopo due mesi dal fatto: triste e solo sedevi in un angolo, con quei bei capelli biondo scuro e quegli occhi tristi e grandi. Gli stessi occhi di tuo padre, la stessa tristezza dei miei. Fu lì che presi la mia decisione: prenderti con me. Le suore del convento, cui portavo periodicamente delle provviste e che mi conoscevano bene, non ebbero problemi ad acconsentire che ti portassi a casa nonostante non fossi sposato, definendomi un angelo del paradiso. Se solo avessero saputo.

Crescesti bene, figlio mio. Forte, buono, spaventosamente intelligente. Non riuscii più a batterti a scacchi da quando avevi dieci anni, è il mio unico cruccio. Col passare degli anni avevo quasi rimosso le circostanze che ti portarono a vivere con me, ed in seguito ad adottarti legalmente dopo che Rosita era entrata nelle nostre vite, con la prepotenza e la dolcezza che solo una donna argentina può avere. Ridemmo insieme al matrimonio, piangemmo insieme al suo funerale. Non riesco ancora adesso a perdonare l’automobilista ubriaco che la uccise, anche se rimase ucciso pure lui nello schianto.

Ed ora che la vita mi sta abbandonando, sento il bisogno di confessarti tutto. Perdonami per essere stato codardo e per non avertelo detto a voce, ma ci sono cose che ancora adesso non riesco ad affrontare.

Non l'ho mai raccontato a nessuno, ma era giusto fartelo sapere. Addio, figlio mio.”

Miguel prese la lettera, la piegò con cura e la ripose tra le mani del padre. Adesso sapeva tutta la verità ma non gli importava. Era diventato suo padre e l’aveva amato con tutte le sue forze, l’aveva portato via da un padre biologico che nei suoi ricordi di bambino appariva freddo e a volte spietato. Pensò che Augusto Lorenzin, un veneto approdato in Argentina in cerca di una nuova occasione, la vita gliel’aveva salvata.

Beppe Carta



Non l’ho mai raccontato a nessuno nemmeno al mio amico immaginario. Sì, ho un amico immaginario. Per l’esattezza da circa 23 anni e so già cosa stai pensando. Non sono pazza. A lui confido sempre tutto: paranoie, scleri improvvisi, brutte parole. Spesso mi ritrovo a passeggiare avanti e indietro per la casa mentre aspetto il caffè salire nella moka o cerco ispirazione per uno dei miei articoli. Inizio a farmi dei discorsi degni di una sceneggiatura con botta e risposta, possibili comparsate e colpi di scena. Come se qualcuno potesse replicare, ma in realtà quella che replica ad ogni battuta sono sempre io. Sono capace di rimproverarmi da sola e subito dopo chiedermi scusa. Credo che vedere dall’esterno questi siparietti sia quasi divertente. Potrei avere un futuro da comica. Questa volta, però, è diverso. Non posso pronunciare a voce alta quello che sto custodendo gelosamente nella mia testa con la speranza che il cuore non possa percepire nulla. Ogni volta che capta una nuova emozione inizia a battere nella speranza di farsi sentire e ora non è proprio il caso di dare spettacolo di egocentrismo. Non dopo tutto questo tempo. Non sono pronta alle possibili conseguenze nell’ammettere di aver preso in giro tutti e sentirmi dire che devo andare avanti. Effettivamente davanti alle carte di separazione consensuale, firmate da entrambi, cosa pretendo ancora? Il caffè, ho dimenticato il caffè sul gas. Sono il solito disastro. 

 Sabrina Marchetti



Non l’ho mai raccontato a nessuno ma lo farò ora. Non so andare in bicicletta. Sono un’adulta che, se ci provasse ora, avrebbe ancora bisogno delle rotelle. Vi sembra imbarazzante? Lo è.

Ho vissuto dagli zero ai 7 anni con i piedi felicemente piantati a terra. Poi, un lontano 25 dicembre di tanti anni fa, sotto l’albero di Natale trovai una bici. Regalo dei miei zii. Da quel momento, i piedi sarebbero dovuti finire su due pedali.

L’entusiasmo per l’inaspettato dono durò poco. Precisamente fino a quando, pochi giorni dopo, i miei genitori investirono mia sorella, 8 anni più grande di me, dell’onere di mettermi sul sellino e spingermi verso un luminoso futuro da ciclista.

L’infelice esperimento ebbe luogo in cortile e durò pochi minuti. Finì rapidamente con una bimba frustrata e in lacrime e una ragazzina al limite dalla crisi isterica. La piccola fifona tornò a casa dichiarando che a lei non interessava imparare ad andare in bici.

Io, ovviamente, avevo paura di cadere e farmi male. 
Mia sorella, di soli 15 anni, non aveva la pazienza e l’autorità necessarie per imporsi e riuscire nell’impresa. I miei genitori – lavoratori incalliti, appartenenti alla generazione che vestiva nutriva, amava i figli ma sicuramente non li accompagnava ai giardinetti – misero la bicicletta in cantina e ritennero la faccenda chiusa.

E sarebbe anche andata bene così se, con gli anni, la vicenda non si fosse trasformata in un simpatico aneddoto famigliare. Il cui titolo più o meno era: “Quant’è imbranata la nostra secondogenita. Ah ah ah grasse risate”. Tirato fuori periodicamente per anni, anni e anni. Fino a quando decisi che era giunto il momento di indicare a tutti il grassoccio elefante che stazionava in cucina con noi dai tempi della mia infanzia, e che i miei genitori si ostinavano ad ignorare.
“Io sarò anche stata imbranata e fifona” dissi loro. “Ma voi prima avete scaricato la responsabilità su mia sorella. Una ragazzina. E poi avete lasciato decidere una bambina di sette anni, bambina a cui non facevate mai decidere un cazzo, solo perché eravate troppo pigri, stanchi o in fondo non ve ne fregava nulla, per alzare il culo un sabato pomeriggio e insegnarmelo voi”. Fu solo in quel momento che vidi riflesso il pachiderma negli occhi dei miei. 
L’elefante così sparì e, insieme a lui, il simpatico aneddoto.

Che sia chiaro: i miei genitori, per il resto, sono quasi perfetti e io, effetti, sono un po’ rancorosa. Però, quando finalmente sputo il rospo, anche a distanza di enne anni, mi sento meglio e solo a quel punto sono pronta ad andare avanti. Con rotelle o meno. 
E questo no, non l’avevo proprio mai raccontato a nessuno.

Jane Pancrazia Cole

Torna l'attesissimo (lo stavate attendendo tantissimo, nevvero?) appuntamento mensile con i miei consigli su cosa fare e vedere. E, per questa volta, anche sentire.

Cominciamo col botto, con il canale di YouTube di David Lynch. Sì, proprio quel David Lynch. Il regista. Il genio. Il visionario.
E che si è inventato il nostro pazzo pazzo David? I Weather Report. Le previsioni del tempo. Fatte da quello che sembra quasi un bunker, commentando nuvole e temperature.
"Diane, undici e trenta di mattina del 24 febbraio. Sono quasi arrivato a Twin Peaks, cinque miglia a sud della frontiera canadese, due miglia ad ovest dei confini dello stato. Non avevo mai visto tanti alberi in tutta la mia vita. Come direbbe W. C. Fields, è meglio stare qui che a Philadelphia. Temperatura 12°, cielo leggermente nuvoloso. Il meteorologo ha previsto pioggia. Se si potesse guadagnare tutti quei soldi per sbagliare il 60% delle volte sarebbe un bel lavorare", diceva all'inizio di Twin Peaks l'agente Cooper.
Tutto torna, pazzo pazzo David.
https://www.youtube.com/channel/UCDLD_zxiuyh1IMasq9nbjrA.

Mi avete seguito quando ho parlato del Salone del Libro qui, qui, qui e pure qui? No? Certo che, ogni tanto, potreste pure darmela una soddisfazione!
Comunque, sul sito ufficiale del Salone sono disponibili tutti gli incontri di questa specialissima edizione streaming appena trascorsa. Andate a curiosare e divertitevi!
https://www.salonelibro.it/ita/salto-extra-replay.
http://www.radiocole.it/2020/05/pancrazia-al-salone-si-comincia.html.
http://www.radiocole.it/2020/05/pancrazia-al-salone-il-principe-tigre.html.
http://www.radiocole.it/2020/05/pancrazia-al-salone-lautore-invisibile.html.
http://www.radiocole.it/2020/05/pancrazia-al-salone-il-gran-finale.html.

Vi piace il cinema? Ogni domenica pomeriggio sulla pagina de Il Morandazzo c'è un appuntamento imperdibile: Il buono, il brutto il cattivo. Alle 17, Massimo Pica (il Morandazzo) e Federico Basso parlano di film belli (il buono), brutti (il brutto, of course) e imperdibili (il cattivo!). Tanto cinema e parecchia simpatia. Sarò anche di parte, essendo strettamente imparentata con il Morandazzo, ma per me questo è diventato un appuntamento irrinunciabile.
https://www.facebook.com/ilmorandazzo/.

Da qualche mese ho una nuova passione: i podcast. Un mezzo di comunicazione e diffusione della cultura che ho imparato ad amare e spero, presumibilmente dal prossimo autunno, anche ad utilizzare personalmente (spoiler!). Le proposte sono infinite ma il mio preferito per ora è Pilota, di Alice Alessandri, Alice Cucchetti e Andrea Di Lecce. Tutto dedicato alle serie tv. Una manna per quelli malati come me.
https://www.querty.it/show/pilota/.

E, come sempre, concludo con l'EVENTO dell'ANNO! Vabbè magari anche un po' meno. Più onestamente: il mio progetto dell'anno. Il Laboratorio Condiviso di Scrittura. Un esercizio ogni due settimane. Può partecipare chiunque. Si può partecipare quando si vuole e quante volte si vuole. È completamente, assolutamente, meravigliosamente gratuito. In questi giorni è in ballo l'undicesimo esercizio, scrivete, bella gente, scrivete!
http://www.radiocole.it/2020/06/undicesimo-esercizio-scrittura-tempo.html


Durante quest'avventura, che è il Laboratorio Condiviso di Scrittura, ogni tanto bisogna prendere una pausa, rilassarsi, continuare sì a scrivere ma in maniera più libera, meno impegnata.

È a questo che serve la Scrittura a Tempo, efficace fil rouge di questo laboratorio. Esercizio che vi ripropongo periodicamente, quando ritengo che sia il momento giusto.

Come ogni volta, avete dieci minuti di tempo: puntate la sveglia. Partite dall'incipit che vi darò e da lì scrivete, scrivete, scrivete. Senza mai fermarvi, senza mai correggere, senza mai rileggere, senza mai tornare indietro. Continuate così fino alla sveglia. Al suo trillo avrete davanti a voi un testo unico, che potrà essere una poesia, un racconto, un monologo, un flusso di coscienza, qualsiasi cosa sia scaturita da questo "esperimento". 

Potrete già spedirmi quel testo, senza correzioni o correggerlo, modificarlo, utilizzarlo come l'inizio di un lavoro più ampio. Fate come vi pare!

Ecco l'incipit per questa volta:
"Non l'ho mai raccontato a nessuno...
Ricapitolando: puntate una sveglia che suonerà dieci minuti dopo. Scrivete partendo da questo incipit. Quando suona la sveglia metteteci un punto. E poi, riletto il risultato, decidete che farne: spedirmelo così com'è, correggerlo, ampliarlo, modificarlo. Avete piena libertà di scelta.

Buon lavoro e a presto!

Tipo di testo: qualsiasi (racconto, poesia, flusso di coscienza, etc…).
Lunghezza testo: dai 100 ai millemilioni di caratteri, spazi inclusi.
Email: janecole@live.it.
Oggetto: laboratorio condiviso di scrittura.
Specificare nel testo dell’email se volete restare anonimi o meno, se volete essere taggati (su FB) o meno.
Scadenza per far pervenire il testo: domenica 14 giugno 2020, ore 12.

Volete leggere i Racconti nati da questo esercizio? Li trovate qui.
Poco ispirante o troppo difficile, chi lo sa? Fatto sta che il decimo esercizio del laboratorio Condiviso di Scrittura ha visto una partecipazione limitata ma, come sempre, preziosa.

Quindi per questa settimana abbiamo solo tre racconti: uno mio, uno di Beppe e uno di Marianna, partecipanti appassionati di questa avventura, che ringrazio con tutto il cuore. Tre testi diversi accomunati dallo stesso titolo L'amico immaginario.

Buona lettura!


Iniziò tutto all’età di quattro anni. Me ne stavo solo nella mia cameretta e facevo lunghi discorsi col mio amico Gianni. Il mio amico speciale, che solo io potevo sentire e vedere. I miei genitori mi lasciavano fare perché secondo loro era indice di intelligenza, io facevo il possibile per evitare di parlare con Gianni in loro presenza.

Crescendo, Gianni cresceva con me. Mi consigliava cosa fare, quali persone evitare per non mettermi nei guai, mi suggeriva le risposte alle interrogazioni, mi teneva compagnia nei momenti in cui ero da solo, ed erano tanti. Non sono mai stato un ragazzino troppo socievole, ma avevo ottimi voti a scuola ed i miei genitori non si preoccupavano, l’importante per loro era che io fossi educato, studioso e sereno.

Vennero i tempi delle scuole superiori, e Gianni era ancora con me. I miei compagni di scuola mi consideravano un tipo un po’ strano e mi lasciavano in pace. Anche gli immancabili bulli non provavano interesse per me, perché li avevo corrotti suggerendo le risposte durante i compiti in classe ed aiutandoli nello studio. Ero come in una bolla, il cui accesso era precluso per tutti tranne che per Gianni.

Gli anni scorrevano tranquilli, tra ottimi voti, vacanze noiose in compagnia dei miei genitori e lunghe chiacchierate con Gianni. L’università non cambiò di molto il mio stile di vita. Gianni era sempre con me, e grazie alle sue geniali intuizioni ottenevo ottimi voti. L’ultimo anno di università lo passai praticamente chiuso in casa, scrivendo la tesi che Gianni correggeva, suggerendomi modifiche o aggiunte che avrebbero reso più brillante e scorrevole la mia presentazione.

Uscii dall’università con il massimo dei voti, i miei genitori erano davvero orgogliosi di un figlio tanto brillante e colto, i miei compagni di corso mi videro sfilare via dalle loro vite immediatamente dopo la tesi, per non farvi più ritorno.

I mal di testa iniziarono circa due anni dopo, quando ormai ero inserito nel mondo del lavoro, con delle mansioni tecnico-scientifiche che mi consentivano di lavorare da casa, senza contatti con colleghi o capi.

Erano delle fitte lancinanti, posizionate proprio dietro gli occhi. Talvolta erano così violente che la vista si appannava, costringendomi a sdraiarmi al buio. Gianni però era sempre lì e mi sussurrava parole di conforto, che mi portavano a lunghi sonni ristoratori.

Una mattina avvenne: stavo facendo una doccia, quando il mondo divenne buio. Mi risvegliai in un letto di ospedale, con mia madre in lacrime che mi teneva la mano ed un dottore che parlava a mio padre, il quale ascoltava con un’espressione che non gli avevo mai visto. I medici individuarono una massa scura all’interno del mio cervello. Fortunatamente la massa era facilmente raggiungibile, e decisero che la chirurgia era l’opzione migliore.

Quando mi svegliai avevo una sete terribile ed ero molto debole e spossato, ma i mal di testa erano svaniti, insieme a Gianni. Provai a sussurrare il suo nome per diversi giorni ma non ottenni risposta. L’amico di una vita era svanito insieme alla massa tumorale nel mio cervello. Quando mi resi davvero conto della portata di tale evento, piansi come non avevo mai fatto. Adesso ero davvero solo.

Questo mi portò a reagire. Adesso, a distanza di dieci anni, ricordo a malapena la sua voce. Mia moglie dorme accanto a me, un bicchiere di latte potrebbe aiutarmi a fare lo stesso. Mi avvicino alla camera di mio figlio, lo sento parlare. Nascosto vicino all’uscio, sento che parla da solo, come se ci fosse qualcuno in camera con lui. Lo chiama Gianni.

Beppe Carta




Mio fratello aveva un amico immaginario che si chiamava Caccoloni.
Caccoloni era un’ombra, che vestiva sempre dei completi scuri con camicia bianca. Quando appariva, la cravatta era immancabile ed aveva lo stesso colore cangiante del completo: entrambi assumevano infatti tutte le possibili tonalità di nero/grigio, così che Caccoloni poteva mimetizzarsi nell’oscurità e mostrare solo la luminosa chiara camicia ed i bianchi occhi scintillanti.
Mio fratello se ne vergognava un po’. Avrebbe preferito di gran lunga che il suo amico immaginario sparisse per sempre ed ogni volta che si accorgeva di lui nascosto tra le onde delle sue scarpe preferite provava sempre a calciarlo via.
Mio fratello se ne vergognava soprattutto quando si incontrava con me e con nostra cugina, cioè quando anche i nostri amici immaginari si incontravano.
La mia amica immaginaria si chiamava Avventura ed era una vecchiettina canuta e permanentata, dagli occhi curiosi e sperduti, con uno zaino da viaggio coloratissimo sempre in spalla. Lo zaino era una composizione di totem, incastrati in maniera magistrale – un gufo, un cervo, un lupo, un piccolo orso - ritrovamenti speciali durante i suoi innumerevoli viaggi in ogni continente. Era l’essenza, in definitiva, della mia anima un po’ svampita e della mia voglia di viaggiare.
L’amica immaginaria di mia cugina, invece, si chiamava Luna. Le sarebbe stato senza dubbio meglio il nome Spavento, perché era una bambina tremante, così simile alle immagini della Piccola Fiammiferaia, la ragazzina di strada della rivoluzione industriale, sola, con una pezza stretta sulla testa, il grembiule, la lampada a cherosene. Ed ogni volta che le veniva rivolta parola saltava in aria dalla paura o si nascondeva dietro qualcosa.
In particolare aveva una paura matta di Caccoloni, così scuro e tetro. Quando ci incontravamo, lei non si faceva vedere. Si fingeva un nuovo totem dell’enorme zaino di Avventura od addirittura ci si nascondeva dentro. Caccoloni si sentiva così respinto ed in colpa... per essere sé stesso.
La paura di Luna, era indice – non so come – del bullismo di mia cugina nei confronti di mio fratello. 
Piccole cose, chewingum sui vestiti, sgambetti, brutti nomignoli, prese in giro.
Caccoloni, all’ennesimo chewingum ed all’ennesima richiesta da parte di mio fratello di sparire dalla sua vita, decise di cambiare. Era tutta colpa sua.
Una settimana aveva cercato di tingersi la nuca color arcobaleno. La settimana successiva aveva dismesso l’abito nero per sostituirlo con i pantaloni colorati comprati sui banchetti al mercato sudamericani etnici, insieme al flauto di Pan in offerta. La settimana successiva si era messo le lenti colorate.
Luna continuava però a nascondersi ed a nascondersi, in luoghi sempre più particolari. Oramai l’etichetta di brutto, tetro, sporco e Mostro, a Caccoloni, non gliel’avrebbe tolta più nessuno. Nonostante l’animo dolce, combattivo, docile e l’amore per mio fratello.
Che continuava a cercare di calciarlo via.

Adesso sono tutti spariti. La mia Avventura urlandomi in faccia che era stufa di stare in casa con i miei genitori. Luna ha finito il cherosene e non si è vista più.
Eppure, io mi ricordo, mio fratello aveva un vero amico – immaginario - che si chiamava Caccoloni.

“Ci aveva tormentato a lungo il dubbio su chi era un mostro e chi non lo era, ma da un pezzo poteva dirsi risolto: non-mostri siamo tutti noi che ci siamo e mostri invece sono tutti quelli che potevano esserci e invece non ci sono, perché la successione delle cause e degli effetti ha favorito chiaramente noi, i non-mostri, anziché loro.”

Marianna Palmerini



Sono accanto a Jimmy da quando era piccino. Era ancora nella culla quando facevo tintinnare nelle sue orecchie campanule fatate. Stava seduto sul prato avvolto stretto nelle fasce, quando gli raccontavo di mosche che navigavano nello stagno su grandi foglie ed erano costrette a scappare da terribili rospi. Poi, quando cominciò a camminare gli parlai a lungo di quei tre fratelli che avevo conosciuto molte vite orsono e della mia passione per i bottoni. Infine, era già più grandicello, più o meno 5 o 6 anni di quelli che contate voi, quando credetti che fosse giunto per lui il momento di provare a prendere il volo saltando dalla finestra. L'esperimento non riuscì, Jimmy si ruppe un braccio e, arrabbiatissimo, smise di parlarmi.

Furono anni noiosissimi, io continuai a bisbigliarli all'orecchio ma lui non volle più rispondermi. E così feci di tutto per attirare la sua attenzione. Le campanule divennero prima campanelli e poi graziose fatine dai caratteri dispettosi. Le mosche crebbero fino a diventar grandi quanto pirati, le foglie galeoni e i rospi coccodrilli. Persino i bottoni cambiarono e si fecero baci. Le provai di tutte ma Jimmy si mostrò persino più caparbio di me.

Finalmente però venne il tempo dell'Accademia e per lui fu tale la solitudine nei primi giorni che, pur di aver di nuovo un amico, alla fine decise di perdonarmi.
"Ce ne hai messo di tempo" gli dissi seduto al fondo del suo letto.
"Peter, mi sono quasi ammazzato per te!"
"Quante storie, sono passati anni e tu sei ancora vivo e vegeto. Forse, quella volta, non abbiamo usato abbastanza polvere di fata, la prossima andrà meglio"
"Hai la testa piena di storie e, per colpa tua, ora ce l'ho piena pure io. Papà dice che non mi serviranno a niente nella vita!"
"I papà sono noios..." mi interruppi quando vidi la luce del corridoio accendersi e il custode spuntare sulla porta. "Ehi tu, James Matthew Barrie" disse indicando il mio amico "torna a dormire!"

Jane Pancrazia Cole

Come vi avevo già annunciato, sabato pomeriggio ho partecipato a una diretta Facebook dedicata al cinema degli anni '80.

Eravamo in 5. Chi quel decennio l'ha vissuto da bimbo e chi da ragazzo.  Ognuno di noi ha "portato" due film dell'epoca a cui è particolarmente legato. E una pellicola che, per ragioni diverse e sicuramente opinabili, detesta. 

Quindi no, non è stata una tavola rotonda dedicata ai più grandi capolavori cinematografici di quel periodo e neanche un compendio esaustivo dell'argomento, ma una chiacchierata tra amici che hanno ricordato sensazioni e sentimenti degli ormai lontanissimi anni '80. 

Se vi va di recuperare l'evento – perché la mia presenza in una diretta Facebook può considerarsi tale – andate a questo link e buona visione!

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