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Per questioni anagrafiche e culturali sono un'esperta di cinema anni '80. E sciorinerò tutta la mia conoscenza domani, sabato 30 maggio, alle ore 17 in una diretta su facebook.

L'appuntamento è con il format C'era una volta il Cinema che potrete seguire sul mio profilo o sul profilo di Morandazzo. Una tavola rotonda semiseria – molto semi e poco seria – che vedrà partecipare gente bella bella che, molto probabilmente, finirà con l'accapigliarsi parlando di Dirty Dancing!

Preparate glitter e rossetti rosa shocking gli anni '80 stanno tornando!

La 127 verde prato arrancava su per la collina. Giovanni era andato al Sant’Anna a prendere Lucia e il loro piccolino appena nato.

La strada era scivolosa a causa della neve caduta pochi giorni prima, spifferi di aria gelida entravano nell'abitacolo, mentre le ombre si allungavano e il sole si preparava a tramontare.

Lucia, stretto il piccolo in una copertina, tremava per il freddo ma anche per la paura, "Sarà una brutta notte" disse fissando il tetto della villa che s'intravedeva più su lungo la strada ...

Continua...

La splendida foto è di Alessandro Bonvini, CC BY 2.0.
E il mio racconto continua sulle pagine di TorinOggi.

Siamo già arrivati al decimo esercizio, DECIMO. Accipicchia, vola il tempo quando ci si diverte! Il Laboratorio Condiviso è nato a gennaio e in questi mesi vi ho proposto incipit, finali, facce, nomi, illustrazioni e persino oggetti. Tutti spunti che voi avete usato per raccontare splendide storie.

Ma, in mezzo a tutto questo cucuzzaro di roba, manca una cosa, ovvia, che non abbiamo ancora usato, parte stessa di ogni racconto o poesia che si rispetti: il titolo. Evocativo o meno è la presentazione di un testo, lo identifica, ci permette d'intravederne il contenuto come sbirciando da una porta socchiusa.

Questa settimana ne ho scelto uno, uguale  per tutti voi. L'amico immaginario sarà il titolo dei vostri componimenti, racconti, poesie, monologhi, che siano.

Lasciatevi ispirare dai ricordi d'infanzia, dai libri che avete letto, i film che avete visto, le storie che vi hanno raccontato, gli sguardi che vi osservano da sopra le mascherine. Le possibilità sono infinite, sfruttatele!

Prima di augurarvi buon lavoro, come sempre, vi ricordo che, per dubbi o perplessità, sono a vostra disposizione, sul blog, via email e sui social. Sono Jane Pancrazia Cole, anche detta SempreConnessa.

Buona scrittura a tutti, spero di leggervi presto!

Tipo di testo: qualsiasi (racconto, poesia, flusso di coscienza, etc…).
Lunghezza testo: dai 100 ai 3600 caratteri, spazi inclusi.
Email: janecole@live.it.
Oggetto: laboratorio condiviso di scrittura.
Specificare nel testo dell’email se volete restare anonimi o meno, se volete essere taggati (su FB) o meno.
Scadenza per far pervenire il testo: domenica 31 maggio 2020, ore 12.

Volete leggere i Racconti nati da questo esercizio? Li trovate qui.

Le illustrazioni di Dixit hanno scatenato la fantasia di molti di voi, non solo per quanto riguarda il contenuto ma anche la forma. Per questo nono esercizio, infatti, abbiamo ben due filastrocche e una... tenetevi forte... canzone! La potete ascoltare al fondo del post.

Io non posso far altro che ringraziarvi per avermi e averci regalato, ancora una volta, delle storie bellissime e degli atti di vero e proprio coraggio.

Buona lettura a tutti e tenetevi pronti per il prossimo esercizio!



Da sotto il piumone sembrava un giorno come gli altri e come gli altri l’avrei cominciato a vivere solo dalla tarda mattinata in poi. Ma quel mattino un’insolita e inappropriata luce estiva lottava affannosamente con i rami dell’enorme noce che sovrastava la mia minuscola casa, e uno dei raggi, il più antipatico evidentemente, non trovando nessun ramo pronto a sbarrargli la strada, riuscì ad entrare dritto a colpire lo specchio posto sulla cassettiera della nonna e riflettendo, un po’ sulla povera nonna e un po’ sullo specchio, colpiva di rimbalzo il vetro della sveglia posta sul comodino e, ancora rimbalzando (la luce e non la sveglia), colpiva l’unico mio occhio non affondato nel cuscino con il risultato di sostituire nella sua funzione principale la sveglia.
Dovevo fare qualcosa, ma cosa?
Non d’accordo con me stesso rovesciai il piumone di lato e mi alzai in piedi di scatto riuscendo nella non facile operazione di mantenere l’equilibrio pur avendo ancora gli occhi chiusi. Mi avvicinai a memoria al cassettone di nonna e quando la pancia toccò il cassetto più aperto dei tre, finalmente decisi di aprire gli occhi.
Con mia meraviglia nello specchio non c’era il mio solito viso, ma quello di un coniglio stanco e visibilmente segnato da postumi di una serata dedicata all’alcol. Rimasi così a fissarmi negli occhi rossi per qualche minuto in un tempo sospeso tra rassegnazione e meraviglia.
Eppure dovevo fare qualcosa, ma cosa?
Poi arricciai il naso un paio di volte e mi decisi a vestirmi. Indossai con calma armatura, mantello e presi la mia spada e andai verso la porta della mia minuscola casa. Ma i postumi forse non erano affatto tali, perché di porte ne vedevo tre. Altri minuti interminabili attendendo che almeno una delle tre cominciasse una qualche forma di dissolvenza, o che vibrasse, o che mi facesse intendere con un qualunque segnale di essere una porta non reale.
Niente. Erano veramente tre porte. Dovevo sceglierne una. Anche se non ricordavo esattamente perché dovessi uscire in realtà.
Dovevo fare qualcosa, ma cosa? Io non me lo ricardavo.
All’improvviso realizzai che nessuna delle tre porte assomigliava a quella di casa mia. Un fruscio dietro di me, seguito da un piccolo lamento. Voltai solo la testa verso la camera da letto che mi ero lasciato alle spalle con un movimento che durò molto più del necessario e vidi qualcosa muoversi sotto il piumone. Nemmeno il piumone era quello di casa mia.
Dal fondo del letto spuntava una zampa di coniglia con un piccolo tatuaggio sulla caviglia: una carota a forma di cuore. SBAM! Come un’iniezione di adrenalina di colpo rivedo una serie di immagini comparire velocemente a ritroso nella memoria: tatuaggio, coniglietta, sesso, spogliata, un bicchiere ancora, entra un attimo, la porta in legno, abito qui, ti accompagno, domani parto per la guerra, evviva, ancora uno, sei ubriaco, bella sei sola?, evviva, ancora uno, evviva, alla guerra, ancora uno, al re, bella portaci un boccale, andiamo alla locanda, è giunta l’ora, il re ha deciso. La porta in legno è quella giusta per andare. Adieu.

Luca Nava


La vita scorreva serena, nel villaggio di Hug-Majul. Il trifoglio cresceva abbondante sulla riva del ruscello, grazie alle acque alimentate dal ghiacciaio della montagna sacra.

Hug-bree era un giovane inquieto alla ricerca di sfide ed avventure. Da piccolo aveva passato tre giorni nella foresta, spaventando a morte i genitori ed i suoi quindici fratelli e sorelle. Crescendo, Hug-bree era diventato un coniglio forte e coraggioso.

Una notte il villaggio fu svegliato da un immenso boato ed il ruscello si prosciugò. Ben presto il trifoglio si seccò, la carestia era alle porte. Hug-bree aveva capito cosa era successo, ma per averne la prova doveva scalare la montagna sacra e questo era assolutamente proibito.

Così si armò di tutto punto, indossò l’armatura che il fabbro gli aveva costruito, e nel cuore della notte si diresse verso la montagna sacra. Attraversare la foresta fu molto pericoloso, dovette far ricorso alla sua forza ed astuzia per sconfiggere l’orso che gli si parò davanti, colpendolo alla base del collo con un agile balzo.

Passarono i giorni, ma finalmente Hug-bree giunse in cima alla montagna sacra e si ritrovò davanti ad uno spettacolo orribile: una frana aveva ostruito il passaggio delle acque. Disperato, si sedette senza sapere cosa fare.

La mattina dopo si svegliò di soprassalto. Una piccola bambina umana era seduta accanto a lui. La curiosità ebbe la meglio sulla diffidenza e si avvicinò.

“So perché sei qui”, disse la bambina. Ma la voce che sentiva era una grande eco all’interno della sua testa. “Hai visto la frana e non sai come liberare le acque che danno vita al tuo villaggio, vero?”. Hug-bree pensò che non si trattasse esattamente di una bambina umana. “Hai ragione”, gli disse leggendogli nel pensiero, “sono una fata della prima schiera che popola la montagna, ecco perché vi è proibito salire quassù. Sono qui perché voglio aiutarvi. C’è un solo modo per eliminare la frana, grazie all’invenzione di un umano chiamato Nohb-ehel. La sua casa si trova oltre la montagna, sull’altro versante. Vive in mezzo ad una radura al di là del bosco”, e sparì.

Hug-bree, rincuorato da questa nuova speranza, si diresse il più velocemente possibile al bosco sull’altro versante, ed individuata la radura trovò la casa. Col cuore che batteva all’impazzata si avvicinò alla porta, che era aperta. Fissata su di essa un foglio riportava delle parole al tempo stesso cariche di speranza e di mistero.

La fata mi ha avvisato del tuo arrivo, piccolo amico. Ho quello che serve per risolvere il problema del tuo villaggio, ma da umano non posso presentarmi a te. Inoltre, visto che sono convinto che le soluzioni ai problemi debbano essere conquistate, ti pongo un quesito. Entrando, troverai davanti a te tre porte: la prima è riccamente decorata, di legno pregiato, fine ed elegante. La seconda porta è di legno grezzo con un architrave in pietra, la terza porta è completamente di ferro, con robuste cerniere. Quale porta cela la soluzione al tuo problema? Buona fortuna, piccolo amico!

Hug-bree si sedette a riflettere: “la prima porta non va bene, perché ricchezza e potere non mi serviranno. La terza porta in ferro, non potrà aiutarmi perché forza e robustezza non mi aiuteranno a spostare massi così grandi. La porta in umile legno grezzo e l’inamovibile architrave in pietra rappresentano l’umiltà e la determinazione, che sono l’unico mezzo per risolvere i problemi”.

Quella stessa notte il villaggio fu svegliato da un tremendo boato, e alle prime luci dell’alba le fresche acque del ruscello ritornarono a dare la vita al villaggio.

Beppe Carta


Tutte le paure le aveva chiuse dentro una corazza a prova di lacrime. Era diventato il più valoroso coniglio delle Valli Scuoiate. Da quando armeggiava la spada con inaudita maestria si erano fatti sempre più radi i rapimenti di vispe conigliette con patate al forno. Non l’aveva scelto il suo personaggio. Ma ci si trovava a suo agio. Mentre con la spada sguainata inseguiva le Indifese Carote non faceva che ripeterselo. Era proprio l’Impavido Coniglio! E lo sarebbe stato per sempre. Il segreto era fermarsi un pochino prima, spingersi, anche correndo, in fondo ai prati più ambiti ed ai castelli più lontani. Ma poi rimanere lì, impalato e sereno a godersi le sue sconfinate sicurezze. Senza mai oltrepassare la soglia. Non era certo una cosa facile. Ci aveva messo anni per costruirsi così. Ed era stato tanto bravo che non riusciva neppure a ricordarsi chi fosse. Dopotutto a chi importava? Lo osannavano per la spada e le frasi spietate e senza senso. Lo adulavano per la violenza inaudita che esprimeva al meglio contro Ortaggi Indifesi (i nemici più odiati) o contro Conigli Maculati (non era certo colpa sua se aveva un pelo bianco candido!).

E così la vita trascorreva beata tra imprese e perigliosi viaggi senza meta. Una volta, dopo giorni e giorni di cammino era arrivato in una casetta che avrebbe potuto conosceva fin troppo bene. Era così modesta! Ma non era affar suo. Si era fermato a guardare le pietre sconnesse intorno alla porticina di legno. Per un attimo un fremito l’aveva percorso. Ma per fortuna era stato solo un attimo e c’era anche una certa brezza. Nessun sentimentalismo e nessun legame. Lui era un grande guerriero: l’Impavido Coniglio non aveva certo bisogno di coccole e leccatine. Chiuse l’elmo e si mosse di scatto per continuare il viaggio, senza voltarsi più. Dietro quella porta marrone, accanto ad una stufa annerita, la vecchiaia consumava una sdentata coniglia che non faceva che pensare a lui. All’Impavido Coniglio che non vedeva da anni e che non avrebbe abbracciato mai più.

Erano passati anni di peripezie inaudite ma la sua fama era cresciuta oltre i confini più lontani solo dopo il salvataggio di Dolce. Dopo averla strappata ai Ghiri Briganti avevano viaggiato per giorni per fare ritorno al castello dorato dall’uscio scarlatto. Tutti l’avrebbero festeggiato se solo avesse avuto tempo per fermarsi. Sin dall’inizio del viaggio aveva risposto solo con battute oscene e sfuggenti alle domande della fanciulla. Così Dolce aveva presto smesso di rivolgergli la parola e si era concentrata a soffocare quel sentimento che sarebbe potuto nascere nel suo cuore. Sarebbe stata solo gratitudine e niente più.

Era giunto l’inaspettato inverno. Per fortuna l’Impavido Coniglio aveva un manto caldo sotto la corazza termica. Anche se le giornate si facevano sempre più corte, non si lamentava. Nelle ore del mattino riusciva a mostrare a tutti il proprio sprezzo. Era un coniglio tutto d’un pezzo, neanche l’età che avanzava l’aveva scalfito. C’era una colonia di Conigli Maculati da annientare e poche ore per portare a termine quella bell’impresa. Li vide che per tentare di sfuggirgli attraversavano il fiume su una porta metallica usata a mo’ di zattera. Si fermò un attimo. Gli era sembrato di riconoscere qualcuno. Non c’era tempo e, per fortuna, non aveva ricordi. Lanciò un dardo e la porta affondò per riaffiorare poco distante, privata dei suoi occupanti. Sospinti dalla corrente sarebbero annegati in pochi minuti. Ma non c’era tempo, un’altra strada da percorrere, uguale a tutte le altre, era proprio lì davanti a lui.

Anonimo


Guardo la porta a sinistra e penso che per ,me è troppo sontuosa.
Dall'altra parte ci sarà qualcosa di troppo, per me. Già c'è l'aspettativa, x esempio. Se poi entro e trovo qualcosa che non è all'altezza di quello che promette, rimarrei delusa.
O magari di là si aspettano troppo per quel che sono. Quindi no.

Quella a destra... troppo acciaio, troppo grigio, troppe viti.
Se la varco, mi aspetto corridoi asettici, scale con corrimano tristi e ferrei, scale infinite, tutte uguali, tutte ugualmente fredde che finiscono chissà dove.

In mezzo c'è la mia porta, in fondo.
Che avrà un corridoio basso e lungo, che sa di umidità e mistero, che mi porta ad avventure di sicuro più alla mia portata.
Magari mi porta a radure umide attraversate dai raggi dal sole che fanno fatica a districarsi tra il fogliame.
Però sento la cascata in lontananza, il profumo dei fiori selvatici, il rumore dell'acqua, gli uccellini che cantano.
Niente è stato costruito appositamente. Come me, del resto. Né un sontuoso salotto, dove potrei starmene tranquilla, nell'agio di chi una strada l'ha percorsa, o forse, all'ombra di qualcuno che l'ha percorsa e decisa per me, né una scala fredda e sempre uguale per piani e dimensioni, che alla fine potrebbe rassicurarmi. Terrebbe a bada la mia inquietudine.
E invece no.
Guarda, mi tolgo anche l'armatura. Che finalmente non solo mi pare di aver capito chi sono. Mi pare pure di aver capito come sono. Forse anche cosa voglio. Magari non esattamente quello. Ma ci sono vicina.
E a che mi serve un'armatura cigolante, una spada inutilmente pesante? Non devo combattere con nessuno. Che poi si sa, l'unica con cui dovevo combattere ero io.
Così lo faccio per davvero.
Abbandono maschere, o tentativi di averle. Abbandono aspettative che non mi sono mai appartenute; abbandono vestiti dentro ai quali non mi sono mai sentita a mio agio.
Libera e allineata, finalmente, alla parte migliore di me, varco la porta più bassa, la porta più piccola, la porta felice di essere così com'è.
E vado.

Nathalie Manca


"Mi siedo accanto al coniglio.
Fiatone, sudore, mantello, pelo e spada.
Corre verso la porta a sinistra, ma non prova ad aprirla.
Osserva quella al centro,
quella di destra.
Le annusa tutte e tre, senza toccarle. Credo sia una fiaba, l’armatura non cigola nemmeno.
Torna qui, dove sono seduto.
Le fissa una alla volta.
Non parla con me.
Non si cura di me.
Leggo in lui la premura di chi ha un’urgenza diversa dalla mia,
che non mi riconosce suo pari,
indegno di confronto.
Sembra un eroe antico,
di quelli che non hanno incertezze, o dubbi. Sta solo valutando quale sia la strada giusta, perché per lui c’è una strada giusta.
Mi chiedo se lo faccia con cognizione di causa, con istinto, o cos’altro. Se stia in fondo solo inseguendo qualcosa che gli è caro, e non ha tempo di pensare.
Certe volte la vita è così, deve averlo capito prima, e meglio di me.
Sono uscite, quelle? Entrate?
Io valuto ciò che vedo, da qui. Sono porte. Solo porte.
Cosa dovrei immaginarci, dietro?
Me che sposto la mia miseria da questa stanza a quell’altra? D’accordo.

A sinistra c’è un bazaar. Un bazaar immenso. E cavalli. E sole, tanto sole. Ed è pieno di gente che non conosco.
Al centro c’è un maniero. Sono sicuro che qualcuno mi sta aspettando, lì. Per questo non so se ci andrò. Perché l’aspettativa non sarebbe la mia, ma di qualcun altro. Ci troverei un unicorno, lì, ne sono sicuro.
Ma mi farebbe pena, probabilmente, o io ne farei a lui. Meglio non vedersi.
A destra c’è ferro, acciaio. Penso che si scenda solamente, che le scale portino giù, che ci sia odore di disinfettante e cloro. E che ogni volta che qualcosa non sembrava per me, alla fine lo era. Ma è roba che ti capita, non che scegli tu. Quando devi scegliere tu è diverso.

Il Bianconiglio che non fa rumore,
che non si cura di me,
e non ha bisogno dei miei consigli,
è sparito da un po’.
Fiatone, sudore, mantello e spada.
Tutto sparito, andato chissà dove.
Mi ha lasciato seduto qui,
spettatore di un mondo
senza serrature,
a chiedermi più che dove andrò io,
dove abbia scelto di andare lui. E a pensarci, di almeno una delle due domande
non so la risposta."

Deva Ashura


– Ecco, ci sono. – disse Lupin a se stesso, con le zampe che gli tremavano e i battiti del cuore accelerati, finalmente davanti a quelle porte che avrebbero dato un senso a tutta la sua storia.

Era un giovane coniglio Lupin, ma si era sempre contraddistinto per forza d’animo e pacatezza, lui il discendente del primo Lupin, quello che era fuggito dalla gabbia dove era nutrito abbondantemente, quello che non si rassegnava al fatto che avere un pasto sicuro ogni giorno fosse davvero vita.

Il vecchio Lupin lo sapeva, sotto il suo lucido pelo nero, che tutta quella storia non aveva mai una buona fine: troppi sparivano, non era possibile che ogni volta che un coniglio diventava abbastanza adulto e abbastanza pasciuto, se ne andasse così, nel nulla. Ma gli altri non lo stavano a sentire, loro avevano da bere, da mangiare, le loro conigliette sempre a disposizione per fare l’amore, tanti piccoli che nascevano ciclicamente e li rendevano orgogliosi: perché mai fuggire? Nessuno di loro si rendeva conto che mai alcuno del gruppo era diventato vecchio, anzi, nessuno di loro sapeva cosa fosse un vecchio coniglio.

A tutte queste cose pensava il giovane Lupin davanti a quelle porte e a quando finalmente il suo avo fuggì, sgusciando fuori dalla gabbia mentre la contadina metteva dentro il fieno: fece un balzo improvviso, prendendo la povera donna di sorpresa tanto che a quella uscì un grido strozzato e fece un balzo indietro come se avesse dentro una molla. Scappò veloce, nel prato verde mentre le urla e le mani della donna cercavano di acciuffarlo. Si nascose, in attesa di poter andare più lontano e anche quando vennero a cercarlo gli altri della famiglia di lei, non si mosse. Si salvò così il vecchio Lupin e vide e seppe che fine facevano gli altri conigli.

Per tanto tempo rimase in disparte pensando a quello che doveva fare e quella ponderazione e quell’intelligenza le avrebbe trasmesse al giovane che adesso stava davanti a quelle porte: e fu così che organizzò la rivoluzione. Fuggirono tutti i conigli e varcarono le tre porte, quelle che portavano alla Terra dei Fuggiaschi, tre porte che portavano in tre mondi diversi mentre tutti scappavano dallo stesso, fatto di una prigionìa che sembrava libertà.

Veniva dalla discendenza del vecchio e ora a lui, il più giovane dei Lupin, toccava tornare indietro. La profezia diceva che sarebbe toccato tornare a colui che aveva il pelo dal colore opposto, il Lupin nero aveva liberato la sua stirpe, il Lupin bianco doveva portare la pace e la concordia trai generi: quello umano e quello animale.

Niente più paura, niente più discordia, ora davanti a quelle porte sapeva benissimo quale era la prima cosa che doveva fare: e gettò via la spada. Nel mondo lì fuori, quello degli uomini, sarebbe arrivato in pace, alla ricerca non di vendetta, ma di unione. Perché se gli uomini erano stati crudeli, allora i conigli erano stati stupidi e rassegnati: nessun filo d’erba a riempire la pancia può mai valere come la libertà.

Letizia Battaglia


Pioveva a dirotto quando raggiungemmo il nostro posto preferito: un parcheggio a spina di pesce lungo corso Francia. Se si era abbastanza fortunati da trovare un buco, era la scelta ideale, si stava nascosti in bella vista in una zona sicura. "Eccoci qui" dissi guardandolo dallo specchietto retrovisore. Lui sbadigliò e si stropicciò gli occhi.

Spostatami anch’io sul sedile posteriore, gli slacciai le scarpe e lo aiutai a infilarsi il pigiama, quello in pile che gli avevo comprato per lo scorso natale. "Ormai ti sta corto" dissi con lo sguardo alle sue caviglie nude.

Poi venne il mio turno di prepararmi: mi tolsi gli stivali e mi rifugiai in un vecchio golfino. Quello marrone. Quello che pungeva. Paolo lo giudicò con il suo broncio bambino ma poi si arrampicò su di me, appoggiando senza esitazione la sua guancia paffuta alla mia spalla ossuta di lana infeltrita. Abbracciati così riuscivo ancora a sentire quell’odore d’infanzia, dolce e pulito, nonostante tutto.

Dietro, con lo schienale tirato giù, c'era posto per tutti e due, e anche per Gino. Il nostro cane di pezza.
Ci sdraiammo, avvolti tutti e tre nella coperta, stretti stretti tra due valige e alcune buste. Il lampione illuminava l'abitacolo ma i vetri bagnati ci regalavano l’illusione di uno spazio solo nostro.

"Hai freddo?" gli chiesi in una carezza.
"No" rispose con la sua piccola voce.
"Perfetto, allora dormi, notte tesoro mio"
"E la storia?"
"Ma non sei stanco?"
"No" biascicò col visino stretto tra Gino e me.
"Va bene" sorrisi nei suoi capelli sottili.
"Dove eravamo rimasti?"
"Carota…"
"Giusto, Cavalier Carota.
Il Cavalier Carota aveva superato il labirinto e, una volta attraversato il corridoio rischiarato solo da alcune fiaccole, era giunto in una stanza.
Lì, di fronte a sé, trovò tre porte".

La città attorno a noi si stava addormentando. E Paolo con lei. Solo io ero destinata a rimanere sveglia a lungo, come sempre, cercando la via d’uscita per Cavalier Carota e soprattutto per noi.

Jane Pancrazia Cole

      

Avevano la stessa forza, pari l'agilità e con le stesse armi, erano secoli che combattevano e sempre per lo stesso motivo, il vile denaro. Ormai dopo tanto combattere erano quasi scomparse; se penso a quanto erano grandi gli eserciti all'inizio e quanta fatica fecero per accumulare cosi tanti denari senza mai pensare veramente a se stessi, mi vien da piangere, ma sarebbero, ahimè, lacrime inutili.

E adesso che si scoprivano come due formiche, con due stuzzicadenti a mo’ di spada non ebbero più niente da fare se non continuare a lottare. Troppo l'oro e il benessere che si era accumulato sotto di loro, schiacciando tutto, troppi i più deboli schiacciati per lasciarli continuare a combattere e neanche il pensiero ormai formulava qualcosa di diverso dal voler battere l'altro. Anche la memoria si era consumata, tanto che nel momento in cui si fermò tutto, loro non capirono neanche il perché e invece di cercarlo, rincominciarono a lottare.

Si dice che alla fine non restò più nulla, anche perché nessuno poté raccontarlo e anzi io stesso qui, mi stupisco: ancora provo a scrivere parole? Qualcuno le leggerà, mi correggerà e mi aiuterà a capirle meglio? Forse si o forse no, ma non ho potuto fare altrimenti e in fondo è bello così ed è facile poi capire, ragionare se ci si sofferma anche solo un attimo a guardare.

Paolo Puleo


Padre e figlio della Famiglia Insetti
Capi del Regno furon eletti
da formichine sì laboriose
ché furon presto danarose.
Un giorno, preso da avidità,
il figlio perse di colpo lucidità
E vedendo il padre in cassa
Agitato, tuonò la grancassa

“Sudditi, presto, accorrete!
Un ladro attenta alle nostre monete!”
“Non mi riconosci? Incredibile!
Son tuo padre e pur contabile!

Sto contando i danari
Ordinandoli in filari
Torri alte più di un dito”
“Or ti sfido, cuor ardito”

“Lascia stare quel fioretto,
sono tuo padre, te l’ho detto”
Invece il figlio, noncurante
Si beò della folla urlante

E scalò la torre svelto
Certo d’esser il prescelto
L’altro allora: “Che sbruffone!
L’arma è pronta a dar lezione.

Marika De Sandoli



A come avventura
B come bravura
C come canaglia che con me verrà in questura
D come diamante
E come elefante

Cantavo sempre questa filastrocca ai mie figli per dormire. Mi fermavo ad ogni piccola strofetta e la intermezzavo con pezzettini di una storia appena “sfornata”.
È stata poi la volta dei mie nipotini quando me ne occupavo o quando venivano a dormire da me. Poi ancora è stata la volta dei miei piccolissimi bisnipotini.

F è il furfante che in galera porterò
G c’è tanta gente
H non c’è niente
I mmediatamente alla L passerò
L è l’animale

Tutti si divertivano tantissimo: da piccolini battevano le mani sorridenti ad ogni nuova storia, da più grandicelli non si fermavano mai i cori di “Ancora!” che mi forzavano – con mia somma gioia - ad immaginarne di sempre nuove.

M meno male
N è già Natale e tanti doni porterà
O come orco
P come Pinocchio
Q questo ranocchio che stasera mangerò

I miei figli, nipoti, bisnipotini, oramai cresciuti, non hanno più avuto bisogno delle mie storie. Negli ultimi anni in definitiva ho sofferto di tanta solitudine. Io però ho continuato a canticchiare a voce bassa la filastrocca seduta su una panchina del parchetto vicino casa, guardando le stelle e scrivendo su un mio quaderno la storia della serata.

R come Roma
S come strade
T tutte le strade che a Roma porteranno
U che bella storia
V vi ho raccontato

Sono troppo stanca e senza forze stanotte. Tanto che, mai successo, non riesco a completare la storia della serata. Ho come il presentimento che domani non riuscirò a tornare alla mia panchina. Sull’ultima pagina del quaderno ho scritto “da proseguire” - ”to be continued”. Il quaderno: lo lascio in eredità a Stella, la mia bisnipotina più vivace e fantasiosa. Chissà che la mia Stella non riesca anche ad immaginare il mondo senza di me. Ma sempre con me ed il mio quaderno vicini.

Z ho tanto sonno e ora vado a riposar
sotto le lenzuola tutte le parole fanno capriole
ed un’altra storia inventerò.

Marianna Palmerini


 

La Peppa

Nicola Lagioia e Marco Pautasso ieri hanno condotto l'ultima giornata del Salone. Un gran finale come un varietà, che ha visto musicisti, scrittori, giornalisti e attori alternarsi.

Quello di quest'anno è stato un "Salone virtuale," ha detto Lagioia, "che non si sostituisce a quello fisico ma che è stato in grado di raggiungere e appassionare anche chi al Salone, quello vero, non ci era mai stato, o per collocazione geografica o per problemi di salute o di lavoro".

Il Gran Finale è stato una carrellata infinita di personaggi della cultura e dell'arte. I torinesi direttamente sul palco sotto l'iconica torre di libri di François Confino – da anni simbolo della manifestazione – tra questi: Fabrizio Bosso, Levante, i Perturbazione e l'immancabile Baricco. I non indigeni, invece, collegati da casa loro, come Francesco Bianconi, Carlo Rovelli, Zerocalcare, Jasmine Trinca e Roberto Saviano.

Bravi eh, per carità, ma una spanna sopra tutti: Arturo Brachetti, che ha raccontato il Piccolo Principe attraverso l'arte del disegno con la sabbia. Sì, sa fare anche questo Brachetti.
Quanto ci fai sentire inadeguati, Artù!

Infine, Nicola Lagioia, prima di salutare e ringraziare tutti ha voluto suggerire a noi spettatori/lettori “Visto che per vedere tutto questo po' po' di roba non avete dovuto pagare il biglietto, andate a comprarvi un libro, per dare una mano a una filiera che è, al tempo stesso, preziosa e molto fragile”.
E ha ragione, non dimentichiamolo.

Il Salone del Libro si è concluso. Questa mia maratona sul blog, anche.
Viva il Salone del Libro! E viva me! 
Troppo?
Ok, viva il Salone del Libro e basta!

Vent'anni fa, Ilide Carmignani andò da Ernesto Ferrero – allora direttore del Salone – chiedendo uno spazio per i traduttori. L'idea piacque, si partì con una tavola rotonda che poi, negli anni, crebbe, diventando un'importante sezione del Salone stesso. Il nome della sezione? L'azzeccatissimo L'autore invisibile. 

"Il 20% dei libri stampati in Italia sono traduzioni" dice Nicola Lagioia – direttore attuale del Salone. "In realtà, se si eliminano scolastica e saggistica, la percentuale sale di parecchio", specifica la Carmignani. Numeri simili riguardano tutta l'editoria europea, notoriamente tra le più aperte, curiose e cosmopolite. Del resto, giratevi un attimo, alzate lo sguardo, eccola là, la vostra libreria, quanti libri di autori non italiani ci sono? Ecco, appunto. Quanto è importante ma sottovalutato il valore del traduttore?

Quest'anno per festeggiare l'anniversario de L'autore invisibile, a partecipare a questo Salone sui generis, è stata chiamata Anita Raja, traduttrice di numerose autrici di lingua tedesca, tra cui le più note sono sicuramente Christa Wolf e Frida Petzenbaum.

"Non sono una traduttrice professionista," ci tiene subito a precisare Anita Raja, "perché questa attività è sempre stata collaterale. Lo faccio da più di 30 anni ma, non essendo ciò che mi dà da vivere, ho sempre avuto il vantaggio di poter scegliere e di fare questa attività solo per piacere".

"La traduzione è il rapporto tar due lingue e due scritture. Un rapporto non paritario. Chi traduce subisce l’autorità e la fascinazione di un testo di partenza – se l’autore è un grande autore – e offre il proprio linguaggio con amore, con passione, con ammirazione."

"Piegarsi alle necessità del testo di partenza, forzare la propria più modesta capacità di linguaggio per essere all’altezza dell’originale. La traduzione è un'opera di riscrittura che ha la prerogativa dell’ospitalità e l’obbligo di reinventare ogni volta uno spazio linguistico adeguato ai bisogni del testo originale. Tradurre non è trascrivere ma riscrivere, non in modo libero ma comunque inventivo. Trovare, escogitare il modo migliore per ospitare l’originale."

"Il testo ci domina, ci tiene stretti nella sua rete già come lettori. Quando leggiamo un testo che amiamo è difficile capire dove finiamo noi, dove comincia il personaggio, dove ci pieghiamo alle intenzioni dell’autrice/autore, dove inseriamo le nostre intenzioni. Tradurre significa accettare quella disparità, che quella parola è più potente della nostra, vedere con chiarezza la rete del testo, farsene lucidamente intrappolare. Dal riconoscimento della disparità muove la domanda che dovrebbe assillare chiunque traduca: quanto sarò capace di trasportare nella mia lingua della sua parola?"

"Alle opere di grande valore letterario ogni veste in un’altra lingua va stretta. Ogni lettura, ogni traduzione porta i segni della parzialità storica. Il testo di arrivo non è mai definitivo e sempre perfettibile. Il testo originale sprigionerà in futuro significati che ora non vediamo o che appanneranno ciò che ci è sembrato di vedere. Forse dobbiamo concludere che la ricchezza, la plurivocità del testo originale non si riproduce in una sola traduzione ma in un insieme di traduzioni, quelle precedenti e quelle che seguiranno, ed è bene, è bello che sia così", conclude Anita Raja in un intervento appassionato e ricco.

Nota a margine dovuta. Vi state chiedendo chi sia Anita Raja? Il nome vi suona molto famigliare? Se siete appassionati di letteratura, gossip e misteri l'avrete già riconosciuta, altrimenti ve lo dico io. Anita Raja è la sospettata numero 1. Uno dei nomi più tirati in ballo in quanto possibile vera identità di Elena Ferrante. Sarà davvero lei? Ovviamente io non è ho la più pallida idea e, onestamente, poco m'interessa. Ma, in quanto ad amore per le parole e capacità di racconto, direi che questo suo intervento testimonia un innegabile talento. Che l'abbia usato vestendo panni diversi e raccontando amiche geniali? Bah, non lo sapremo mai o forse sì.

La letteratura per l'infanzia è patrimonio dell'umanità. Pur cambiata ed edulcorata negli ultimi anni (perché altrimenti i bambini s'impressionano) rimane una forma d'arte, comunicazione e racconto d'incredibile potenza. Da piccolina mi sono nutrita di favole a colazione, pranzo e cena. Quelle classiche ma anche e, soprattutto, quelle meno conosciute da noi, provenienti dai quattro angoli del globo. Qualcuna tra queste non passerebbe la "censura" attuale forse, censura dei genitori mica degli editori, ma i miei, ringraziando il cielo, sono di un'altra generazione e non hanno mai temuto che fossi troppo impressionabile.

I bambini e i loro libri hanno sempre avuto una grande importanza e un grande spazio all'interno del Salone ed è per questo che ieri, dovendo scegliere un evento da seguire, non ho avuto dubbio alcuno: Abbracci di parole e figure. Una chiacchierata tra Eros Miari – esperto di libri per ragazzi e promozione della lettura – e Bernard Friot, intervallata dagli interventi di Huck Scarry e Chen Jiang Hong.

"Ai bambini sono mancati gli abbracci degli amici" inizia Miari. "Per questo motivo abbiamo invitato persone che abbracciano i bambini con le loro storie e con le loro illustrazioni".

L'autore francese Berbard Friot, se non ci fosse stata l'emergenza, in questi giorni sarebbe stato al Lingotto a leggere le poesie di Gianni Rodari. E, così, in diretta da Bordeaux recita

“Ho visto una formica
 in un giorno freddo e triste
donare alla cicala
metà delle sue provviste.
Tutto cambia:
le nuvole, le favole, le persone …
La formica si fa generosa …
È una rivoluzione.”

Parole del poeta romano che ben si sposano con la speranza di questi giorni, in cui la gente si abbraccia senza potersi abbracciare.

Tra gli ultimi libri di Friot pubblicati in Italia ci sono Storie di calzini e di altri oggetti chiacchieroni, edito da Il Castoro; Un anno di poesia, edito da Lapis; e Il fiore del signor Moggi edito da Fatatrac. L'ultimo, tra l'altro, è il primo libro che l'autore ha scritto direttamente in italiano. "Hai meno parole a disposizione quando scrivi in una lingua non tua" spiega Friot. "Quindi devi trovare il modo di dire il più possibile con meno. Una situazione che conosce anche il bambino. Una limitazione che aiuta a concentrare la narrazione".

Il primo ospite dell'evento è Huck Scarry, illustratore statunitense, unico figlio del famosissimo Richard McClure Scarry. E proprio in onore di cotanto padre, Huck regala al Salone 10 minuti di pura delizia con un tutorial per i bambini, in modo che imparino a costruire a casa, con pochi oggetti, un proprio Zigo-Zago personale. Impossibile non amare lui, il padre e il vermetto con il cappello da tirolese!

Infine, la scena la ruba l'affascinante autore cinese Chen Jiang Hong in diretta da Parigi, che parla direttamente ai bambini, mandandogli saluti, affetto, chiedendo loro di proteggersi e sopravvivere. Poi, dopo aver mostrato le sue splendide illustrazioni, legge un brano tratto dal suo libro Il Principe Tigre, edito da Babalibri. Una storia cupa e bellissima, che parla di dolore, vendetta e morte. Ma dopo il buio ci sarà sicuramente la luce. Una storia come quelle che leggevo io, insomma. E, infatti, alla fine ho gli occhi lucidi davanti allo schermo, e una gran voglia di comprarmi una copia del libro, e chi se ne frega se l'età consigliata è 5 anni!

Sono stati tutti splendidi interventi, artisti dalla capacità infinita e il cuore grande. Tutti distanti sono stati capaci, con gli adulti ma soprattutto con i bambini che seguivano in diretta, di creare un momento di unione e collettività. Anche questa volta mi tocca dire: grazie Salone!


Da torinese appassionata di lettura ho un rapporto antico e stretto con il Salone Internazionale del Libro. Al Salone ho consumato scarpe e prosciugato conti, al Salone ho fatto incontri e ascoltato voci. 

Quest'anno, per ovvie ragioni, il Salone non ci sarà, o meglio, non ci sarà nella sua forma classica. Il Lingotto viene sostituito dalla rete e le lunghe camminate tra i corridoi – colmi al tempo stesso di libri e aria viziata –  da video in diretta. Una magra consolazione ma anche un'opportunità. Io, tra l'altro, un Salone così l'ho già vissuto quando, qualche anno fa, una tendenite bastarda e recidivante (chi mi conosce se ne ricorda bene!) mi costrinse a casa, legata alla scrivania, ad abbeverarmi assetata alla fonte di qualsiasi materiale video messo a disposizione online all'epoca. Un'esperienza, per la cronaca, molto più piacevole, ricca e istruttiva di quanto avessi mai potuto preventivare. Ciò detto e ciò sperimentato, questo Salto Extra 2020 – questa la denominazione ufficiale – non mi spaventa affatto, anzi le mie aspettative sono alte e spero solo che non vengano deluse.

L'evento è stato aperto ieri dalla lectio magistralis dello storico Alessandro Barbero. Il Professore, da solo, al centro di un Museo del Cinema, evocativo come sempre e più di sempre, ha raccontato l'umanità attraverso le catastrofi, la capacità insita nell'uomo di risorgere dalle crisi e "di dare forma di opportunità alle conseguenze inaspettate che nei secoli si sono presentate".

"Durante il secondo secolo dopo Cristo, l'Impero Romano viene colpito dalla cosiddetta peste Antonina," spiega Barbero, "che peste non era ma, più probabilmente, una pandemia di morbillo o vaiolo". Dato l'elevato numero dei decessi, l'Impero stesso, per la prima volta, si rende conto dell’"importanza del capitale umano", non della vita umana in quanto tale – un concetto decisamente successivo – ma dell'utilità degli uomini in quanto preziosa manodopera. "Per ovviare al calo demografico vengono aperte le frontiere, si fanno entrare gli immigrati, i barbari desiderosi di integrarsi, ospitati in vere e proprie strutture di accoglienza. E, da quel momento, ciò diventa uno dei punti di forza dell’Impero".

"Risale al 1348, invece, la grande epidemia di peste in Europa, quella che racconta anche Boccaccio nel Decameron". Un'epidemia che colpisce una società ricca ma complessa e che, con un tasso di mortalità altissimo, falcidia la popolazione. "Nel 1361 la peste torna e poi ogni 10 e 15 anni, generazioni e generazioni vivono con la consapevolezza che entro pochi anni ci sarà un’epidemia". Ed è in quel periodo che s’inventano gli stessi meccanismi che stiamo utilizzando noi. Ogni caso di peste viene segnalato. Si chiudono le città, non si fanno attraccare le navi, i malati vengono chiusi in casa. Questi provvedimenti non guariscono dalla malattia, ovviamente, ma servono a limitarne la diffusione e a renderla meno devastante ogni volta che si ripresenta.
Per quanto riguarda le conseguenze inaspettate, la drastica diminuzione demografica rende i lavoratori una merce preziosa e i salari, per la prima volta, salgono. La povera gente ha finalmente qualche soldo in tasca e così "prosperano le città dove si è capito che bisogna produrre panni a buon mercato, perché c’è una moltitudine di persone semplici pronta a spendere".

Ma non sono solo le epidemie a stravolgere la società, ci pensano anche le guerre. Terribile fu il secondo conflitto mondiale e la perdita di vite umane che si portò dietro. Ma l'Italia seppe rinascere inaspettatamente dopo il doppio giogo di regime e guerra. A tal proposito, Gaetano Salvemini, esule dal 1925, dal delitto Matteotti. Dopo aver insegnato ad Harvard, una volta andato in pensione, torna in Italia nel 1949.  Esterrefatto e felice vede gli italiani al lavoro, "un formicaio più rapido a costruire di quanto siano stati gli altri a distruggere". Un paese destinato a riprendersi con una rapidità che nessuno avrebbe mai sospettato. Pronto per un futuro di benessere e progresso.

È questa, lo dice Barbero e lo dico pure io, la stessa speranza che tutti abbiamo in cuore per l'Italia e per il mondo di oggi, una volta che l'emergenza lascerà il posto a un nuovo inizio.

Il Salone Internazionale del Libro è tornato, signori e signore, e come sempre ha qualcosa da insegnarci.


Conoscete il gioco "Dixit"? No, è un bel gioco da tavolo. Il mio preferito. Ma non sono qui per parlarvi di Dixit e no, questo non è un post sponsorizzato. Magari!

La caratteristica principale di questo gioco sono le sue carte con le splendide illustrazioni di Marie Cardouat. Immagini evocative e ricche di particolari. Io ne ho scelte tre (il coniglio di fronte a tre porte, le formiche che combattono, l'uomo sulla panchina) e voi tra queste dovrete sceglierne una. Quest'ultima sarà l'illustrazione del vostro testo. Didascalica o metaforica, a voi deciderlo.

Avete quindi poco meno di due settimane per scrivere un testo – racconto, poesia, dialogo, ciò che più vi piace – che abbia come illustrazione una di queste tre. Lasciatevi andare alla fantasia, fingete che un'artista come la Cardouat abbia accettato di dare un'immagine alle vostre parole. Perché non sognare un po' per una volta?

Avete tempo fino al 17 maggio per spedirmi i vostri lavori che verranno pubblicati sul blog il 18. E qualche giorno dopo, come sempre, manderò un breve feedback ad ognuno di voi, con i lati positivi e quelli "un po' meno positivi" dei vostri testi.

Credo di avervi detto tutto ma, come sempre, per domande dubbi e perplessità contattatemi sul blog o sui social. Vi sarà risposto.

Tipo di testo: qualsiasi (racconto, poesia, flusso di coscienza, etc…).
Lunghezza testo: dai 100 ai 3600 caratteri, spazi inclusi.
Email: janecole@live.it.
Oggetto: laboratorio collettivo di scrittura.
Specificare nel testo dell’email se volete restare anonimi o meno, se volete essere taggati (su FB) o meno.
Scadenza per far pervenire il testo: domenica 17 maggio 2020, ore 12.

Volete leggere tutti Racconti nati da queste splendide illustrazioni? Li trovate qui.

Un discreto numero di partecipanti ed io, nelle due settimane precedenti, ci siamo dati da fare per raccontarvi la famiglia Larsen Lopez. Qualche personaggio è rimasto fuori ma molti hanno trovato un volto, un carattere, un contesto e, soprattutto una storia.


Partendo dalla capostipite Lola fino all'"acquisito" John Stuart, eccovi l'originale famigliola.

Per leggere i racconti in una bella cornice con tanto di foto, andate su ISSUU a questo indirizzo https://issuu.com/OttavoEsercizio.

Se invece vi piacciono le cose più spartane, leggete di seguito.


LOLA LARSEN 

Lola era seduta accanto alla finestra del soggiorno con uno dei suoi libri preferiti nelle mani, l’Amleto che aveva letto la prima volta a 30 anni, quando da poco aveva imparato a leggere; accanto ai piedi, appoggiata scompostamente sul pavimento, c’era una lettera aperta.

Aveva preso quel libro perché sperava riuscisse ad allontanare la mente da casa e a riportarla ad un periodo della sua vita che ricordava come essere dei migliori, ma non aveva funzionato. Ad un certo punto si era trovata infatti con lo sguardo perso fuori dalla finestra mentre ripensava a tutta la sua vita e al susseguirsi degli eventi.

Lola era nata il 1 gennaio del 1916, ad Oslo, ma una serie di vicissitudini famigliari l’avevano portata a vivere in Spagna dove aveva conosciuto Pedro.
I suoi ricordi migliori iniziavano in quel periodo anche se la loro non era stata una storia fatta di comodità e agio.

Lei e il suo compagno di una vita, infatti, erano andati via di casa in una notte d'inverno: aveva appena sedici anni e aspettava un bambino e il terrore della reazione dei genitori aveva spinto lei e Pedro a partire.
Pedro era più grande di lei, era un buon lavoratore e dirigendosi verso l'Italia avevano pensato che non avrebbero avuto molte difficoltà a sistemarsi.
In effetti fu così, Pedro trovò impiego presso un piccolo carpentiere e Laola poté occuparsi della figlia senza doversi preoccupare di lavorare. Non appena la figlia crebbe però, Lola iniziò a sentire il bisogno di cambiare e di fare qualcosa che le permettesse di avere la propria indipendenza, così cercò un piccolo impiego presso un ristorante dove fece la cameriera e decise che avrebbe frequentato le scuole dell’obbligo nonostante i suoi 30 anni. Scoprì di avere un talento particolare per le lingue e bruciando le tappe completò le scuole dell’obbligo, si laureò in lingue e inizio a tradurre piccoli testi per case editrici indipendenti. La sua seconda vita iniziò allora, e non fu priva di gioie e dolori, le soddisfazioni professionali si intrecciarono alla sofferenza per la morte di Pedro e della figlia, il primo in un banale incidente sul lavoro, la seconda, anni dopo durante una vacanza con amici: annegò trascinata via da una corrente improvvisa, mentre faceva il bagno in un punto poco sicuro del Po.
Nonostante tutto Lola continuò a vivere: leggere, tradurre testi in spagnolo, norvegese e inglese. Iniziò anche a viaggiare guardando il mondo col suo sguardo curioso e alla fine, quando l’età non le permise di viaggiare fisicamente, iniziò a scrivere romanzi d’avventura.
Nel tempo era riuscita a mantenere contatti solo parziali col resto della sua famiglia, sentiva periodicamente i nipoti, forse i soli che erano riusciti a comprendere davvero la sua scelta di non fermarsi mai.
Ma come fosse lo scherzo di un Destino beffardo, il quale aveva deciso che lei sarebbe dovuta essere l’ultima della sua famiglia a sopravvivere, uno dopo l’altro vide morire tutti i suo parenti: quelli prossimi e quelli meno.

Aveva compiuto da poco 104 anni, era tornata a vivere in Norvegia, laddove era nata, e sembrava la vita non la volesse lasciare, quando ricevette la lettera che le comunicava la morte dell’ultimo dei suoi nipoti: accolse la notizia quasi con rassegnazione, prese l’Amleto dallo scaffale , sperando riuscisse a riportarla a quando la sua vita scorreva via avvolta dagli impegni e dagli abbracci di Pedro e Costantia, ma infine si perdette dentro tutta la sua lunga vita e dentro tutti gli eventi che la avevano toccata, dalle due guerre, alle difficoltà economiche alla felicità, fino all’attuale pandemia, piombata sulla sua vita e su quella del mondo intero all’improvviso: alla fine stava pensando, “a me è andata bene, sono stata una donna fortunata”!

Annalisa Melas


PEDRO LOPEZ

Ogni mattina alla stessa ora l’uomo usciva per una passeggiata, e poi si fermava a sedere su una panchina del parco Tivoli, sempre la stessa, per godersi il tiepido sole di Copenaghen. E ogni mattina alla stessa ora vedeva passare quel giovane, la massa di capelli scuri trattenuta a stento dal berretto dell’uniforme, che camminava faticosamente aiutandosi con le stampelle, la gamba destra dei pantaloni ripiegata sotto il ginocchio, dove il polpaccio non c’era più. Quella mattina il giovane soldato si sedette sulla panchina accanto, e l’uomo vide una lacrima che gli scendeva lungo la guancia. Provò ad avvicinarsi, e poi a sedersi, e con la cautela imparata dall’esperienza, con parole calme e lente gli chiese cosa non andasse.

Perdonatemi signore, sono un soldato e non sono avvezzo a mostrare le mie lacrime. Ma oggi signore, oggi sento una tristezza come non l’ho sentita neanche quando ho perso la gamba. Sono stato ferito per difendere il mio re, signore, durante gli scontri nello Schleswig-Holstein. Il mio nome è Pedro, Pedro Lopez, ma sono danese come voi signore. Mio nonno arrivò con l’ambasciatore spagnolo alla corte del re, ma si innamorò di mia nonna e rimase. Mia nonna era di Odense, la conoscete, signore? Sposò mia nonna, e rimase al servizio del re. E anche mio padre ha servito il re, è stato in guerra con lui contro l’imperatore dei Francesi. E anch’io appena ho potuto sono entrato nel regio esercito per servire il mio re, e l’ho servito, e ho perso una gamba per lui. Ma in quel momento signore la sicurezza del re e della Danimarca erano più importanti della mia gamba, e io l’ho sacrificata volentieri. E anche il chirurgo che me l’ha tagliata è rimasto impressionato dal mio coraggio, e anche i miei compagni. Il re mi ha premiato con una medaglia, e con una pensione, per cui, signore, posso vivere una vita tranquilla. Ma la mia vita è finita signore, perché lei non mi ama più. Non me l’ha detto signore, ma io l’ho capito. Lo vedo da come mi guarda che non mi vuole più, lo vedo quando guarda la mia gamba, e io capisco che le fa orrore. Io la capisco la mia Lola, signore, quando sono partito per lo Schleswig-Holstein era così fiera di me, e il suo sorriso così caldo quando mi guardava. Volevamo sposarci, signore, e lei era così felice «sposerò un eroe!» diceva la mia Lola. Poi sono tornato, e non ero più l’eroe dei suoi sogni. Lei è una ballerina signore, forse la conoscete, Lola Larsen si chiama. Danza nella compagnia del balletto reale, è una ragazza colta, ama la danza e ama leggere, quanti libri legge, sapeste! Ma nei suoi libri non ci sono soldati senza una gamba.

Il giovane si alzò faticosamente.
Perdonatemi signore se vi ho annoiato, siete stato molto paziente ad ascoltarmi, vi ringrazio.

L’uomo tornò a casa, si sedette al suo tavolo e si mise a scrivere.

La mattina dopo, col frutto del suo lavoro in una borsa di cuoio saltò la passeggiata quotidiana, e andò a sedersi direttamente sulla sua panchina al Tivoli. Passò del tempo, tanto tempo, ma finalmente il giovane soldato arrivò, arrancando con le sue stampelle; lo vide e lo salutò con un sorriso.

Buongiorno signore, vi ringrazio per la pazienza che avete avuto con me ieri, posso offrirvi una birra?  

Si sedettero e ordinarono, poi l’uomo tirò fuori il suo lavoro dalla borsa e lo posò sul tavolo fra di loro, spingendolo verso il soldato.

Prendi Pedro, l’ho scritto per te, e per Lola. Ora esiste un libro con un soldato senza una gamba.

Un po’ incerto il soldato prese il dono e lo aprì. Sul primo foglio era scritto:
Il Soldatino di stagno
Di Hans Christian Andersen

Maria Paola Pennetta


MARIO CACCIALUPI

Oxford, 20 aprile 1956

Carissima madre, come state?

Spero che questa lettera vi raggiunga in buona salute.
Qui la vita all’Exeter prosegue come sempre. La primavera finalmente è giunta e con essa, ahimè, il momento di mettersi a studiare con buona lena per gli esami di metà corso. Non preoccupatevi, però. Ho inserito “ahimè” perché la natura, in questa stagione, è così invitante e lussuriosa che, di certo, non invoglia a rimanere chiusi in biblioteca chini sui libri. Voglio rassicurare voi e il caro padre riguardo alla regolarità degli studi e alla soddisfazione dei professor per i miei voti. Devo però confessarvi che sono sempre più convinto che l’economia e la finanza non saranno mai miei amici. C’è una novità: ieri mattina è arrivato un nuovo compagno di stanza, simpatico come solo gli italiani possono esserlo. Si chiama Roberto, ha 17 anni e la sua famiglia possiede diverse industrie siderurgiche nel nord Europa. Tra noi è nata, in breve tempo, un’amicizia molto stretta, sebbene riconosca in lui aspetti caratteriali alquanto eccentrici. È una persona interessante, aperta al mondo in un modo così nuovo per me che mi pare del tutto originale. Uno spirito che io sento affine, nonostante sia molto lontano dal mio carattere. Mi parla con nostalgia del suo Paese ed è rimasto molto stupito del fatto che, nonostante il mio nome, io non sia propriamente italiano. Ho quindi raccontato la storia di come voi, con enorme generosità, avete accolto me, figlio di un boscaiolo, nella vostra stirpe. So, madre, che la vostra tempra nordica vi potrebbe far irrigidire di fronte a siffatta confidenza. Vi assicuro che Roberto è un amico fidato e, non solo non racconterebbe ad alcuno le mie origini ma, dopo la confessione, ha espresso tutta la sua ammirazione per la mia storia definendola “un romanzo d’appendice”.
È mia intenzione inviare una missiva anche al caro padre sperando che le mie notizie giungano presto fino alla sua dimora. Voglio dirgli che mi piacerebbe raggiungerlo sull’isola di Margarita e trascorrere le vacanze estive lì. L’aria di mare, il sole, le splendide spiagge e l’atmosfera di libertà e avventura mi faranno bene dopo il duro anno accademico. Sono sicuro che ne sarà contento, anche se, quasi certamente, i suoi affari lo porteranno ancora in mezzo all’Oceano. Se voi lo consentite, vorrei invitare in Sud America anche Roberto, sono sicuro che si innamorerà anche lui di quei paradisi.
Perdonatemi, madre, se scrivo questa missiva in italiano ma tanta è la presa che costui ha avuto sul mio spirito che appena lo conobbi iniziai a parlare, scrivere, pensare e persino sognare nella sua lingua.
In attesa di nuove, prego il buon Dio per voi e per il caro padre e vi abbraccio.
A presto,
vostro figlio Mario.


Kongens Lyngby, 8 giugno 1956

Madre,

vi scrivo questa lettera dal mio scrittoio, quello dove fanciullo, voi mi insegnavate a disegnare i fiori del vostro bel giardino.
Io non riesco a esprimere quello che provo se non con le parole scritte.
So che mi considererete un figlio ingrato e forse avrete ragione. Ma quello che è accaduto mi addolora in maniera sì profonda che non credo dimenticherò per tutto il corso della mia vita.
Ora che non sono più alla Oxford University, pensate che forse il mio animo sia cambiato? Che non abbia più sete di conoscenza del mondo, che non sia più bisognoso di crescere e di fare esperienze di vita con le anime affini che il destino mi ha posto di fronte?
Pensate che lo splendore e l’energia del sole diminuiscano, solo perché esso scalda con una diversa inclinazione?
Prima di salire sull’auto che voi avete mandato per prelevarmi nell’alloggio nel cuore della notte, come fossi colpevole di qualche reato, io e Roberto ci siamo scambiati una promessa. No, non ve la rivelerò, madre, così come non racconterò più nulla della mia vita intima, dei miei desideri, dei miei progetti per i prossimi anni. Ho scritto a mio padre e sono certo che lui, se non l’ha ancora fatto, saprà aprirvi gli occhi di fronte al fatto scellerato che avete commesso. Mi permetto di usare queste parole perché strappare ad una vita illuminata e ricca di stimoli, di conoscenze, di nuove sensibilità, di affetti puri, vostro figlio, che nella sua condotta mai aveva mostrato un atteggiamento irrispettoso o irresponsabile, questo, madre è un atto scellerato.
La mia decisione è presa. Non avrete più mie notizie. Sparirò da voi così come dalla vita di mio padre, sebbene senta la sua vicinanza morale come un grande conforto.

Addio, madre, che Dio abbia pietà di voi.

Mario.

Marika De Sandoli


CONSTANTIA LOPEZ

Nata a Buenos Aires l'8 gennaio del 1930, Costantia Lopez era l'unica figlia di Lola e Pedro. La donna più bella e il notaio più stimato della città argentina.

Miracolo venuto al mondo quando sua madre aveva già 45 anni e si era rassegnata ad una culla vuota da almeno 10. Figlia unica e tardiva. Constantia crebbe libera ma coccolata dall'affetto incondizionato dei suoi genitori. Chiara come la madre ma appassionata come il padre, attraversò l'infanzia in uno sfarfallio di giornate di sole, corse a perdifiato e pastelli di cera con cui colorava muri, tappeti e raramente anche fogli bianchi e disegni dentro i margini.
A scuola non brillava per la condotta ma la mente sveglia le permetteva voti eccellenti e le gambe lunghe di eredità materna ottimi risultati negli sport, in particolare salto in alto e corsa campestre.

Per il suo tredicesimo compleanno, i genitori, che fino a quel momento le avevano regalato tutto il mondo e anche di più, le fecero dono di una macchina fotografica, una Leica. Lei la prese tra le mani con reverenza, come un tesoro e, da quel momento, prese a guardare il mondo attraverso l'obiettivo. In breve tempo, lo studio del padre, il salotto e persino la toeletta materna furono tappezzati delle immagini in bianco e nero frutto dell'occhio vigile e curioso di Costantia. Il gatto dei vicini, la bicicletta del postino, i sorrisi delle cugine, gli sguardi corrucciati degli sconosciuti, le compagne che saltavano la corda, un cane che rincorreva un pallone, nulla sfuggiva a Costantia e a quello che, con gli anni, si rivelò essere un innegabile talento.

A 20 anni partì per l'Europa, voleva vedere il mondo e voleva che le sue fotografie fossero viste dal mondo. Dopo essere stata prima a Madrid e poi a Parigi, andò infine in visita alla famiglia materna, due zii della madre che abitavano nei dintorni di Oslo. Agnes, una cugina, la invitò a vedere una gara di sci. Costantia si portò dietro la macchina fotografica. “È una gara importante?" chiese mentre scattava foto ai visi tirati degli atleti. "Sì, sono i mondiali di fondo". Un signore con un grande cappello rosso e due piccoli occhi azzurri si avvicinò alle ragazze parlando loro in norvegese. "Cosa vuole?" chiese Costantia ad Agnes. “È un editore, il suo fotografo non si è presentato. Vorrebbe acquistare le tue foto". 
L'indomani il quotidiano locale pubblicò diverse foto di Costantia. Una, la più grande, ritraeva il vincitore. Mario Caccialupi, diceva la didascalia.
Fu l'inizio di una carriera e non solo.

Jane Pancrazia Cole


CONSUELO CACCIALUPI

Era una ragazza come tante, almeno vista da fuori, ma Consuelo aveva dentro tutta l’impetuosa esuberanza che la nonna Lola le aveva trasmesso. Era il DNA tipico dei latinoamericani, gentili, calmi, ma con dentro un vulcano sempre attivo a muovere cuore, pancia e cervello. Così aveva vissuto il suo ’68, studentessa modello di un liceo cittadino, che di fronte ai tumulti ed alle istanze femministe si era trovata in prima linea con il pugno chiuso a gridare “l’utero è mio e me lo gestisco io”. Cosa tra, l’atro, che non era stata per niente digerita dai familiari: i Caccialupi infatti discendevano da una nobile famiglia molto legata al Vaticano e nella Roma della fine degli anni sessanta, avevano sicuramente una posizione di prestigio da salvaguardare. Quella figlia così rispettosa, così delicata, aveva finito per rompere i ponti come qualsiasi acqua cheta che si rispetti, riuscendo a mettere in difficoltà soprattutto suo padre, che oltre a motivi prettamente economici era anche molto condizionato da una religiosità beghina ed integralista. Ma niente, il cuore le batteva per le cause femministe, la pancia la lanciava indomita verso nuove contestazioni e, soprattutto, il cervello le diceva che tutto questo era profondamente giusto. Gli occhi neri, i capelli ancora più neri, la pelle lievemente olivastra, girava vestita come i ragazzi della sua età, con quei pantaloni a zampa di elefante, i top corti che lasciavano scoperto l’ombelico e soprattutto, rigorosamente senza reggiseno. Niente costrizioni per quella generazione di donne, né morali né religiose: Consuelo andava a testa alta contro tutti i dogmi imposti dalla società e tanto più, dalla chiesa. Provarono con le buone a convincerla che non si poteva discutere sull’autorità dei comandamenti religiosi, provarono con le minacce, non facendola uscire per giorni e scortandola a scuola con la scusa che non era maggiorenne: i ventun anni non erano ancora arrivati per lei che ormai li agognava come simbolo unico di indipendenza e libertà. La vita le avrebbe insegnato sulla propria pelle, che le cose non sono sempre o bianco o nero, o giusto o sbagliato, ma spesso il risultato di equilibri precari e ragionati, di convenienze e necessità. Sua madre era l’unica che la capiva, anche se mai l’assecondava, silenziosamente sapeva che era giunto per tutte le donne il momento di far valere i propri valori e non quelli che padri e mariti avevano deciso per loro fino a quel momento. Ma era una donna umile Constantia e da quando aveva fatto quel matrimonio così prestigioso, si era sempre adeguata alle volontà del marito, sacrificando sé stessa e le sue priorità a quelle della famiglia. Forse, se non fosse stata così, la figlia non avrebbe sentito pressante la necessità di esprimere le proprie opinioni. Ma era nonna Lola il suo modello: lei, arrivata giovanissima in Italia proprio nel periodo della guerra, era stata una staffetta partigiana e con i suoi racconti aveva contribuito certamente a mettere quel seme di ribellione dentro al cuore della sua nipote preferita. Conobbe proprio in quelle circostanze nonno Larsen, un bel soldato americano dagli occhi di ghiaccio e dai capelli color rame. Raccontava del suo amore, della libertà, del rischio e Consuelo ascoltava rapita: e la storia del quadro era la più avvincente, quella che prima o poi avrebbe portato a fine. Nonna Lola portava i messaggi ai partigiani in un modo molto particolare infatti: qualcuno ai vertici del governo, ma non allineato con il pensiero e la dittatura, lasciava indicazioni sui movimenti degli squadristi in modo che i partigiani potessero sapere ed attaccare evitando che gli scellerati portassero a termine le loro scorribande. Era la partigiana Argentina nonna Lola, inforcava la sua bicicletta e correva veloce a portare i messaggi che trovava dietro al quadro in quella cattedrale del centro di Roma, dove un magro cappellano sedeva spesso in preghiera con i raggi del sole che entravano dalla vetrata: non la vedeva mai, o almeno così lei pensava. Consuelo non avrebbe mai dimenticato i suoi racconti ma non immaginava, con la testa appoggiata alle sue ginocchia e la vecchia mano che le accarezzava i lunghi capelli neri, quanto questi l’avrebbero fatta diventare quella che era e che un giorno, quel quadro sarebbe diventato un regalo del destino.

Ma questa, è un’altra storia.

Letizia Battaglia


ANTONIO CACCIALUPI 

Il giorno in cui nacque il primo figlio maschio della famiglia Caccialupi erano state chiamate addirittura due levatrici. Il medico era stato avvertito e si era messo in viaggio dalla città. Ma non sarebbe servito. Nessuno ricordava che un simile lieto evento fosse accaduto meno di due anni prima in quella casa, quando era venuta alla luce la piccola Consuelo. Ora però c’era nell’aria quella trepidazione propria delle cose tanto attese. Erano da poco passate le due di un tiepido pomeriggio del 21 aprile 1872 quando il pianto del piccolo Antonio aveva annunciato l’arrivo. Finalmente un maschio. Appena giunta la notizia, di lì a poche ore dalla nascita, il nonno Pedro che nella sua vita aveva toccato anche le Americhe si era deciso a mettersi in viaggio con la migliore carrozza della regione per giungere in quella casa in cui non metteva piede da anni e vedere il piccolo. Una magra consolazione visto che il figlio maschio tanto agognato la sua povera Lola non era riuscita a darglielo. Il curato del paese, venuto per la prima benedizione del piccolo Antonio, aveva disposto che le campane sarebbero suonate a festa di lì a qualche ora per dare il lieto annuncio a tutti i lavoratori sparsi nei possedimenti dei Caccialupi e così nei prossimi giorni, per ricordare la nascita.

Mario Caccialupi ringraziava Dio di averlo reso padre di un figlio maschio. Ora le sue terre ed i suoi possedimenti potevano prosperare senza il rischio di venire smembrati. Quello scricciolo d’uomo era la sua speranza e alla sua formazione si sarebbe dedicato sin da subito. Antonio non aveva ancora compiuti 3 anni che aveva già cambiato 4 balie, alla ricerca della migliore nutrice. Nel frattempo era venuto al mondo in quella casa anche il piccolo Mario, senza troppo clamore. Lui e Consuelo sarebbero stati sempre la sorella maggiore ed il fratello minore di Antonio. Quel fratello che sedeva su un gradino più altro del loro e che conoscevano a mala pena. Per lui, le ore più numerose con i precettori, i musici e i cavalieri. Per lui solo doveri. Per lui l’arte della caccia e la spada. Sopra ogni cosa avrebbe dovuto imparare a combattere e a difendersi per schivare le insidie e le guerre che minacciavano l’Europa e difendere le ricchezze della propria famiglia. Questa era e sarebbe stata la sua vita. Non vi erano altre strade da percorrere. Dalla collina dove ergeva la torre del castello si vedevano solo i campi della famiglia. Il mondo per lui era tutto lì. E così sarebbe stato fino al compimento del suo ventesimo anno.

Dopo poche settimane, gli era stato annunciato che il 1 giugno del 1892 sarebbe stato celebrato il suo matrimonio. Nel rigido mondo che aveva conosciuto fino ad ora doveva esserci dell’altro.

Dopo mesi di trattative con i ricchi proprietari dei terreni confinanti, suo padre aveva deciso che avrebbe sposato una contessa. La piccola Marina aveva appena compiuto 16 anni ed era l’ultima discendente di un nobile casato del sepolto Granducato di Toscana. La sua famiglia di origine asburgica aveva retto le sorti del granducato fino alla falcidia dell’unificazione d’Italia. Marina era arrivata su una carrozza ornata d’oro e lustrini, con due cameriere, una dama, un precettore ed il vecchio zio.

Le nozze furono celebrate all’alba. Antonio non era riuscito a scorgere il viso di Marina per gran parte della cerimonia. Le luci delle candele ed i veli che le coprivano il volto avevano dato a quell’incontro una magia inaspettata. Non si sarebbero parlati per tutto il giorno. Si sarebbero ritrovati esausti nella stanza più alta della torre dopo una giornata di banchetti e balli. La gioia dell’evento si era tradotta con una giornata di festa pagata due volte per tutti i braccianti che lavoravano nei campi di proprietà della famiglia Caccialupi. Nel poderi erano risuonati canti di ringraziamento per l’inaspettata generosità.

Erano frastornati, impauriti e stanchi. Antonio sapeva bene quello che ci si aspettava da lui. Suo padre avrebbe voluto morire sapendo di avere un discendente. Per questo erano state anticipate le nozze.
Marina, minuta e bianchissima, piangeva in silenzio, appoggiata di spalle alla finestra socchiusa. Le si avvicinò, la guardò per la prima volta e vide che la luna disegnava sulla guancia destra della sua sposa una forma solida e luminosa. La prese per le spalle e la volto verso la finestra. Le lezioni di astronomia ora sembravano avere un senso. Iniziò a parlare della luna e dei pianeti. Marina smise di piangere. Conosceva a memoria le pagine degli Elementi di Astronomia ma era come se le ascoltasse per la prima volta. Anche Antonio si rese conto che non erano semplici nozioni. Le si aprì il cuore e svanirono le paure. Entrambi sapevano che si sarebbero amati, era solo questione di tempo.

Anonimo


MARINA MARINI

Donna di grande cuore, Marina Marini i suoi splendidi cinquant’anni li porta davvero egregiamente. Dotata di un’inconfondibile chioma bianca come la neve, a volte ingestibile, è un avvocato di grande fama per la sua totale onestà unita ad un’ottima parlantina.

Vive a Torino, dove è nata e cresciuta, sposata con Antonio Caccialupi, noto finanziere del capoluogo torinese, un figlio, Paolo Ferrante, avuto in giovane età prima di incontrare l'attuale marito.
Nota nel mondo forense per le sue battaglie a favore dei minori, Marina Marini è molto stimata nel suo ambiente, dote riservata solitamente a pochi eletti.

Collabora con prestigiosi studi notarili a Torino, Alessandria e Cuneo.

Nel tempo libero adora rifugiarsi nella sua immensa ed attrezzatissima cucina, la sua seconda passione.

"Il giorno in cui non riuscirò più a sostenere la frenetica attività forense, potrò dedicarmi definitivamente al mondo culinario", ha affermato in un'intervista recentemente.

Laureata in Giurisprudenza presso l'Università di Torino con 110 e lode, una Laurea Magistrale in Psicologia criminologica e forense ottenuta nello stesso Ateneo con il massimo dei voti, numerosi articoli scritti per diverse riviste del settore.

Serena Favalli


MARIO JUNIOR

È stata una giornataccia a lavoro, quindi mi sono buttato in un pub sulla via del ritorno dalla trasferta. Avevo bisogno del primo pub e della prima birra disponibile.
Al bancone, adesso, fisso la birra ed il tipo che mi ha servito – l’unico presente nel locale - e che non ha quasi nemmeno alzato la testa. Provo ad attaccargli bottone indicandogli una foto appesa al muro alle sue spalle.
“Che bella famigliola”.
Improvvisamente mi considera, mi scruta come solo chi è a contatto con il pubblico ogni giorno può fare, riuscendo a capire in un attimo chi gli è toccato stavolta.
“Sono Marina e Mario Junior, gli ideatori dello spazio in cui ti trovi, con il loro bambino appena nato.”
Mi viene il dubbio che forse il posto dove mi trovo non sia solo un pub. Mi guardo meglio attorno e vedo un palco per suonare, frecce con su scritto “Spazio Teatro”, “Spazio di Comunità”, “Spazio di Supporto”.
“Adesso ti spiego, sembri stranito. Mario Junior è un nome un po’ del cazzo. Tra l’altro, suo padre si chiamava nello stesso modo, Mario, chi avrebbe chiamato suo figlio col suo stesso nome?” – e fa il primo sorriso della serata. Sorrido divertito anche io.
“Mario Junior è nato Maria” – continua – “Dicono fosse la più bella ragazza della città..”. Una voce dalla cucina lo interrompe improvvisamente ed urla “Paooooloooo, non la romanzare troppo anche stavolta!”
“Scusa un attimo, eh” - mi dice – “Joohnn, farò come mi pare, non mi interrompere!!!”
“Dicevo: era la ragazza più bella della città. Figlia di Costantia Lopez, donna leggendaria. Anche la nonna, Lola Larsen, metà svedese, metà spagnola ed un poco zingara, di nazionalità e di fatto, aveva compiuto grandi imprese. Non mi dilungo, le loro sono altre storie, ma si erano distinte nella scienza e nell’impegno sociale.
Maria nasce quindi in una famiglia matriarcale, come quelle degli etruschi, o dei minoici, in cui una componente principale è la cultura ed in cui le donne sono determinate, colte e belle.
O anche come la famiglia reale degli UK, in cui le persone che contano sono le donne: Elisabetta, Kate, Meghan. E poi c’è la povera Camilla. Ecco Maria aveva due fratelli: una sorella maggiore, che assomigliava a Camilla, ed un fratello maggiore, che assomigliava a Camilla.
Anche fisiognomicamente Maria era identica in tutto e per tutto a Lola e a Costantia: era lei, dunque, che, tacitamente, doveva continuare a portare avanti la leggenda della famiglia. Peccato che Maria, fin da piccolina, si fosse accorta di essere diversa. E se ne fossero accorti anche tutti gli altri membri della famiglia.”
Paolo si ferma un attimo compiaciuto dalla mia reazione: pendo dalle sue labbra.
“Il momento più difficile fu il suo diciassettesimo compleanno, quando sua madre iniziò a strattonarla, insultandola - “Non sei un uomo, lo vuoi capire? Smettila con questa farsa!” – e via dicendo, come nemmeno i peggiori bulli della scuola erano riusciti a fare.
Spesso nemmeno essere una donna leggendaria in molti campi permette di affrontare lucidamente le relazioni con i figli, così vicini emotivamente e così stipati con aspettiative spesso disattese.
Meno male che esistono le nonne. Nonna Lola sentenziò: “Lasciala vivere la propria vita, Costantia. Se lei si sente uomo, non puoi forzarla ad essere donna. Non potrà mai stare bene, se non è - consentimi la parola - concorde con sè stessa. Non vuoi che sia felice?”
Un urlo dalla cucina: “Queeestaaaa invece è la versione romanzata da Mario Junior!”
Paolo sbuffa e continua: “Da lì, è iniziata la trasformazione di Maria ed il suo impegno per i diritti dei transgender e di tutta la comunità LGBT.
In tutto questo marasma, Maria si innamora di Marina, moglie di suo fratello: da sempre amiche, da sempre consapevoli dell’attrazione reciproca. Marina era ricorsa alla fecondazione assistita, ma aveva voluto sapere chi era il donatore. Suo figlio/a aveva il diritto di sapere tutto, di conoscere il suo vero padre e di conoscere tutta la storia, il dolore ad essa sotteso, per poter avere anche consapevolezza di sè stesso. Senza le tipiche menzogne di comodo per protezione dei genitori.
Possibile?
Suo figlio ha preso anche il cognome del vero padre, Ferrante. Paolo Ferrante. Che sarei io!
E questo centro internazionale lo ha costruito Mario Junior, con passione, forza e dedizione. Come solo una vera Larsen/Lopez poteva fare.”

E se è romanzata, non so se è una leggenda o una favola.

Marianna Palmerini


JOHN STUART

Mi chiamo John Stuart. Non è un nome particolarmente affascinante, direi piuttosto il contrario. Ma nel mio lavoro l’anonimato era essenziale, saper scivolare tra la gente senza che nessuno ricordi il tuo volto, la fisionomia. Un’ombra tra le ombre. Facevo parte del dipartimento di intelligence di un’agenzia governativa di controspionaggio inglese.

Quando si sente la parola “controspionaggio” ci si immagina subito un uomo con licenza di uccidere, che guida un’auto sportiva, attorniato da bellissime ragazze, ma non è così. Il mio lavoro è fatto di analisi, ricerche sul campo, verifica ed incrocio di dati finanziari di personaggi dalla reputazione poco chiara. Però ho svolto questo mestiere tanti anni fino alla pensione vivendo parecchie situazioni pericolose ed interessanti, almeno per i patiti di Fleming.

Sono nato il 14 Ottobre 1950 in un paesino ad un centinaio di chilometri da Londra. I miei genitori mi amavano come una benedizione dal cielo perché, dopo aver provato ad avere un figlio per anni, arrivai io. Crebbi circondato da amore, ma anche da regole rigide che mi diedero un carattere forte, con una morale altrettanto forte. Per me la carriera militare era l’unica via da percorrere.

Cominciai dal basso, ma già dall’addestramento nell’esercito capii ero destinato a fare carriera: ero forte, agile, sveglio e intelligente. Non lo dico io, è tutto riportato nel mio fascicolo di allora che il mio primo sergente istruttore mi volle regalare quando completai l’addestramento. Ogni tanto sfoglio ancora quel fascicolo, e con un sorriso ricordo il momento in cui me lo consegnò: “John, tu sei un diamante in mezzo a tanto carbone. Fai in modo che la tua luce splenda”.

La mia luce cominciò a splendere quando fui coinvolto in un’operazione di rastrellamento nelle campagne irlandesi, alla ricerca di un nascondiglio dell’IRA dove si riteneva che fosse nascosto un capo brigata insieme ad un ostaggio, il nipote di un ministro inglese. Le forze speciali della SAS insistevano per procedere verso sud, ma il mio istinto mi diceva che la direzione era l’opposta. Il capo brigata aveva trascorso otto anni nella SAS, sapeva come ragionavano. Contro ogni logica, presi tre uomini ben addestrati e mi diressi a nord. Li trovammo poco dopo, neutralizzammo le guardie e liberammo l’ostaggio.

Da lì al dipartimento di antiterrorismo della SAS il passo fu davvero breve e non ci volle molto perché il dipartimento di controspionaggio governativo mi notasse e mi proponesse un ingaggio. La giostra era partita: mi ritrovai a girare il mondo a caccia di terroristi, criminali internazionali e contrabbandieri d’armi. Vorrei sorvolare sui dettagli, perché molte di quelle operazioni sono ancora coperte dal segreto di stato.

Una sera giravo da solo per il centro di un paese in provincia di Modena, in Italia. Era arrivata una soffiata su un deposito d’armi di una cellula terroristica italiana ed il governo ci aveva chiesto un supporto di intelligence. Arrivato in un vicolo buio e stretto, sentii la fredda lama di un coltello appoggiata alla gola e una voce che mi diceva di dargli il portafoglio. Il mio addestramento militare ebbe il sopravvento e pochi secondi dopo avevo il suo coltello in mano. Il giovane, spaventato e disarmato, mi guardò negli occhi poi svenne. Lo portai nell’appartamento che avevo affittato e lo misi a dormire sul mio divano. Furono giorni interessanti, nei quali cercavo di ottenere la fiducia da quel giovane mostrandomi intenzionato ad aiutarlo. Poco a poco si instaurò un legame e appresi della vita difficile e tormentata di Paolo, questo è il suo nome. La mia missione era intanto terminata, le armi erano state trovate e distrutte, e mi accingevo a tornare a casa. L’ultima sera Paolo mi si avvicinò e senza dire nulla mi diede un bacio. Per me le donne non rappresentavano un vero interesse, e da quel bacio capii il perché. Rimasi altri due mesi in Italia, il tempo di sbrigare le pratiche, ed insieme volammo in Inghilterra. Paolo è un brillante artista, pieno di fantasia e creatività. Il giorno dopo la pensione ci siamo sposati in un magnifico giardino. I miei commilitoni non hanno ancora capito bene cosa sia successo, ma vedo la gioia nei loro occhi e tanto basta.

Dopo una vita dedicata alla violenza, all’inganno ed ai sotterfugi, posso finalmente godere una vecchiaia di serenità, fiducia e amore.

Beppe Carta
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