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Per questo esercizio vi regalo quattro protagonisti o, meglio, un protagonista da scegliere tra quattro (uno tra le 4 foto).

La faccenda è semplice: scegliete una tra le quattro proposte e trasformate uno dei soggetti nel protagonista del vostro racconto. NO, non DOVETE inserire nel racconto tutti e quattro i personaggi. Ne basta uno. 

Se avete domande dubbi o perplessità palesatevi nei commenti, via email, o tramite chat, io sono qua pronta a rispondervi.

Come sempre, vi ricordo che al laboratorio possono prendere parte tutti, non è necessario aver partecipato ai primi esercizi e, se parteciperete a questo, non siete poi obbligati a continuare. Ci mancherebbe, sarebbe sequestro di persona!

Buona lavoro a tutti!

Tipo di testo: qualsiasi (racconto, poesia, dialogo, monologo, flusso di coscienza, etc…). 
Lunghezza testo: dai 100 ai 5000 caratteri, spazi inclusi.
Email: janecole@live.it.
Oggetto: Laboratorio collettivo di scrittura. 
Specificare nel testo dell’email se volete restare anonimi o meno, se volete essere taggati (su FB) o meno.
Scadenza per far pervenire il testo: domenica 8 marzo 2020, ore 12.

Volete leggere i Racconti nati da questo esercizio? Li trovate qui.

Sarò anche di parte ma devo dire che, in un periodo travagliato come questo dove lo stare a casa è fortemente consigliato, il laboratorio condiviso di scrittura è un'ottima occupazione, scarica la tensione e sposta l'attenzione altrove.

E, per scaricare la tensione, cosa c'è di meglio che mettere nero su bianco un bel litigio? Questo è ciò che abbiamo fatto per il terzo esercizio. Ci sono state discussioni soprannaturali, familiari, alcune divertenti altre decisamente più drammatiche.

Se volete sfogliarle come una rivista le trovate al seguente link.

Se invece vi va benissimo anche la semplice pagina del blog, trovate tutti i racconti a seguire.

Buona lettura e a domani per il prossimo esercizio!

Paolo e Maria hanno litigato. Spettatrice involontaria, mi trovavo placidamente a leggere sulla mia panchina preferita nel tepore primaverile, quando la mia quiete fu turbata da un “ora, davvero, basta!”. Non urlato, badate bene, ma detto con quella determinazione e assertività che inevitabilmente ti fa rivolgere lo sguardo verso ciò che non ti riguarda. Misi a fuoco una ragazza: cappotto blu, lungo, assumeva un atteggiamento di quelli che sembravano non essere troppo distanti dalla propria natura, piuttosto sembrava essere stato portato all’estremo. Cercava di controllarsi, si scorgevano le sopracciglia aggrottate insieme a quella ruga di preoccupazione di chi non sa dove il suo istinto, se non canalizzato, l’avrebbe potuta portare.
Lei si chiama Maria, l’ho intuito quando lui l’ha nominata per farla tranquillizzare.
Vi dirò, lui era più interessante da osservare in quanto ambivalente negli atteggiamenti: aveva uno sguardo freddo, zigomi alti, occhi chiari, ma di quelli imperscrutabili che ti lasciano sulla soglia, non trapelava un’emozione eppure, a giudicare dall’atteggiamento di lei, era lui a dover essere in torto e a dover ristabilire un legame…non riusciva ad accostarsi a lei anche se le parole che pronunciava, recavano tranquillità…ostentava fermezza, ma aveva paura della sua reazione? Oppure, sì dai pensiamola male, forse effettivamente era un bugiardo, magari era un attore di teatro, dunque per lui un gioco da ragazzi recitare! E magari lei aveva scoperto un tradimento, una relazione… da quanto tempo staranno insieme? Occhio e croce da un po’ non è fresca la cosa… forse lui, ma anche lei, perseverava nell’errore? Ah mio caro Paolo, attoruncolo da 4 soldi, potrai biecamente ingannare lei che prova qualcosa per te, ma non la sottoscritta…. ti ho scoperto! il tuo corpo non mente… guarda, guarda come in fondo ti avvicini con le parole, ma non fisicamente… e quello sguardo?! si avrai anche gli occhi celesti, ma i tuoi sono vuoti e senza emozioni… che dobbiamo fare eh? Glielo dico io che stai recintando, prove alla mano, o ti decidi… alt fermi tutti… è una lacrima quella????!!! Sta piangendo??? Ah… beh…. e lei ora che fa? Ecco, ecco che si è rilassato quel viso che prima era contrito…. scende una lacrima anche a lei… ora anche lui effettivamente sembra rassegnarsi… il corpo indifeso… allora forse era rispetto e timore del rifiuto quello che dimostravi e, non il mantenere una distanza…f orse non sei un attore…
Quanto dicono di noi le emozioni, le parole che utilizziamo, rispetto al linguaggio del nostro corpo?
Da sempre mi incuriosiscono gli atteggiamenti umani, mi piace notare, osservare e studiare, analizzando così tanta eterogeneità; quanto si capisce guardandosi intorno, captando spunti di riflessione da riportare anche su se stessi, nella propria esistenza…
Vedete, il mio, nelle vite degli altri, è sostanzialmente un interesse di tipo clinico–scientifico misto a curiosità socio–antropologica. È per questo che, alla fine dei conti, il perché della litigata neanche ve lo saprei dire, non li ho ascoltati. Li ho guardati.
Daria de Turris
– Dico, oramai sei qui da dieci anni, un tempo ragionevole per maturare un’opinione su un argomento così controverso, quindi che mi dici? – chiedeva lui tutto sicuro di sé.
– Cosa vuoi che ti dica? Nulla che tu non sappia. Ho cercato di capirci qualcosa molte volte e di continuo ma non posso negare che la tua opinione, la tua posizione mi hanno messa sempre in soggezione – rispondeva lei con voce sommessa.
– Come in soggezione? – l'incredulità si manifestava nel suo viso arrossito.
– Sì perché ogni volta che cercavo di vedere la situazione da una prospettiva diversa mi dicevi che non era quella giusta. –
– Ma dai non è vero! – Lui rideva e lei lo guardava torvo.
– Sì che è vero, ti ricordi quella volta che mi sono messa a testa in giù perché non riuscivo a percepire la giusta prospettiva…l’ho fatto per sfidarti. –
– Sfidarmi? Hahaha eri proprio buffa. –
– Volevo che tu vedessi quanto fosse ridicolo dire sempre "Mah non è il punto di vista giusto". Alla fine mi sono rotta le palle e ti ho lasciato pensare come volevi. –
– Beh ma tu non hai cercato di controbattere –…le sue certezze iniziavano a vacillare.
– Davvero? – ahahah questa volta rideva lei
– Si davvero! – Alla risposta di lui lei rideva ancora di più. Lui era sempre più a disagio e impettito le disse tutto in un fiato: – Allora dimmelo ora, sono passati 10 anni, cosa pensi del sesso degli angeli? – – Che se fossero pirla come te sarebbero estinti! – Rispose lei asciugando i lacrimoni.
– Certo che tu non sei per niente simpatica!–
– Perché tu sei la comprensione fatta diavoletto? –
Cercando di recuperare la situazione, messo all'angolo con la coda tra le gambe lui... – Dai dai tu mi scaldi sempre il cuore…non te la prendere. So che volevi essere un angelo… ma vedi loro non hanno sesso e noi sì! –
– Ahhh meno male…perché qual è la differenza? –
– Come qual è la differenza? – nuvole di vapore circondavano il viso incandescenti di lui.
– Tra il non sesso degli angeli e te? – lei rideva senza riuscire a contenersi.
– Sei una perfida coda appuntita – – E tu un freddo tridente smussato. Cornetti mosci – – Rossa sbiadita –
– Alloraaaaaa la smettete? – dall’alto alto alto alto due vocine celestiali urlarono.
– Cosa succedeeeeeeeeeeeeeeeeee??? – risuonò dal profondo profondo inferno.
– Smettetela di litigare che qua su si fa sesso. –
– Ecco lo vedi…non ci sono gli angeli di una volta – sbuffò lui rassegnato.
E così c’erano nuvole infuocate e un gelido inferno.
La storia non finisce qui perché Cornetta e Cornuto rimasero a pensare al loro non più infuocato futuro, mentre Angioletta e Angiolino con gli amici facevano un trenino…peppepeppepe.
Deray

Quindi siamo a San Valentino e che, non me lo vuoi fare un regalo a San Valentino?
Bene, vattene. Te ne devi andare, la devi smettere di tormentarmi in queste notti infinite.
Caro Paolo, sì, perché per mei sei caro, lo sei stato e lo sarai sempre, accettalo, fattene una ragione; il tempo che passa non basta ad archiviare il cuore e i sentimenti.
Quindi la devi smettere, perché tutto questo fa un male indescrivibile: o torni veramente o resti dove sei e non ti fai più vedere, non così almeno. Non è possibile che una persona vada a dormire dopo lunghe giornate di fatica, di responsabilità, di preoccupazioni e l’unica cosa che riceve in cambio è un sogno che dilania l’anima. Ogni volta. Ogni stramaledettissima volta, da dieci anni a questa parte, tu arrivi, finalmente torni e cosa fai? Non mi parli, non mi abbracci, sei incazzato con me ed io ancora non capisco perché.
Come quella volta, ti ricordi in quel sogno, quando tu arrivasti bello bello dicendo che a casa non ci volevi più tornare, che ti eri trovato ben due e dico DUE donne diverse e volevi solo loro! Ti tirai anche un o schiaffo quella volta Paolo, io che non ho mai alzato le mani nemmeno su una zanzara. Era il dolore, non ero io: il dolore mi ha fatto questo, essere quella che non sono.
E ogni volta, io felice, ti guardo e ti dico finalmente sei tornato, ti domando dove sei stato, mi domando se finalmente sei guarito, se sei stato veramente malato, aspetto di sentire il cuore che batte, il tuo cuore che batte di nuovo con il mio: e tu mi ignori, non mi spieghi, non mi parli, mi lasci in un dolore che non ha spiegazione.
Una volta ho portato anche lei con me e tu hai avuto il coraggio di dirmi che era una mossa scorretta: non si usano i figli. Non si usano i figli. Una pugnalata, sai. E io che avrei solo voluto che ci prendessi entrambe e ci stringessi forte.
Sono troppi anni che va avanti così, non so se ti scrivo più per rabbia o per dolore, adesso. Vorrei solo sapere che stai bene, che tutto quello che ho fatto, anche se è stato inutile, tu lo serbassi nel cuore, come faccio io con ogni immagine, ogni ricordo.
Non mi hai mai fatto regali, figuriamoci a San Valentino, hai sempre odiato le feste imposte ed ero io che regalavo qualcosa a te: l’ultima volta il David Bowie Platinum Collection.
Eravamo eroi in quei giorni, “We can be heroes, for ever and ever, what d'you say?” Che ne dici, Paolo?
La tua (non proprio) Maria
Letizia Battaglia 

arrivammo sul più bello.
noi, i nipoti amatissimi e numerosi come gatti.
loro, i nonni e bisnonni al tempo stesso, di uomini fatti e di bambini appena nati.
nonno paolo e nonna maria.
mai un litigio. o per lo meno abilissimi nel nasconderlo.
che poi anche loro avranno avuto trent'anni una volta, anche se non ce l'hanno mai raccontato.
magari anche loro avranno fatto volare piatti, sbatacchiare pensili, lanciato scarpe, moccoli o madonne.
ma non davanti a noi.
davanti a noi i nonni erano sacri come la madonna e san giuseppe, come gli dei dell'olimpo, perfetti, canuti e saggi.
e invece erano lì, in cagnesco, ostinati, ingrugniti, arrabbiati.

"no, mai e poi mai. te lo puoi scordare."
"va bene, vai dove ti pare, io non potrei andare in nessun altro posto."
"io invece sì, vuoi vedere? sono di Gragnolo, a Frosina non ci vengo."
"ma siamo tutti lì, da sempre."
"sarete tutti lì. senza di me."

li guardavamo senza capire. senza seguire il senso di una rabbia che non capivamo, che non sapevamo infilare nella scatola giusta.
poi piano piano iniziammo a capire.

"a Frosina è in discesa. ed è girato verso monte. io non ci voglio venire."

a Frosina,in effetti, tutto era in discesa. i paesi, qui da noi, si arrampicano a sentire l'aria che soffia dal mare, di là dal monte, che arriva dalle piccole valli collinari.
ma un'unica cosa era in effetti girata verso monte.
il cimitero.
ecco di cosa parlavano.
ecco il problema.
la tomba.
la pietra, con la foto, con la scritta, con il vaso per i fiori.
da comprare per tempo, per non lasciare a chi rimane anche un pensiero indesiderato in un momento già triste di suo.
comprare il posto per riposare in saecula saeculorum, mano nella mano, come nella vita, gabbando quel fin che morte non vi separi che li aveva portati fin lì, ai figli, ai nipoti, ai bisnipoti. querce di bosco circondati da cespugli e alberelli, capifamiglia senza mai un dubbio, senza mai un cedimento.

"che succede?"
chiese il più grande di noi.

"succede che il tu'nonno è una testa di legno. io, a Frosina, in discesa e senza vedere il panorama non ci vado. pitta m'ingolli."
"Pitta m'ingolli" era la frase definitiva.
in dialetto vuol dire una cosa del tipo "potessi sprofondare", essendo la "pitta" un pozzo, un buco profondo nel terreno.
mio nonno comprese che non aveva scampo. avrebbe dovuto lasciare tutti i parenti, la madre, il padre, le zie e gli zii, i cugini.
tutti i Di Chiara morti da un pezzo, che lassù, a Frosina, in discesa, lo aspettavano da generazioni.
perché lei, la donna che amava, voleva essere seppellita dove si vede il panorama. e dove le bare non stiano in discesa.

"oh che ti devo di'? siam istati insiem' tutta la vita, 'un ti lascio sola a Gragnolo, verò anch' io..."

nonno Paolo si arrese. nonna Maria buttò la minestra nel brodo, soddisfatta. aveva vinto lei.
ancora una volta.
letteredalucca

Non credo di aver capito…
E’ per il mio progetto di scrittura. Questa settimana l’input è di scrivere una litigata.
Questo l’ho capito, ma non ho capito cosa c’entro io.
Aiutami! Litighiamo e così trascrivo la litigata.
Spero che non ti diano mai l’input di scrivere un racconto dal punto di vista di un omicida… se questo è il tuo modo di trovare l’ispirazione, sono fottuto.
No, tranquillo. Il racconto sul serial killer l’ho già scritto e tu sei ancora vivo.
Scusa?
Sì, l’ho scritto due settimane fa e non ti sei accorto di niente. Guarda che dovresti far qualcosa per i tuoi riflessi… non hai idea di quante volte ti sono arrivata alle spalle senza che te ne accorgessi.
Cosa hai fatto? Cioè, mi sei arrivata alle spalle per far cosa?
Ma niente! Volevo provare la sensazione di chi si avvicina ad una preda ignara. Sai, nell’arte le emozioni devono essere vere, scrivi ciò che vivi.
Ma che stai dicendo? Preda ignara? Maria, sono tuo marito, non sono una preda ignara! No, ma io non ci posso credere… vuoi un’emozione vera per la tua arte? Vaffanculo! Eccoti una bella emozione sincera, scrivici il nuovo Guerra e Pace! Ma ti sei ammattita?
Paolo, guarda che stai esagerando. Non avrei mai usato il coltello, te lo giuro! Per chi mi prendi
Cooosa? Mi sei venuta alle spalle con un coltello? Maria, ti prego, dimmi che è uno scherzo, un brutto scherzo che adesso finisce!
Paolo, la tua reazione è spropositata! Ti ho chiesto uno spunto per la litigata ma stai degenerando! Dovevo immaginarlo, sempre così melodrammatico… me lo sentivo che non avrei dovuto coinvolgerti direttamente ma questa volta ho voluto credere che finalmente mi avresti dato il tuo supporto attivamente! Scusa se ho voluto darti fiducia!
Io sto degenerando? Mia moglie mi arriva alle spalle con un coltello manco fosse una ninja e quello che degenera sono io? Aspetta un attimo. Cosa intendi con “questa volta”? Ci sono state altre volte? Maria… partecipi a questo progetto da gennaio, hai già scritto due racconti. La litigata è il terzo, il secondo era l’omicidio…. Maria? Il primo racconto… COSA HAI SCRITTO NEL PRIMO RACCONTO?
La Peppa Bennet

M : Stammi lontano, sei stato via per 3 giorni, dico 3 giorni e adesso ti ripresenti e vuoi stare abbracciato? Era già successo e ti avevo perdonato ma ora basta, non sono una mezza calzetta io!!!
P : Maria, amore mio, non so cosa sia successo, ti giuro. Non volevo, mi sono trovato in quella situazione e ci sono dovuto rimanere. Non avrei mai voluto veramente... Credimi, sei la mia anima gemella, tu mi completi.
M : Sei il solito ruffiano e bugiardo, ti hanno visto tutti, non vi siete nascosti per nulla, con quella puttanella rossa... non è la prima volta che va con altri. Stupida io che sto qui ad aspettarti, se avessi voluto avrei trovato anche io qualcuno; pensi sia difficile, ti avvicini, anche se si è diversi e poi si viene presi dalla sorte e si sta un pò insieme. Vuoi questo tipo di relazione tra di noi? Dimmelo ma non era questo che mi aspettavo dalla vita.
P : Ma no, un errore non può pregiudicare, 5 anni di amore...
M : Due errori.
P : Si due errori ma è colpa di Federico, lo sai è talmente sbadato.
M : Certo è sempre colpa di Federico.
P : Maria noi siamo insieme dalla nascita, sono stati anni bellissimi, non buttiamo tutto così. Ricordi il nostro viaggio a Vienna? Quanto ci ha fatto camminare... e quando siamo stati in Messico? che caldo, puzzavamo da far schifo..
M : Paolo mi sono data a te con ogni fibra del mio essere, ho sofferto e non voglio più soffrire. Pensavo di perderti per sempre, come l'anno scorso, quel taglio sul tallone... Grazie a dio la madre di Federico riuscì a salvarti con 8 punti. Non puoi fare più questa vita.
P : Maria non succederà più te lo prometto, restiamo un pò in disparte io e te, isoliamoci un pò e vedrai che non succederà più.
M : Va bene amore mio.

Proprio in quel momento Federico aprì il cassetto e prese Paolo e Jasmine (la puttanella rossa), Paolo cerco di divincolarsi stretto nella mano di Federico ma nulla, l'ultima cosa che vide prima che il cassetto si chiudesse fu il volto paonazzo di Maria. Questa volta non mi avrebbe più perdonato.

Federico stava per uscire di casa in ritardo come al solito quando sua madre nel salutarlo gli disse : "Scemotto hai di nuovo i calzini spaiati".
Roberto Tavella

Il ragazzino correva a perdifiato nella via che tagliava in due il piccolo paesello abbarbicato in cima alla montagna.
“Paolo e Maria hanno litigato!” continuava ad urlare a squarciagola mentre i duecento abitanti del paese si affacciavano alla finestra e si voltavano a vedere Ninetto che correva verso la chiesa.
Ninetto era un ragazzino di dodici anni, che era stato colpito in pieno volto dal calcio di un mulo quando ne aveva sei. Era finito in coma – il sonno degli angeli, come dicevano in paese – ed al suo risveglio il suo cervello si era fermato al momento dell'incidente, rendendolo di fatto un bambino per sempre, con il volto un po' sghembo ed asimmetrico.
Quella mattina Ninetto si trovava a passare di fianco alla casa di Paolo e Maria, quella deliziosa casetta in fondo al paese dalle cui finestre si vedevano tutti i campi a valle, e sentendo dei rumori strani si era avvicinato a sbirciare dalla finestra. Quello che aveva visto lo aveva spaventato e così era corso in paese a dare la notizia: Paolo e Maria hanno litigato. Anzi, lo stanno ancora facendo!
I due protagonisti di questo fattaccio si conoscono fin da bambini piccoli, lui figlio di agricoltori, lei figlia della maestra e dell'unico meccanico della zona.
Quando Paolo aveva quattordici anni era diventato orfano a causa di un incidente ed era stato affidato alle amorevoli cure della zia Rosa, e Maria aveva cominciato a frequentare Paolo un po' per dargli conforto, un po' per un sentimento che ancora non sapeva spiegare, ma che presto comprese essere amore. Da quel momento non si sono mai più lasciati.
Paolo e Maria sono considerati la coppia perfetta: sempre insieme allegri e sorridenti, sempre pronti ad aiutare gli altri col sorriso sul volto.
Per questo tutti rimasero sbalorditi nel sentire che la coppia perfetta aveva litigato. Le comari anziane del paese, non senza invidia, sorridevano soddisfatte, mentre gli altri reagivano con un misto di stupore ed incredulità.
Il parroco non ci voleva credere. Li aveva sposati lui dieci anni prima ed erano sempre stati di ispirazione per la comunità, anche se non erano mai riusciti ad avere figli nonostante le preghiere ed addirittura un pellegrinaggio a Lourdes.
Dopo qualche giorno di pettegolezzi e di sguardi interrogativi alla coppia, che quando arrivava in paese si comportava come se niente fosse, gli abitanti non sapevano più cosa pensare.
Il parroco decise di fare qualcosa e si diresse una bella mattina di sole a casa della coppia.
“allora, mi volete spiegare cosa succede?” chiese il parroco senza troppi preamboli mentre sorseggiava il caffé che solo Maria riusciva a fare così buono.
“che cosa intende?” risposero all'unisono le voci della coppia.
“si dice in paese che qualche giorno fa abbiate litigato, più precisamente quattro giorni fa, verso sera”.
Paolo e Maria si guardarono e subito dopo esplosero in una risata: “quattro giorni fa verso sera, e magari l'ha detto Ninetto, vero?”
Il parroco cominciava ad intuire la verità: “qualcosa mi dice che non stavate litigando”
“Don, lei sa che stiamo provando ad avere un figlio da qualche anno. Ebbene ci stavamo provando anche la sera di quattro giorni fa”, disse Paolo mentre cercava di non ridere di nuovo. Il parroco si fece una bella risata insieme alla coppia, si fece promettere di “litigare” con le finestre chiuse, specialmente quelle che danno sulla strada, e la Domenica si prodigò in una ispirata predica sul potere maligno del pettegolezzo e sulla forza dell'amore. Ed in privato spiegò a Ninetto qualcosa sull'amore e che spiare il prossimo non è mai bello.
Beppe Carta
Decise di salire in camera a riposare. Era stanca. Non riusciva a capire cosa fosse. Era difficile essere lei, troppe domande, troppe possibilità, troppa irrazionalità.
Il telefono vibrò. Guardò il display, sbuffò.
Avevano litigato solo una volta prima di quel, sempre per colpa del bastardo. Non che fosse un rapporto normale quello con sua madre, ma di solito non litigavano.
Quando il bastardo era morto avevano litigato.
Lei aveva un unico pensiero. Aveva bisogno di sapere. Aveva bisogno di passato.
Si chiedeva cosa avessero immaginato i vicini quella domenica pomeriggio sentendo gridare “quelle del terzo piano”.
Il signor Gino sicuramente che fosse una vergogna: “Sono in lutto è che diamine”.
La signora Eliana: “Povere, che cosa non fa fare il dolore”.
Il Signor Domenico: “Ho sempre detto che avevano qualcosa di strano quelle due”.
Le grida salivano, scendevano, si fermavano, erano interrotte dal pianto, riprendevano fiato, ricominciavano.
“Non capisco perché ti sia tanto intestardita su questa storia, il passato è passato. Lascialo lì. Ora lui è morto. Finito. Tutto finito. Perché vuoi continuare a farti del male?” disse la donna dai capelli scuri legati in uno chignon.
“Che tu non lo capissi non avevo dubbi. Sei sempre andata avanti senza farti troppe domande. Perché per te le persone vanno prese per come sono. In fondo sono tutte buone. Lui non lo era, neppure in fondo. Era un invasato, un mostro” disse quasi con la bava alla bocca.
Sua madre la fissava scuotendo la testa. Due giganteschi mondi in una stanza. Due mondi che si confrontavano per la prima volta. Sua madre parlava sempre ma non raccontava mai. La sorprendeva spesso. Quando aveva lasciato il padre. Quando aveva deciso per il bene di tutti di far internare il fratello. Quando aveva cominciato a lavorare. Quando aveva ripreso l’ex marito in casa perché nessuno doveva morire solo. Due mondi che non si capivano.
“Come potresti essere un mostro tesoro? Non dire sciocchezze” le disse con dolcezza.
“Come potrei non esserlo. Mio padre era un uomo violento, incline alla cattiveria, per non parlare del periodo della guerra.”
“Sciocchezze”
“Sciocchezze? E’ tutto documentato. Vogliamo parlare di mio fratello?”
“Tuo fratello è semplicemente una persona fragile. Tu non lo sei. Ti sei laureata, hai una casa, un buon lavoro.”
Doveva calmarsi, le veniva da vomitare, il cuore batteva forte ma non riusciva a fermarsi. Tutta quella rabbia doveva uscire. Se l’avesse trattenuta ancora probabilmente le sarebbe venuto qualcosa, le sarebbe cresciuto qualcosa di oscuro, di mortale dentro.
“Non sono fragile? Non sono fragile?” si era messa a gridare con quanta forza aveva in gola.
Voleva gridarle di tutti gli uomini sbagliati, di tutte le scelte sbagliate, di tutti i sogni infranti, di tutti i sogni mai perseguiti; come quella volta che sarebbe bastato poco per farla finire nel baratro della depravazione, senza neppure il gusto di farlo, solo per assecondare il desiderio altrui, solo per ricevere un po' di amore, poco importava che fosse un amore finto.
Sospirò “Mamma, io ti voglio bene ma non abbiamo nessuno. Nessun parente, nessun aneddoto familiare. Nessuno. Tutti hanno aneddoti, tutti hanno qualche tenero racconto. Noi non ne abbiamo. E ora viene fuori che qualcosa abbiamo. Che qualcuno lo avevamo e forse quel qualcuno mi potrebbe aiutare.”
Sua madre la guardo. Sospirò.
“Senti tesoro, non è tutto oro quello che luccica. Quella donna è un’estranea. Non la conosci e hai la tendenza a romanzare le cose"
Colpita e affondata.
“È vero. Innegabile.” disse sedendosi e prendendosi la teste fra le mani “Abbiamo affrontato la cosa con lo psichiatra. Abbiamo superato la cosa, la tengo sotto controllo.” aveva detto sfiancata.
“Non capisco, veramente continuo a non capire. Tuo padre non era un’ottima persona”
“Dire che non era un’ottima persona è un eufemismo” la interruppe la ragazza.
“Lo vuoi chiamare bastardo senza cuore? Va bene, chiamiamolo bastardo senza cuore. Ma non ti ha mai fatto mancare niente”
“No a parte l’affetto e la libertà”
“Non essere melodrammatica”
“Non mi sembra di essere melodrammatica mamma. Ti sto descrivendo le cose per come sono state. Papà era un uomo meschino. Aveva sempre messo il suo credo politico davanti a tutto e questo, unito al fatto che non aveva morale lo ha reso esplosivo durante la guerra. Dopo con noi figli si è comportato come se fossimoo delle reclute e non i suoi figli. Come si comportava con te? Non andava mai bene niente di quello che facevi, mai”
“Tuo padre è stato l’unico che si è preso cura di me, poi mi sono accorta che non era quello il modo giusto di occuparsi di una persona. Ma tu sei giovane, puoi andare avanti. La devi smettere di struggerti.”
“Io non mi struggo. Io sono terrorizzata di essere come lui. Sono terrorizzata di non essere una brava persona. Sono terrorizzata di essere pazza.”
“Ne abbiamo già parlato, ne hai già parlato con il dottore. Non sei pazza. Non hai ereditato niente da lui, tranne gli occhi azzurri e i capelli biondi. Non si ereditano queste cose. Devi andare avanti”
Sua madre non capiva. Lei aveva bisogno del passato. Aveva bisogno di sapere perché suo padre era quello che era. Il perché del bipolarismo di suo fratello. Aveva bisogno di capire e l’avere scoperto che qualcuno c’era a cui chiedere poteva aiutarla a trovare un equilibrio.
Aveva trentacinque anni, nessun fidanzato, nessun figlio. Pochi legami. Nessuno le piaceva e lei non piaceva a molti. La trovavano pesante. Era entrata in terapia, molte cose erano cambiate ma non tutte e da suo padre non avrebbe cavato un ragno da un buco. Le persone che la potevano aiutare erano tutte morte e lei non poteva farsi sfuggire quell’occasione.
Quella donna era anziana e non sarebbe vissuta ancora per molto pensava.
Era stufa delle occasioni perse. Questa volta no. Questa occasione l’avrebbe presa al volo. Dicono che se niente cambia, niente cambia quindi qualcosa doveva cambiare.
Silenzio, la casa era in silenzio.
“Mamma domani parto e vado da lei. Ho già la valigia pronta” disse Paola interrompendo il silenzio.
Maria si girò di scatto e la guardò con qualcosa di molto simile alla paura. Era abituata alla vita un po' confusa della figlia ma chi non era confuso? Alle sue molteplici domande e a delle scelte di vita che a volte sembravano molto discutibili ma alla fine si era sempre salvata. Egregiamente secondo i suoi parametri e ora si lanciava in quella cosa senza né capo né coda, ai suoi occhi era una follia. L'ennesima. Ma più pericolosa.
“Come farai con il lavoro?”
“Ho parlato con il mio capo e mi affiderà tutti lavori che posso svolgere da casa. Casa l’ho messa su Airbnb. Sandra si occuperà della cosa”
“Sandra, la mia amica Sandra?”
“Sì, sembrava molto contenta della cosa. Ha detto che questo le avrebbe dato qualcosa a cui pensare dopo il divorzio.”
“Non mi ha detto niente” disse la donna un po' piccata.
“Beh, se devo dirla tutta non gliel’ho proprio detta tutta”
“Hai deciso? Sei proprio sicura? Per me sbagli”
“Sì mamma sono proprio sicura” disse Paola alzandosi dalla sedia e dirigendosi verso l’attaccapanni. “Non puoi aspettare ancora un po’, riflettere ancora un po’. Tuo padre è ancora caldo”
“No, non posso. Ti mando un messaggio quando arrivo a casa” disse la ragazza. Prese la borsa e uscì.
Bionda per scelta

Ancora una mezz’ora di stoico immobilismo ed il processo di incorporazione nel divano sarebbe arrivato a compimento. Le gambe pelose sarebbero sprofondate nel tessuto. Vi era un’alta probabilità che non se ne sarebbe neppure accorto avendo gli occhi fissi sullo schermo del mio i-pad. Ne ero sicura. Il divano non si sarebbe neppure macchiato e con un po' di fortuna sarebbe stata inghiottita anche la forfora: un processo naturale ed indolore. Dopotutto non puoi occupare per ore, giorni, anni, la stessa identica posizione senza farti distrarre da nulla (che ne so: una richiesta di aiuto per aprire l’infida lattina dei pelati? una telefonata dall’altra parte della città per farsi venire a prendere? la telefonata di mia madre?) e pensare di farla franca per sempre. Dovevo concentrarmi sul divano, cercare di far riposare l’istinto di farla finita. O di finirlo io. Lì, sul divano. Però a quel punto il divano si sarebbe macchiato (il sangue era tra le sostanze che quel tessuto avrebbe trattenuto, senza possibilità di candeggio, lo avevo controllato). Ma come era possibile aver scambiato l’indifferenza mista a fancazzismo per una dote: un tipo tranquillo e pacato, vero? E io invece? Una che non riesce, neppure se si concentra, a stare ferma per più di 2 secondi. Neanche mentre fa una TAC. Figuriamoci su un divano! Perché non aveva messo la sveglia quella mattina dopo averlo detto era un mistero. Ero sicura che l’aveva detto. Paolo: va bene alle 8, allora? Avevo annuito, di spalle, mentre lavavo i denti. E poi naturalmente la sveglia non era suonata. E avevo fatto tardi. Ero uscita sbattendo la porta. Era andato tutto storto. Giornata da incubo e tutto per quella sveglia. Come al solito: tu chiedevi una cosa e lui immancabilmente non la faceva. Se era così importante perché non l’hai messa tu? Lo sapevo che me lo avrebbe detto. E poi: ma sei solo arrivata tardi! Non è mica la fine del mondo. Già. Avrei urlato, come al solito, impegnato il resto della serata a discutere animatamente, a parlare di rispetto, di importanza delle piccole cose, dei gesti apparentemente inutili ma vitali. Senza risolvere nulla. Gli passai accanto ed entrai in bagno. In un attimo ero già sotto la doccia a canticchiare city of stars. Giusto per smaltire la litigata appena consumata prima ancora di nascere. Anni di convivenza erano serviti a qualcosa.
Anonimo
“È finito il latte” disse Paola.
“E io che ci posso fare?” rispose Maria.
“Niente, tu non puoi farci niente. Del resto, quando è stata l’ultima volta che ti sei resa utile, tu?”
“Dio, quanto vorrei non vedere più la tua faccia”
“E che aspetti? Quella è la porta, vai!”
“Magari” sospirò Maria, voltandosi a guardare l’ingresso. Poi, come ogni giorno, andò ad accoccolarsi sulla poltrona che dava sulla finestra. Dal primo piano avevano una visuale perfetta. La strada era deserta se non si consideravano due gatti, un carabiniere e due portantini.

“Monopoli?” chiese Paola in piedi alle sue spalle.
“Cosa?”
“Vuoi giocare a Monopoli?”
“No, tu sei una capitalista senza scrupoli”
“Trivial?”
“No, io so tutte le risposte, non c’è gusto”
“Scarabeo?”
“Ok”
“Prendo anche le arachidi”
“Ne abbiamo ancora?”
“No, io ne ho ancora. E io, nella mia enorme bontà, te ne offro qualcuna”
“Non ne voglio”

“Mmmmmmmmm che delizia” mugugnò Paola leccandosi le dita sporche di sale.
“Spero che ti ci si strozzi!”
“Non so se ti converrebbe, dopo ti toccherebbe convivere con il mio cadavere”
“Cavoli, non ci avevo pensato” si rabbuiò Paola.
“Davvero? Io ci penso tutti i giorni”
“Al tuo cadavere?”
“No, al tuo” sorrise Paola, aprendo il tabellone sul tavolo del salotto per poi accomodarsi a gambe incrociate sul tappeto. “Quando mi fai andare completamente fuori di testa, quando ti lamenti per la milionesima volta del fatto che abbiamo finito il succo d’arancia, quando frigni perché non puoi farti una bella passeggiata al parco, ecco in tutte queste occasioni, e in molte altre ancora, bada bene, in molte altre ancora, io sogno di farti stare zitta. Per sempre. Sarebbe così liberatorio, riacquisterei la pace ma poi penso al tuo cadavere, non potrei buttarlo fuori, neanche dalla finestra dato che ce le hanno sigillate, e dover convivere con te da morta sarebbe persino peggio che convivere con te da viva”.
Le sorelle si guardarono negli occhi. I lampeggianti dell’ambulanza che si allontanava illuminarono per un attimo i loro visi.

“Casa”
“Eh?”
“CASA” ripeté Maria, posizionando 4 tessere quadrate in fila. “C-A-S-A. 1 punto per ogni A, 1 per la C e 1 per la S. Quattro in totale”
“Casa? Tutto qua? Sei il fenomeno dello scarabeo, un talento raro. Sarà una partita molto emozionante”
“Stronza”
“Eh?”
“STRONZA, S-T-R-O-N-Z-A”
“Ma non ce l’hai la Z e poi non toccherebbe a me?” commentò Paola spiando le tessere celate dell’altra.
“Stronza, tu sei una stronza!”
“Non trascendere, abbiamo deciso tre giorni fa che dovevamo smettere d’insultarci. E, tutto sommato, devo ammettere, che la convivenza ne ha giovato. Sono tre giorni che non ho la tentazione di strangolarti con le calze”
“Allora, direi che sarebbe il caso di aggiungere una nuova regola: vietato sognare la morte dell’altra” sbuffò Maria.
“Non puoi tarpare le ali ai sogni” sorrise compiaciuta Paola.
“E potrei nasconderti calze e oggetti contundenti, almeno?”
“La tua è una richiesta legittima, te lo concedo”
“Ti ringrazio” disse Maria per poi girarsi a guardare nuovamente la porta. Sprangata.
“Quanto manca alla fine della quarantena?”
“Due giorni, sette ore e 28 minuti”
“Va bene, continua pure a sognare di sopprimermi ma almeno passami le arachidi”.
Jane Pancrazia Cole

Paolo e Maria hanno litigato, raccontatemelo.

Per questo esercizio avete due protagonisti e una situazione, sta a voi realizzarla nel modo che preferite, può essere un racconto, un dialogo, un monologo, una poesia o qualunque altra cosa che vi venga in mente.

A litigare possono essere Paolo e Maria o Paolo e Mario o ancora Paola e Maria. Possono avere qualsiasi età e il rapporto tra i due può essere di qualsiasi tipo: innamorati, amici, parenti, conoscenti o anche sconosciuti. Stupitemi!

Per dubbi, domande e perplessità, come sempre: potete commentare o scrivermi privatamente (sul blog, su fb o via email).

Ricordo ancora che al laboratorio possono prendere parte tutti, non è necessario aver partecipato ai primi esercizi e, se parteciperete a questo, non siete poi obbligati a continuare. Ci mancherebbe! 

Buona scrittura a tutti! 

Tipo di testo: qualsiasi (racconto, poesia, dialogo, monologo, flusso di coscienza, etc…).
Lunghezza testo: Dai 100 ai 3600 caratteri, spazi inclusi.
Email: janecole@live.it.
Oggetto: Laboratorio collettivo di scrittura.
Specificare nel testo dell’email se volete restare anonimi o meno, se volete essere taggati (su FB) o meno.
Scadenza per far pervenire il testo: domenica 23 febbraio 2020, ore 12.

Volete leggere tutti i Racconti realizzati per questo esercizio? Li trovate qui.

Meno di due settimane fa vi ho regalato una parola nuova di zecca: varvanante.
Dodici di voi se ne sono presi cura donandole significato e vita. E anch'io ho fatto lo stesso.

Tredici testi, tredici storie, dai mobili alla burocrazia passando per le armi e per gli amori. Il livello è altissimo, la mia gioia anche.

Ringrazio tutti coloro che hanno partecipato, le cui opere, anche questa volta, verranno pubblicate in ordine di ricezione. Dalla prima che mi è stata spedita all'ultima. Ultimissima, la mia.

Se volete potete leggere il tutto a questo link di issu, dove trovate una rivista fatta dalle mie manine sante con i racconti e le foto del caso. Altrimenti c'è il tutto anche a seguire (senza foto). Buona lettura!

Varvanante, rutilante, un armadio con tre ante
per la strada or or galoppa,
con il vento forte in poppa.
Sghignazzando il bricconcello
fa cadere un gran cappello
due mutande, tre calzette
quattro paia di scarpette.
Laggiù in fondo si intravede
un calzino senza piede,
e più in là una gonnellina
incornicia una gallina.
I passanti un po' sorpresi,
lo ancorarono a dei pesi
ma l'armadio Varvanante
liberando le sue ante
ha ripreso a camminare
verso i monti e poi il mare.
Una donna assai vetusta
affacciata alla finestra
lo saluta giubilante
tifa "Forza Varvanante!
corri libero e felice
fai tacere chi ti dice
che il tuo posto è chiuso in casa
fermo immobile ed in posa,
uso solo a contenere,
senza mai poter vedere
altre case, altre persone,
cose belle, cose buone,
cose brutte o contundenti.
Lascia stare le gonnelle,
cerca in giro cose belle
da riporre nei cassetti,
dove avevi i fazzoletti.
Poi, se vuoi, ritorna a casa
e a quel punto poi riposa
sarai pieno di bellezza
cose cucciole, allegrezza.
E la gente che vorrà
a trovarti passerà
per un soffio di allegria
da tenere e portar via.
Corri forte Varvanante
e spalanca quelle ante,
ci vediamo al tuo ritorno,
lo so già, sarà un gran giorno!"
Michela

Le acque scure del golfo di Baratti venivano tagliate dalla chiglia del veliero. Il vento freddo sferzava i visi dei marinai e gonfiava le vele, portandoli al largo.

Tutto era iniziato quasi due anni prima, quando i pescatori del posto cominciavano a notare l'assenza di pesce, che prima piegava le barche e gonfiava le reti all'inverosimile. Quando la gente semplice nota qualcosa di strano comincia subito ad immaginare, ad associare gli eventi infausti ad una creatura sfuggente, demoniaca. Così era nata la leggenda di Varvanante. Le donne vedevano i mariti prendere il mare, e si chiedevano se avrebbero fatto ritorno a casa, i bambini venivano spaventati a morte con le storie che si susseguivano. Si diceva che Varvanante fosse in grado di capovolgere un veliero, che aveva ucciso interi equipaggi che non erano mai più tornati.

Si doveva fare qualcosa. Bortolo da Prato, il signore del luogo, aveva ceduto alle pressioni e dopo lungo ponderare aveva messo una taglia di ben duemila scudi per chi avesse catturato e ucciso la creatura che infestava quelle acque.

Una taglia così non passava inosservata, infatti i più grandi e coraggiosi cacciatori di balene erano accorsi dalle fredde terre del nord con i loro velieri, certi che avrebbero incassato presto la ricompensa. Sbagliavano.

Un freddo mattino di inizio inverno, bussò alla porta di Bortolo un uomo alto, robusto, con una terribile cicatrice sul volto che lo attraversava completamente ed una lunga barba grigia. Si chiamava Cecco Ubaldi, ma tutti lo chiamavano “squalo”, perché era stato sfigurato così dal feroce predatore.

Ottenute le informazioni circa gli ultimi avvistamenti, lo squalo prese il largo insieme al suo equipaggio. Molto tempo passò, prima che alcuni mercanti riferirono di aver visto il veliero dello squalo solcare le acque vicine a Livorno. Riferirono inoltre che il veliero restava sempre nella stessa zona, come ad aspettare pazientemente che qualcosa arrivasse in quelle acque.

In paese tutti avevano scommesso qualcosa, sia in favore che contro lo squalo, e grande fu la sorpresa quando una calda e serena mattina di metà estate, la sagoma inconfondibile del veliero si affacciò all'orizzonte del golfo.

La nave aveva un'andatura strana, come inclinata su un fianco. Il cordame era fuori bordo, e tratteneva a stento un'enorme carcassa. Era Varvanante che finalmente era stato ucciso.

Grandi furono i festeggiamenti, che durarono più di una settimana, e si scoprì che le carni di Varvanante erano morbide e succose, con quel sapore vagamente asprigno che pizzicava sulla lingua. Tutti gli abitanti, Cecco e squalo compresi, mangiarono a sazietà quelle carni morbide e deliziose, una sorta di rito scaramantico affinché mai più una creatura come quella potesse arrivare al golfo di Baratti.

Due giorni dopo la fine dei festeggiamenti, i primi cominciarono a morire. Nel tempo di una settimana non era rimasto nessuno.

Varvanante si era vendicato.

Beppe Carta

Sono nato e cresciuto in campagna.
Roba da croste alle ginocchia, sandali sudici e pallone.
Come dovrebbe essere.
Il calendario era di terra e di cielo, e si divideva in due grandi momenti: c'era la scuola, non c'era la scuola, con il primo pieno di grazia, il secondo di attesa del primo.
A scuola si andava a piedi, di corte in corte, e man mano si aggiungevano bambini, fino all'ultima curva.
All'ultima curva viveva Varvanante.
Un vecchio africano, rarità esotica, nell'Oltreserchio dei primi anni ottanta, dove faceva strano vedere uno di Filettole.
Faceva strano anche perché aveva barba e capelli bianchi, che stonavano con lo scuro della pelle, perché ai nostri occhi i neri dovevano essere tutti scuri, in ogni loro parte, e Varvanante pareva a suo modo un ribelle, un rivoluzionario, a presentarsi così, invecchiato e diverso dall'idea che tutti avevano dei neri: giovanotti robusti che vivevano lontano, non vecchietti dietro casa.
Giovanotto robusto lo era stato, era arrivato così, e nemmeno si chiamava ancora Varvanante. Quel nome glielo avevano dato i nostri nonni, d'età con lui, impossibilitati a pronunciare per bene il suo nome in modo da capirsi.
Era il tempo nel quale era il mondo a darti un nome, non tua madre, e quello che capitava capitava. C'erano il Secco, Gesù, il Moro, la Frusa, Francé.
E Varvanante.
Che cantava mentre intrecciava le cipolle afferrandole per la coda.
Varvanante, dai capelli bianchi e gli occhi gialli.
Varvanante, che ci guardava da lontano, facendo un cenno con la mano ossuta e scura come uno stecco di legno nodoso.
Varvanante, che non sentiva il caldo.
Varvanante, che al bar non beveva mai e nessuno era mai riuscito a farlo ubriacare.
Varvanante, che veniva "a opre" nelle case quando c'era da trebbiare il grano, pulire le olive, sgranare il granturco.
Varvanante, che quando morì lasciò la casa vuota e chilometri di cipolle e la bicicletta appoggiata al muro.

Letteredalucca

Mi trovavo di primissima mattina sulla punta estrema della Piazza di San Marco a Venezia, il mio corpo dava le spalle alla sontuosità veneziana perché il mio sguardo era diretto al naturale andamento delle onde. Di fronte ai miei occhi, nell’ampia veduta panoramica di cui si può beneficiare, si frastagliava, fra le fitte nuvole che coprivano e proteggevano la città quella mattina, la sagoma della chiesa di Santa Maria della Salute. Io rimanevo attonita e stupita dalla gloriosa bellezza che emanava quella città, sorprendendomi, di minuto in minuto, dei vari edifici che lasciavano man mano la pesante foschia per affacciarsi allo sguardo umano.
Ero sola, almeno così ero convinta, in realtà la piazza, nonostante l’ora, stava iniziando a popolarsi ed i veneziani uscivano dalle loro abitazioni per iniziare la loro giornata lavorativa. Fu proprio in questo iniziale trambusto mattiniero che mi accorsi che il mio gesto di contemplazione era imitato, quasi involontariamente, da differenti persone. Individui locali che osservavano, quasi ogni mattina questo surreale scenario, eppure ogni volta era come se fosse la prima tanto che si emozionavano, a distanza di anni, della ricchezza storica e culturale della loro città natale.
Era giunta anche la mia ora, da lì a poco una folla di turisti avrebbe assaltato le strette calli veneziane ed i deserti campielli avrebbe ripreso ad animarsi. La mia ora di contemplazione era ormai terminata e così decisi di dirigermi verso Palazzo Ducale così da potermi perdere nuovamente fra storie e vicissitudini del passato. Mi stavo ormai dirigendo verso la mia meta quando la mia attenzione fu richiamata da un gruppo di persone che animatamente chiacchieravano e, forse, discutevano fra di loro. Loro parlavano di cose superficiali, almeno per me, come di stupidi litigate giovanili frutto di attacchi isterici di gelosia, ora parlavano della necessità di prendersi una vacanza così da staccare da quella monotona quotidianità. Non ho mai capito se fossero dei turisti o dei veneziani stanchi della loro routine eppure di fronte a così tanta bellezza mi accorsi quanto fossero varvananti tali discorsi, così futili ed inutili. Mi sembrava di essere un’attuale dandy, una figura prescelta fra tanti, una di quelle che per strada non guarda mai dove mette i piedi perché persa a contemplare ora questo dettaglio ora un altro.
L’ascolto di quelle parole gettate al vento in una comune discussione da bar mi fece comprendere l’importanza del culto della bellezza, della storia e della cultura, nelle sue differenti sfaccettature, e di come i mali di questa nostra esistenza risultassero delle pure varvananti frasi sconnesse e senza senso.

Lucrezia Pellizzola
– Per me un Varvanante, grazie!
Avevo esordito così, ignorando completamente quello che mi sarebbe arrivato con quell’ordinazione.
I miei vicini di tavolo mi avevano guardato incuriositi, evidentemente altrettanto ignari di quale fosse la cosa che avevo appena ordinato, ma non altrettanto coraggiosi da avventurarsi in un’esperienza che avrebbe potuto deluderli.
Sì, perché sulla carta era riportato soltanto il nome, VARVANANTE, senza alcun tipo di descrizione, né se fosse una pietanza oppure una bevanda, né se fosse piccante o superalcolica: niente di niente, solo la richiesta, tra parentesi, di conoscere eventuali allergie o intolleranze della persona che l’avesse voluta assaggiare.
La cameriera mi aveva invece guardata con un sorrisetto malizioso, aveva ripiegato il foglietto delle ordinazioni e si era diretta verso l’interno del locale, evidentemente molto soddisfatta per aver trovato qualcuno che volesse accettare la sfida lanciata dai fantasiosi gestori di quel delizioso posticino in riva al mare.
Mi misi ad aspettare, il sole era ancora alto nonostante fossero ormai passate le cinque del pomeriggio ed il caldo iniziava a farsi sentire. Era stato un giugno burrascoso e, ormai alla fine, tutti ci auguravamo di poter finalmente assaporare il caldo tanto agognato. E il mare, una meraviglia! Calmo, di un azzurro intenso, faceva da cornice a tutti quei sentimenti che continuavano ad affollare i miei pensieri ed un Varvanante era proprio quello che ci voleva.
Una novità.
Un mistero.
Un rischio.
Nella mia vita ormai piatta come quel mare che avevo davanti, la necessità di correre di nuovo qualche rischio era pressante quanto la paura stessa di rischiare: ma ormai ero ad un bivio e se avessi perso anche quell’ultima occasione temevo che non sarei mai più riuscita a muovermi, non sarei mai più riuscita di nuovo a vivere pienamente.
Mentre fissando l’acqua immobile scorrevo questi pensieri, la cameriera sorridente uscì dalla porta portando il vassoio con agilità e fermezza. Alzai gli occhi, ormai la curiosità mi stava divorando, ma ancora non vedevo che cosa ci fosse sopra quel vassoio. Notai che anche tutte le persone nei tavoli vicini si erano voltate, qualcuno cercava anche di incrociare il mio sguardo, forse per avere un cenno che potesse innescare una conversazione e togliere finalmente il velo di mistero che circondava quello strano Varvanante.
Stava arrivando. Era ormai a pochi passi.
Ero emozionata, curiosa, ma proprio in quel momento il mio telefono suonò e suonò per quella telefonata che stavo aspettando, quella che avrebbe veramente potuto svoltarmi la vita. Quella telefonata era il mio Varvanante. Era la mia nuova strada, la mia occasione, la mia vita futura.
Mi alzai lentamente, presi il telefono voltando le spalle alla cameriera che stava appoggiando il vassoio sul tavolo ed iniziai a parlare.
Il mio Varvanante era arrivato, ma adesso sapevo che non era quello appoggiato sul tavolo.
Letizia Battaglia

Al piano interrato del Ministero della Mestizia non c’è superficie che non sia coperta da una patina di polverosa umidità. In un lungo corridoio si affacciano le porte dei dodici uffici delle Divisioni Apatia e Anaffettività. E, come un mistero doloroso di questa via crucis amministrativa, la tredicesima porta cela l’Unità Attribuzioni Speciali dove, dietro una minuscola scrivania su cui si ergono torri di fascicoli, si nasconde Elpidio Varvanante.

Il Varvanante considera il suo lavoro una missione alla quale è dedito da più di dieci anni. La sua è stata una lunga gavetta. Prima uno stage semestrale all’ufficio EMME – Meteo Malauguranti per Matrimoni, poi un contratto triennale per la gestione nazionale del Progetto Europeo FANALI – Famiglie Disfunzionali, che ha prodotto il Libro Bianco sulle conversazioni, manuale indispensabile per avere la certezza di saper innescare costruttivi scambi di opinione su argomenti controversi in contesto domestico, anche di respiro internazionale, sia laico che religioso.

Infine, l’agognato contratto a tempo indeterminato e una serie di progressioni interne che lo hanno portato a rivestire, da quattro anni ormai, e con malcelato orgoglio, il ruolo di Manager SFIGA.

Il Varvarente è ligio alle regole: l’attribuzione delle quote SFIGA alla popolazione deve essere anonima e casuale. Il Ministro stesso, il giorno della nomina, si era raccomandato al riguardo. “Varvanante, a lei chiedo imparzialità e rigore. Ovviamente, il mio fascicolo e quello dei miei cari non le sarà messo a disposizione. Lei comprende, ragioni di sicurezza. Che mi sono state imposte! Imposte, caro Varvanante!”

Ogni giorno, alle ore 9, il Varvanante entra in ufficio e si prepara a svolgere al meglio il suo lavoro. Cuffie insonorizzanti, un visore oscurante, guanti, della canfora nelle narici e un inibitore della sensibilità. Dopo 15 minuti, durante i quali sorseggia una tisana al biancospino, il Varvanante raggiunge l’ottundimento di tutti i sensi. Solo allora si siede alla scrivania, prende un fascicolo dalla pila e ne compila l’allegato F8, crocettando casualmente le diverse opzioni SFIGA da attribuire a ogni singolo cittadino.

Il modello F8 consta di 8 pagine, che declinano le opzioni e quote SFIGA dei seguenti settori: professionale, sanitario, intellettivo, relazionale. Naturalmente senza distinzione di razza, genere, credo religioso.

Durante la pausa pranzo, il Varvanante si concede un caffè e un tramezzino al bar aziendale. Rifugge le lusinghe dei sorrisi dei colleghi. Evita le quattro chiacchiere da corridoio. Sa bene che tutti cercano di accedere ai propri fascicoli per metterli al riparo e occultarli alla sua efficienza.

Un dubbio, ogni tanto, si fa strada nei suoi pensieri, soprattutto la notte. Dov’è il suo fascicolo?

Se solo sapesse che il suo è il primo modulo F8 che ha compilato.
Se solo sapesse di averne barrato casualmente ma compulsivamente tutti gli slot disponibili.
Se solo sapesse che lo sguardo negli occhi dei colleghi è pena e non timore, come ama credere.

Ma non lo sa e, ignaro, tempera la matita e prende in mano un altro fascicolo.

La Peppa Bennet

Nacque varvanante, ma non come gli altri prima di lei, lei incarnava in pieno tale natura, lei era IL varvanante. Libera nel vero senso della parola, poteva essere tutto ciò che le passava per la mente, poteva variare aspetto, azioni, intenzioni, emozioni... e nulla era mai vano, nulla si perdeva: ogni cosa che lei facesse, ogni direzione che lei seguisse portava qualcosa di utile. Magari utile solo a lei, per il suo diletto, ma spesso utile a chi aveva la fortuna di assistere a una delle sue evoluzioni: era d'ispirazione per tutti e tutti vivevano in lei la tanto ambita certezza di non essere così "strani", o almeno di poter condividere la propria stranezza con qualcuno. Aveva un pezzetto per ognuno, nessuno rimaneva senza, nemmeno i peggiori, i più aridi, i più sciapi. In lei anche costoro potevano trovare lo stimolo per diventare la parte migliore di loro stessi. Lei brillava di luce e colori, di fantasia e libertà, di conoscenza e saggezza, di grande accettazione, di bontà e di propensione alla bellezza. Anche la più insignificante, piccola, minuscola scintilla poteva essere colta ed amplificata al suo cospetto. Eh si, era proprio varvanante con tutte le lettere al loro posto. Nessuno aveva davvero capito il significato di quella parola prima che lei nascesse. Sembrava dicesse a tutti: siate varvanante con coraggio, ed ogni cosa sarà luminosa!
Lisa
Girò intorno alla villa. Ricordò che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un’indicazione? Fu proprio lì che si diresse, aveva sempre seguito le regole ma aveva smesso da un po' di farlo. Cose innocue per carità ma cose che la rendevano un po' più libera, un po' più leggera. La porta scricchiolò, il movimento spostò una tendina, il caldo e due occhioni dolci l’accolsero. Era una cucina, una splendida cucina d’altri tempi. Pentole appese in alto. Pentole sul fuoco che sbuffavano. Credenze piene di cibo. Una donna di colore borbottava mentre tagliava con prepotenza del pollo. Tossì per far sentire la sua presenza. La donna di girò e il cane le andò incontro scodinzolando.
“Salve, lei deve essere la nuova ospite della contessa. Coraggiosa. La contessa vieta a tutti di venire qui in cucina.” disse riprendendo a martoriare il povero pollo. “Più che coraggiosa direi disubbidiente”.
“Beh, a volte può essere la stessa cosa” le disse alzando il sopracciglio con espressione d’intesa.

Si sedette. Il tepore le piaceva. Accarezzare la piccola palla di pelo che aveva deciso di stare sulle sue gambe la rilassava. Il lavorio della donna aveva un effetto rasserenante.
Un ronzio improvviso.
Un continuo ronzio proveniente dalla sua giacca.
Non guardò chi chiamava, non rispose, lo ignorò.
Sapeva il nome di chi stava chiamando.
Alle sue domande nessuno aveva risposto e lei non avrebbe risposto a quella chiamata.
“Non pensa di rispondere?” le chiese la donna guardandola.
“No, nessuna intenzione”
“Che donna varvanante.” disse la cameriera riprendendo il suo lavoro.
“La contessa trova che oggigiorno le persone abbiano perso di varvananza. Non hanno opinioni, non sono decise. Si fanno trascinare e quando ti sembrano varvananti scopri che dietro la loro varvananza sono solo burattini nelle mani di altri. I varvananti, quelli veri, stagliano ma non hanno vita facile” concluse con un poderoso colpo di coltello.
“Magari lo fossi” disse di getto. Le sarebbe piaciuto esserlo, forse non avrebbe commesso tanti errori nella sua vita. Forse l’unica cosa da varvanante che aveva mai fatto era essere lì. “Si fidi, lo è. Forse non lo ha ancora capito ma lo è. Non tutti incontrano i gusti di quel signorino che sta accarezzando” disse indicando il cane. “Ma soprattutto nessuno è mai durato così tanti giorni con la contessa come lei. Tutti scappati dopo un paio di giorni”

Bionda Per Scelta

Si era svegliata presto, prima dell’ultimo rintocco. Si era messa ad ascoltare il rumore del risveglio condito dal profumo della legna arsa, preludio all’infornata mattutina. La colazione era il momento migliore della giornata. Si poteva scambiare qualche occhiata più prolungata del solito con le altre compagne di armatura prima di rientrare nelle celle per la vestizione. Si poteva interrompere il digiuno e riscoprire la mandibola addentando il pane caldo. Non era permesso parlare. Bisognava allenare la mente ed il corpo alla solitudine ed agli stenti. Il gioco della guerra non era più solo una cosa da uomini. Solo che loro non lo sapevano ancora. L’armatura era pesante ma lucente. Meglio di mille merletti. Per indossarla bisognava armarsi di pazienza. Stringere i denti e sopportarne i tagli nella carne, più profondi nel momento dell’assedio. L’indomani sarebbe stata presa Montmelian. Sarebbero state in trenta a tentare nuovamente l’impresa. Mischiarsi agli assalitori e rapire al posto loro le donzelle ed i bambini della cittadella vinta. Non per farne bottino o carne da trastullo. Per sottrarli alla morte ed alla resa. “Dobbiamo muoverci, i cavalli sono stati già bardati”: Marie era sull’uscio che la guardava impaziente. “Non sappiamo come sarà la strada e chi incontreremo”. “Non sarà peggio dell’ultima volta” lo sussurrò più per sé che per rassicurare lei. Uscirono al trotto dal fitto bosco che celava il Forte e proseguirono lungo il fiume. Poi una lunga cavalcata per la radura fino ai campi saccheggiati dai francesi prima di avvistare l’esercito di Carlo II, nell’ora della quiete. Bisognava restarne ai margini, senza dare nell’occhio. Cavalieri impegnati a giocare a dadi e ad aspettare la notte per l’aggiramento della cittadella. Ancora poche ore e sarebbe suonato il corno della carica. Dovevano aspettare. “Certo che nessun libro di tattica militare parlerà mai della nostra manovra. Accanto al cerchio cantabrico nessuno leggerà mai del varvanante.”. “Una formazione bellica inesistente, cosa c’è di meglio per sorprendere l’avversario?”. Risero in molte. Julie le guardò impietrita. Non era il momento di scherzare. Come era possibile che quelle fanciulle educate al canto ed alle buone maniere fossero diventate delle amazzoni noncuranti del pericolo? Era solo una nuova vita. La precedente fatta di moine e di nenie era stata sepolta dalla guerra, cancellata d’un colpo. Morte ed orrore avevano annientato il mondo incantato in cui si credeva che tutto sarebbe sempre stato vissuto. Gli amori, i canti, i sospiri, fino al matrimonio o al convento. “Qualcuno vuole del vino? Ce n’è ancora accanto alla tenda del duca di Sully”. Si era avvicinato un cavaliere. Per fortuna un paio di armature più in là si alzarono a fatica per farsi accompagnare a bere. In un sospiro, si mossero tutti. Iniziarono a dividersi in due schieramenti e anche loro fecero lo stesso. Il primo si stava già dirigendo a destra e c’era più strada da fare. Al loro interno, senza distinguersi dai cavalieri al galoppo, Marie guidava alcune di loro. L’altro schieramento sarebbe andato a sinistra. E con loro Julie al comando delle sue amazzoni. Nessun attacco frontale, dove l’esercito sabaudo aveva schierato i migliori cavalieri. Eppure non fu uno scontro meno cruento. L’esercito francese si faceva strada a cavallo annientando i migliori giovani degli antichi casati del ducato. Sotto i fendenti della nobile fanteria francese guidata da Carlo II di Crequi si stava consumando una disfatta annunciata per il ducato di Savoia. Era il 15 novembre del 1600: l’indomani la cittadella di Montmelian si sarebbe arresa ai francesi.
Julie e Marie avevano addestrato tutte soprattutto a difendersi. Non dovevano colpire per prime ma solo schivare gli avversari ed infliggere dei colpi precisi ma mai mortali. Insinuarsi dentro la manovra studiata dall’esercito francese, senza discostarsene per non essere scoperte ma con un obiettivo diverso. Nel momento in cui gli scontri iniziavano a trasformarsi in duelli, bisognava continuare ad avanzare, per addentrarsi oltre le mura. Arrivarono così nelle strette vie scolpite nella pietra della cittadella. Sembrava disabitata. Dietro le loro spalle infuriava la battaglia e le grida si facevano sempre più strazianti. Iniziarono a sparpagliarsi nelle case. Marie varcò l’uscio di una bottega di tessuti. Era vuota. Come avrebbe voluto trascinare con sé quel damasco impreziosito da ricami e perline. Una luce fioca nel retro. Una donna sulla ventina con un bimbetto in grembo supplicava di risparmiarlo. Non c’era tempo da perdere. Alzò la visiera quel tanto perché spuntassero i suoi riccioli d’oro. Lo sguardo della donna passò da impaurito ad incredulo. “Non temere, siamo qui per salvarvi. Prendi il necessario. Siamo a cavallo”. Julie era arrivata tardi in una dimora signorile. I corpi ansimanti giacevano a terra. Con i rudimenti di medicina appresi negli ultimi due anni di assidua rilettura del De re anatomica, si rese conto che non c’erano speranze di sopravvivenza tranne che per una gracile fanciulla. Poteva avere otto o nove anni. Cercò a fatica di chiuderle la ferita e la prese con sé, legandola al cavallo. C’era ancora spazio. Doveva muoversi. Ancora poche ore e sarebbe arrivata l’alba e con essa nuove insidie. Vedeva davanti a sé le altre che caricavano fanciulle e ragazzi, li coprivano con tessuti leggeri e iniziavano la ritirata. Ne era orgogliosa. Eccolo lì il varvanante: essere in mezzo ad un esercito muovendosi al passo degli altri cavalieri, mimetizzarsi ma senza condividerne lo scopo, allontanarsi nel momento degli scontri per seguire il proprio istinto senza perdere di vista almeno due compagne, afferrare quelle vite disperate, quante se ne poteva e battere in ritirate vittoriose, senza fermarsi mai, spinte dalla carica che può darti solo lo sguardo di chi ritorna a sperare. Il nome lo aveva rivendicato Marie, con un po' di civettuola presunzione. Ma andava bene così. Marie non aveva più figli e non avrebbe potuto averne mai più: dare il suo cognome ad una tattica militare l’inorgogliva. Nel pomeriggio sarebbe toccato a lei riunire le donne ed i ragazzi rapiti alla morte per spiegargli dove si trovassero.
Erano già passate le nove, quando rientrò anche Adèle, facendo tirare a tutte un sospiro di sollievo. Aveva sul suo fedele Rouge, una donna corpulenta e stizzita, balia di due mocciosi che continuarono a strillare fino a quando non furono sfamati.
Anonimo
Era varvanante quel giorno, lo era stata il giorno prima e quello prima ancora. A pensarci bene era stata in sottofondo varvanante tutta la settimana, anzi no tutto il mese, forse addirittura da un annetto a questa parte. Beh, dati i presupposti, sarebbe stata varvanante anche l’indomani: con buona pace di suo marito.
Non che la cosa la preoccupasse più di tanto, non era triste, non era certo depressa, né arrabbiata o demotivata, non aveva motivi per lagnarsi: era solo varvanante e questo un po’ la stancava. Nella sua testa, uno stimolo diventava una specie di quadro appeso: bloccato lì, in bella mostra, a chiederle una didascalia per poter definitivamente ottenere il suo posto.
Il problema era che di stimoli ne intercettava troppi durante il giorno: la scadenza imminente per quella grafica, il modulo da portare alla scuola di suo figlio, quella risposta sgarbata data a sua madre, i 3 punti della sua lista di to do che non aveva completato, le mille cose di cui avrebbe parlato con sua sorella all’aperitivo che le chiedeva da mesi, la spesa e la cena, la tosse del piccolo, l’allestimento da completare, la mancanza di disponibilità di Marcello per il turno da coprire, gli scatoloni dell’ufficio da scendere in magazzino, gli stati d’animo delle persone che aveva a fianco… di ciascuna delle persone che aveva a fianco, suo padre, le preghiere alla sera che non riusciva più a fare, quelle finestre che doveva lucidare da una settimana, la chiamata a Roberta per il suo compleanno e a Sara, perché si era proprio comportata male e prima che il loro rapporto finisse nel silenzio doveva quantomeno spiegarle le sue ragioni, il conto in banca, quel non sentirsi mai all’altezza pur sapendo di essere sempre all’altezza, quel post su IG che le aveva suggerito una nuova idea, quei giochi sparpagliati in cucina a cui non trovava un posto, il preventivo troppo alto di quel fornitore e la necessità di trovare lo stesso prodotto a un prezzo più basso, la mail inviata di corsa in cui aveva scordato l’allegato, quella ragazza incontrata che aveva cosi tanto bisogno di aiuto, gli equilibri sempre fragili nelle relazioni dei nostri giorni, Marta e le sue crisi di pianto, il libro sul comodino da cominciare, Gabriele e le continue monellerie in casa, quell’ossessivo quanto inutile e snervante swipe dei feed, i lavori mai completi mai perfetti mai davvero soddisfacenti, quella riflessione mai detta sull’articolo letto la mattina, gli abiti del suo armadio che non riusciva ad abbinare mai bene, i capelli sempre scomposti, la costante ansia da prestazione, l’antipatia per il telefono che suona, quei residui di smalto che doveva ancora togliere, la fuga con suo marito che desiderava, senza bimbi, solo loro, solo una notte, due calici di vino e un abbraccio in silenzio. Eccola la donna in carriera, moglie e madre, emancipata ma varvanante.
Questi pensieri facevano switch in continuazione nella sua testa e quando doveva portare lavoro a casa era anche peggio: senza accorgersene, metteva le mani davanti ai bimbi, sgranava gli occhi, si grattava la testa, nel peggiore dei casi dalla pancia le usciva un piccolo strillo e si sentiva maledettamente in colpa perché invece avrebbe dovuto prenderli tutti in braccio, buttare alla rinfusa quattro magliette nello zaino, prendere per mano suo marito e scappare in montagna. Ma quella era la normale quotidianità e sapeva che non era la sola a sentirsi così e sapeva che sarebbe passato e sapeva che non aveva in fondo nulla di cui lamentarsi. Però questo essere varvanante, questa continua altalena di pensieri, cose da fare ed essenziale appannato, un po’ di ansia l’aggiungeva.
Le parole con la V non le erano mai piaciute e, eccetto per varvanante, non le aveva anche stavolta usate.

Anonimo

Eravamo ormai al 238° anno di guerra tra il regno oscuro di Kuldur e la lega dei popoli della luce, un insieme di regni che aborriva la violenza, l'ingiustizia e la magia nera.
Il regno oscuro di Kuldur era stato creato circa 300 anni fa dal risveglio del più potente negromante che la storia avesse mai conosciuto: Grimor.
Grimor era stato sconfitto 1000 anni fa da Elios, il più dotato Varvanante che le terre della luce avessero mai conosciuto.
I varvananti erano chiamati così perché uscivano dalla scuola di magia della luca di Varva, la più rinomata accademia di magia di tutti i regni liberi.
Elios aveva battuto ogni record di precocità concludendo il percorso di studi in soli due anni mentre la durata effettiva era di 10.
Il combattimento finale con Grimor fu terribile, si liberarono energie magiche fuori da ogni scala mai percepita, tutt'ora il terreno di scontro è interdetto in quanto ancora contaminato da influssi magici. Lo scontro si concluse con la morte di entrambi, almeno così pensavamo, ma Grimor aveva trovato un modo di ritornare nel mondo dei vivi.
Gli abitanti dei della lega dei popoli della luce avevano reso Elios un culto, costruendo chiese e altari, invocando il suo ritorno, ma nulla era successo negli ultimi 300 anni.
Le armate di non morti di Kuldur erano in netto vantaggio e nel giro di pochi mesi avrebbero vinto la guerra.
Findrar, il comandante delle armate della lega, spronava i varvananti rimasti, chiedendogli un aiuto magico ma Grimor era troppo potente per loro, gli anni di pace avevano nuociuto alla all'accademia di Varva.
Come tutte le mattine, Findrar andò a onorare Elios e fu lì che vide che le statue stavano piangendo oro... era forse un segnale del suo ritorno?
Roberto Tavella
Era varvanante e non cessava. Per quanto si sforzasse di non sentirlo, era imperterrito. La notte la teneva sveglia e solo nel suo abbraccio sembrava passare. Ma perfino in quel calore umano, in cui da sempre trovava conforto, non trovava pace. Forse dentro di lei, in verità, c'era sempre stato e forse era arrivato il momento di affrontarlo. Forse non si era mai manifestato con tale impertinenza e forse non aveva neanche maturato la capacità di riconoscerlo. La dimensione del "forse" era tipica di quello stato d'animo così vervarante. Comprendere quella sensazione che la teneva in pena implicava necessariamente una cosa: affrontare se stessa. Chiarire una volta per tutte chi davvero fosse Lenzy. Era così brava a dispensare consigli ed indicazioni, così brillante nell'accompagnare tanti alla scoperta di sé stessi, tanto da averne fatto un mestiere. Un'arte per qualcuno. Ma allo specchio forse non aveva mai avuto il coraggio di guardarsi. Ora più che mai, quella sensazione derivava probabilmente dalla paura di essere inadeguata e non all'altezza. Un timore che pensava di avere superato abbondantemente. La sua brillante carriera ne era la prova. Ma convivere con quello stato d'animo non aveva a che fare con il suo delicato e affascinante mestiere ma con il suo spirito. A lavoro di spirito ne metteva poco ed è questo che la rendeva così brava. Essere fredda e distaccata era davvero la strategia vincente e a lei questo veniva assolutamente naturale. Per questo funzionava! Ma quando chiudeva con le vite degli altri, ben custodite nei suoi archivi, e cominciava a vivere la sua vita l'anima serviva. E solo ora si era resa conto che lei di anima ce ne metteva poca, pochissima. Di autenticità e verità nella sua vita ce n’era davvero poca. A nudo non aveva il coraggio di mettersi mai. Con nessuno. Neanche con l'uomo che amava più di ogni altra cosa e persona al mondo. Un uomo che l'aveva fatta innamorare perché era un puro, un vero, un autentico, un sincero. Doti a lei così lontane! La sua insicurezza la assaliva, il momento di affrontarla era adesso, il momento di sentirsi all'altezza di essere amata era arrivato. Perché altrimenti non avrebbe cessato quella sensazione di malessere che era costante, scalpitante, incessante, opprimente, soffocante, insopportabile. In una parola... Varvanante.

Anonimo

Le farfalle nello stomaco sono quelle che sentono due innamorati la prima volta che s'incontrano.
L'uno guarda l'altra, l'altra guarda l'uno e mille ali leggere e colorate prendono ad agitarsi. Poi lui e lei vanno al cinema, o al ristorante, o a bere qualcosa, a fare una passeggiata in centro, un'arrampicata in montagna o un giro tra le bancarelle di un mercatino di giocattoli antichi. Stanno lontani all'inizio, poi spalla a spalla, mani sfioranti con mani sfioranti, dita intrecciate. Si guardano, uno dei due rischia e si sporge in avanti, l'altro l’accoglie, ed è bacio.
Le farfalle allora esplodano in un fragore di campane, din don dan, come quelle dei paesi, din don dan, che si espandono con gli echi delle valli, din don dan, ed è denti, ed è lingua, ed è gioia!
Alle campane seguono le onde grosse che s'infrangono sulla spiaggia. Rumorose e potenti, sono il sesso. Pure un po' spaventose, il sesso la prima volta. Al buio, con la luce, in penombra, la prestazione, gli addominali, la ceretta. Il giorno, la notte, il giorno, notte, giorno, notte, giorno… e il mare si calma, la risacca si fa più lieve e in sottofondo si cominciano a sentire i passerotti che canticchiano. Prima piano poi sempre più forte.
Questo è il tempo della tranquillità, di piedi intrecciati sul divano, di maratone di serie televisive, di pizze in cartone. I passerotti sono grassocci e gli innamorati pure. Vanno a dormire e godono di un sonno profondo e pieno dell'altro.
Alla fine, però, si svegliano quando dagli infissi s'insinua un vento freddo. Quello è il varvanante, un soffio gelido, uno stato d'animo, un dubbio che si insinua nel cervello e anche nelle mutande. Il varvanante è l’inizio della fine.
Jane Pancrazia Cole
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