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Torna la mia rubrica sul quotidiano online TorinOggi: Storie sotto La Mole. Racconti ispirati ai millemilioni di leggende ambientate a Torino.

Questa settimana è la volta di quel torinese che trasformò la sua casa in una reggia grazie al gioco del Lotto e a una rondinella.

Buona lettura!

Una porta nuova.
"Il dottor Caramagna, ha vinto al lotto" diceva la dirimpettaia.

La pittura fresca.
"Caramagna ha indovinato i numeri un'altra volta" bisbigliavano le lavandaie con i panni in bilico sulla testa.

Cento e più candele.
"10, 14, 59,67,90... Tutti e cinque i numeri ha preso" raccontava il fornaio con la faccia sporca di farina e l'animo di gran invidia.

Un tappeto arrivato da lontano.
"Cinque volte"
"Cosa?"
"Le ho contate, ha vinto cinque volte dall'inizio dell'anno" sussurrava la perpetua all'orecchio dell'acquaiolo.

Un vaso da Venezia, dei piatti dal Regno dei Borboni, un trumeau dall'altra parte delle Alpi.
"Ormai si è fatto una casa come quella di un conte" borbottava il parroco.

Continua...




Arte chiama arte. Creatività chiama creatività in un circolo virtuoso di cose belle.

Con questo spirito ho scelto l'esercizio di questa settimana del Laboratorio Condiviso di Scrittura. La fonte d'ispirazione questa volta sarà una foto ma non una foto qualunque, uno scatto di William Eggleston.

Questa è l'immagine. A voi la storia.
Una storia da raccontare in qualsiasi forma preferiate: un racconto, un monologo, un dialogo, una poesia, fate voi.

Partecipate al Laboratorio, durerà solo fino alla fine dell'anno, ormai gli esercizi rimasti sono pchissimi.

Per chi non lo sapesse, il laboratorio è gratuito ed aperto a tutti, potete partecipare anche ad un solo esercizio. Massima libertà.

Per qualsiasi domanda contattatemi sul blog o sui social, cercherò di rispondervi il prima possibile.

Tipo di testo: racconto, poesia, monologo, dialogo, quello che vi pare... 
Lunghezza testo: dagli 800 agli 8000 caratteri. 
Email: janecole@live.it. 
Oggetto: laboratorio condiviso di scrittura. 
Specificare nel testo dell’email se volete restare anonimi o meno, se volete essere taggati (su FB) o meno. 
Scadenza per far pervenire il testo: domenica 29 novembre 2020, ore 23. 

Volete leggere tutte le Storie nate da questa foto? Le trovate qui.
Questa volta i partecipanti al Laboratorio Condiviso di Scrittura hanno avuto a loro di sposizione una sola cosa, semplice, essenziale, una parola: CartoAmante.

Cosa ne hanno fatto?
Leggiamolo!




Il commissario si svegliò con il familiare dolore alla spalla destra, frutto di una ferita di guerra. Si era ormai rassegnato al fatto che questo dolore lo avrebbe accompagnato per tutta la vita. Probabilmente là fuori stava piovendo. Quando aprì gli scuri del suo piccolo appartamento, il cortile era lucido di pioggia; grosse gocce cadevano sulla piccola corte alla periferia di Milano. Cerchiò il giorno sul calendario, come faceva d’abitudine. Era il 22 novembre 1971. Mise la caffettiera sul fuoco, riflettendo sul fatto che al suo paese, in Calabria, le mattine erano molto differenti. 

I suoi pensieri furono interrotti dallo squillare del telefono. Non è mai un buon segno quando chiamano a quest’ora del mattino. “Commissario Baselga”, rispose al terzo squillo. Ormai era abituato a rispondere così, anche quando lo chiamava la sua anziana madre che lo prendeva bonariamente in giro per questo. 

“Commissario, hanno trovato un cadavere in Brera”, dissero dall’altra parte del filo. Non aveva mai capito perché a Milano si dicesse “in Brera” e non “a Brera”, ma dopo tanti anni passati nella grigia metropoli ci aveva ormai fatto il callo. “Arrivo subito”, replicò. Prese nota dell’indirizzo, si vestì in fretta e bevve in un solo sorso il caffè ormai freddo. 

L’appartamento era piccolo ma accogliente, arredato con classe. Le eleganti tende chiuse, i mobili di buona fattura erano ordinatamente disposti con molto gusto. L’unica nota stonata era quel ragazzo in canottiera con quattro fori di proiettile nel petto, riverso sul tappeto del soggiorno. Doveva avere non più di venticinque anni, con un fisico decisamente atletico, i tratti del volto delicati ma con una nota di asprezza che doveva piacere molto alle donne. Il suo vice stava guardando i documenti trovati su un vuotatasche all’ingresso. 

“Buongiorno commissario, la vittima si chiamava Pietro Cusimano, ventitre anni. Ucciso con quattro colpi di piccolo calibro da media distanza, nessun segno di effrazione né di lotta all’interno dell’appartamento. La vittima doveva conoscere il suo assassino. Il rigor non si è ancora manifestato, dev’essere morto da non più di due ore”. Il commissario rimase stupito dalla quantità di informazioni; il suo vice era un tipo molto sveglio, e non mancava occasione di dimostrarlo; la sua cultura e l’esperienza erano stati molto utili in tanti casi risolti da entrambi. “Grazie, vado a sentire i vicini. Quattro colpi di pistola in piena notte non passano inosservati”. 

Le portinaie sono sempre una fonte di molte utili informazioni così il commissario si diresse subito da lei; inoltre, era la portinaia che aveva chiamato la polizia. 

“Sì commissario, vi ho chiamati io”, confermò la portinaia, una donna bassa e molto robusta con un marcatissimo accento brianzolo, “mi stavo alzando per portare fuori la rumenta, fuori era ancora buio. Ho sentito un forte botto ed ho pensato che qualche giovanotto disgraziato volesse far prendere paura ai cani. Poi mentre uscivo ho visto quattro donne molto eleganti uscire dal portone. Che belle pellicce che avevano! Ho sempre detto a mio marito che ne volevo una ma lui è uno spilorcio e non ha mai voluto comprarmela!”. Il commissario la interruppe: “Un solo colpo? È sicura?”. La donna riprese con rinnovato entusiasmo: “Sì! Un forte botto, come un PUM! Di un petardo!”. 

Il commissario si prese una pausa per riflettere, poi riprese: “Mi dica delle donne”. La donna rispose con sicurezza: “Erano quattro, molto eleganti, con la pelliccia ed i gioielli in bella vista. Mi è sembrato strano che quattro donne così eleganti uscissero da qui a quest’ora del mattino, ma da quando è arrivato Pietro era un viavai di donne molto eleganti e un po’ su d’età, se capisce cosa intendo. A me quel ragazzo non la raccontava giusta, no no! Un gran bel ragazzo, per carità, ma come poteva permettersi un appartamento in Brera facendo il cartomante?”. Il commissario aggrottò la fronte: “Cartomante?”. 

“Sì, il cartomante!”, proseguì la donna “È arrivato qui otto mesi fa, tutte le mattine sul tardi scendeva nel marciapiede qui davanti e allestiva il suo banchetto. Poi al pomeriggio tornava a casa e spesso arrivavano delle donne la sera. Qualcuna usciva la mattina presto, altre restavano un paio d’ore e poi andavano via. Ne ho riconosciute un paio, sa? Le ho viste insieme ai loro mariti alla “prima” della Scala, non me ne perdo una. Resto lì fuori insieme a mio marito e le vedo passare. Vorrei andarci anch’io alla prima della Scala, ma mio marito è così spilorcio, sapesse!” 

“Mi dica delle donne che ha riconosciuto”, la incalzò il commissario. Lei rispose: “Una è la moglie di quell’industriale dell’acciaio, ha un cognome tedesco, ma non me lo ricordo. L’altra è la figlia di quel banchiere famoso che è morto un paio d’anni fa e che ha sposato un banchiere. Certa gente i soldi ce li ha nel sangue”. La donna accennò un sorriso maligno al commissario il quale la ringraziò e la congedò.

Non fu difficile rintracciare le quattro donne grazie alle fotografie prese dai rotocalchi alla “prima” della Scala dell’anno prima ed alle preziose informazioni fornite dalla portinaia e da altri testimoni che avevano visto le donne al banchetto del cartomante, identificandone quattro come le principali indiziate. Il commissario convocò le quattro donne in commissariato per una chiacchierata informale relativa alla vicenda che tutti i giornali avevano chiamato “l’omicidio del cartomante”. Le donne furono messe in quattro stanze separate e gli interrogatori iniziarono. 

Il commissario era famoso nell’ambiente per la sua capacità di far confessare i sospetti semplicemente parlandoci. Non fu difficile per lui farle parlare, così abituato a persone molto più dure di quattro donne spaventate e confuse. Una volta che le donne ebbero capito che ormai la verità stava venendo a galla, confessarono tutto provando sollievo nel potersi levare quel peso dal petto. 

Tutta la vicenda fu presto ricostruita. Le quattro donne avevano conosciuto Pietro il cartomante al suo banchetto, anche se lo conoscevano come “Gianni il magnifico”. Tra un giro di tarocchi e una lettura della mano, Pietro le aveva abbindolate, le aveva fatte innamorare ed era diventato il loro amante fisso, anche se nessuna sapeva delle altre. Col tempo le quattro si erano innamorate di lui ed avevano cominciato a riempirlo di regali. Dapprima piccole cifre extra al compenso di cartomante, ma poi erano arrivati i regali più consistenti: vestiti, orologi e addirittura l’appartamento nel quale era stato ritrovato morto, nel quale si era trasferito andandosene da uno squallido monolocale a Quarto Oggiaro, regalatogli dalla più facoltosa delle quattro che aveva timore ad andare in un quartiere così malfamato. In quei quaranta metri quadrati si consumavano gli incontri più intimi, anche se lui insisteva a chiamarlo “il mio studio”. 

Col tempo, le richieste di tempo da parte delle quattro si erano fatte sempre più insistenti e per Pietro era diventato sempre più difficile tenere segrete le sue relazioni alle ignare donne, finché era successo l’irreparabile. Pietro era stato scoperto nel suo “studio” da un’amante mentre era appartato con un’altra e ne era scaturito un violento litigio. Pietro, vistosi scoperto, aveva convocato le quattro per un chiarimento. 

All'interrogatorio, tutte e quattro le donne dissero la stessa cosa; una volta arrivate e messe di fronte al fatto compiuto, avevano estratto le pistole dalle loro eleganti borsette e avevano fatto fuoco. Tutte e quattro contemporaneamente, come se si fossero messe d’accordo. Questo spiegava come mai la portinaia e tutti gli altri avessero sentito un colpo solo. 

I giornali scrissero per settimane della vicenda gettando nel panico la “Milano bene”. Le eleganti e discrete sale da tè di Via Montenapoleone si svuotarono dei prestanti giovanotti, le eleganti signore stettero maggiormente in casa. Ma il tempo fece lentamente dimenticare lo scandalo del cartomante di Brera e tutto ricominciò come se non fosse mai successo nulla. 

Beppe Carta



Nel nostro mazzo di carte regnava sempre l’armonia: impensabile, visto che eravamo tutte donne. Ci chiamavano Sibille. Dopo di noi, tutti ci hanno copiato in ogni modo ed in tutto il mondo. 
La nostra padrona è stata la prima a scoprire il nostro talento. Quale sarebbe? Il nostro talento non è altro che raccontare storie improvvisate. 
La padrona riusciva a fare la domanda giusta al timido spettatore / richiedente e noi ci sbizzarrivamo.
Per esempio, Sibilla la Vecchia ha un talento particolare per fare l’imitazione della paura; Sibilla la scappata di casa riesce sempre a inserire l’elemento di disturbo della storia; Sibilla la trasformista ha probabilmente milioni di maschere sotto il tappeto, cambia faccia e personaggio ogni volta. E così via, siamo una comunità di 52 carte. 
Magicamente, ogni nostra combinazione, coordinata con la lettura della padrona, rispecchiava in qualche modo la realtà! Siamo magiche e preziose! 
Nei nostri annali ricorderemo sempre quando riuscimmo a scoprire dove si nascondeva il famoso Mostro di Parigi, pluri-assassino che uccideva fanciulle che ritornavano a casa da sole la sera. 

Ma ad un certo punto, come in tutte le storie, ci fu una rottura. Arrivò lui, il Re. 
Veniva chiamato il Re come soprannome per sue particolari doti amatorie. Non solo aveva la corona, ma in un certo campo era il Re. 
Si mischiò casualmente con noi una sera che la padrona era andata a giocare a ramino a casa di alcuni amici. Sibilla la sola si ritrovò questo corteggiatore assiduo sempre vicino, dietro o davanti nel mazzo, dovunque. E a lei, che si chiamava la sola e non la solitaria, bastò poco per iniziare ad apprezzare. Non si sentiva più relegata ad un bordo del mazzo, aveva qualcuno con cui condividere i suoi racconti e le sue storie. E noi, la comunità, non le servivamo più. 
Tanto che ogni tanto, spariva. 
Succedeva che la nostra padrona continuasse a fare le domande giuste, ma le nostre storie non tornavano più. Ci mancava un pezzo. 
Ogni volta che spariva e riappariva, Sibilla la Sola, meno riuscivamo a parlarci, a chiamarla. Addirittura chiamarla Sibilla, come noi, era troppo. Fu un attimo iniziarla a chiamare, con disprezzo, “Quella lì, la Cartoamante del Re”. 

La padrona si accorse di qualcosa. Sempre più spesso riceveva reclami da parte dei clienti. 
Ma non aveva tempo per riflettere troppo. Eravamo in guerra e Napoleone l’aveva contattata per chiedere aiuto su una delle più importanti campagne, in Belgio. 
Dalla nostra padrona venne fuori che Napoleone sarebbe potuto stare tranquillo, non avrebbe trovato nessuna offensiva dell’esercito britannico, soprattutto sulle piane del Belgio meridionale. 

Niente, è passato tutto agli annali, non solo nostri, come la battaglia di Waterloo. 
Abbasso il Re. 

Marianna Palmerini





Stefania aveva sempre un'aria triste, in tre anni che eravamo vicine di casa non l'avevo mai vista sorridere. 
Ci scambiavamo il saluto e niente più. 
Quella sera però mi preoccupai seriamente. 
Urla e oggetti sbattuti sul pavimento non mi facevano pensare niente di buono, infatti dopo pochi istanti, sentii sbattere la porta con violenza e una voce di uomo che imprecando andava via. 

"Elisa, non sono affari tuoi" dissi tra me e me, ma poi la preoccupazione dell'improvviso silenzio mi fece decidere a controllare che fosse tutto a posto. 

Bussai alla porta di Stefania e una voce strozzata dal pianto mi chiese : "Chi è?" 

"Elisa, la tua vicina di casa!" 

Provai un'immensa tenerezza, era così fragile nel suo pigiama di seta grigio perla. 
Era minuta ma ben proporzionata, sempre in ordine e profumata, un po la invidiavo, io ero quasi perennemente in jeans e scarpe da ginnastica. 
Mi raccontò dei continui litigi e dei tradimenti del suo fidanzato, del desiderio di maternità mai realizzato, del suo negozio di estetica creato con tanti sacrifici ma anche della voglia di scappare lontano e ricominciare a vivere. 

Parlammo tutta la notte alternando pianti a risate irrefrenabili e fu così che diventammo amiche. 

Ci vedevamo quasi ogni giorno a pranzo al bar accanto al suo negozio e molto spesso anche la sera visto che era tornata a essere libera dopo quella sera. 

Quel giorno a pranzo era in forte ritardo così andai a vedere cosa fosse successo ed entrando vidi una scena assurda e ridicola al tempo stesso. 
A penzoloni dal soffitto vidi spuntare delle gambe fino a metà busto. 
Corsi di sopra rapidamente e lei era lì con la faccia paonazza intenta a far leva con le braccia per tirarsi fuori da quella situazione. 
"Oddio, sei la mia salvezza!!!" 
La tirai su con non poca fatica. 
Scoppiammo a ridere
"Ha ceduto un pezzo di soppalco", mi dice cercando di trattenere le risa. "Ero lì da almeno 10 minuti!
 Avevo visto che stava iniziando a sgretolarsi ma ho sempre rimandato, oggi ha ceduto sotto il mio peso. Ho bisogno di un muratore o qualcuno che si occupi di cartongesso. Vorrei fare qualche lavoretto per migliorare il negozio, oltre che a sistemare il soppalco, ovviamente".

Mi ricordai di mia cugina che, qualche mese prima, aveva fatto fare dei piccoli lavori di restauro nella casa in campagna, così mi feci dare il numero della ditta che aveva assunto. 
Il giorno dopo si presentò lui, l'uomo del cartongesso, soprannominato da noi "George" per l'evidente somiglianza con Clooney. 
Non riuscivamo a togliergli gli occhi di dosso e a parlucchiare come due adolescenti alla prima cotta. 
Danilo, questo era il suo nome, ovviamente sapendo di piacere iniziò a fare il cascamorto… con entrambe. 
Questo particolare però lo scoprii qualche giorno più avanti. 

I lavori al negozio di Stefania andarono avanti per qualche giorno, era un continuo spostare pareti da un punto all'altro. 
Lì per lì non capivo poi un giorno ebbi l'illuminazione. 

Era venerdì pomeriggio uscii prima dall'ufficio, ero a un passo dall'ingresso quando, dalla vetrina, li scorsi abbracciati e intenti a baciarsi. 

Non mi videro così me ne andai arrabbiata. 

Io e Danilo avevamo iniziato a frequentarci e mi aveva raccomandato di non dire nulla a Stefania. 
"Sai credo di piacerle, non vorrei farla star male", mi aveva detto. 

Così feci, stetti zitta anche se questo segreto mi sembrava assurdo. 
Era evidente che il "nostro amico George" aveva fatto lo stesso discorso anche a lei. 

Non sono una tipa vendicativa ma questa cosa mi aveva fatto infuriare così presa dalla rabbia decisi di attuare il mio piano. 
Una notte mi vestii, andai sotto casa di Danilo e con un cacciavite rigai tutta la fiancata della sua macchina. 

Il giorno dopo tornai in negozio sperando di ritrovarli in intimità per sputare fuori tutto il veleno che avevo in corpo. 

Quando arrivai Danilo stava scendendo da un furgoncino che, sulle fiancate, a grandi caratteri portava la scritta: SI ESEGUONO LAVORI DI MURATURA, CARTONGESSO E IMBIANCATURA 
Un sospetto si insinuò nella mia mente. "La macchina che avevo sfregiato di chi era?" 

Entrammo insieme da Stefania che ci venne incontro sorridente. 
Lui, George, invece era visibilmente contrariato. 
"Stanotte un vandalo ha rigato la macchina di mia moglie". 

"Moglie?!?!" dicemmo in coro Stefania ed io. 
 Lui continuò come se non ci avesse sentito: "In tutta la via solo la sua macchina, una 500 nuova di pacco, l'avrete vista, venivo con la sua perché il mio furgone era dal meccanico. Ti ho portato la fattura, se puoi saldare il prima possibile mi fai un piacere, sai ora devo far riverniciare tutta la macchina per togliere il danno".

Andò via e quella fu l'ultima volta che, sia io che Stefania, lo vedemmo. 

Era giunto il momento di raccontarle tutto, dai miei incontri segreti con Danilo alla sera che, presa dalla rabbia, sfregiai per errore la macchina della moglie. 

A quel punto a gridare vendetta eravamo entrambe. 

Così, la stessa notte munite di un cacciavite a testa andammo a rigare il furgone del traditore. 
Io la fiancata destra e lei la sinistra. 

Perché due buone amiche si dividono tutto. 

Antonella Carta 



“Buongiorno”, disse lei allegra. 
“Ciao” disse lui accostandosi al tavolino tondo della donna. 
“Lei è un nuovo cliente? È qui per farsi leggere le carte, vero? Prego si sieda, che ho giusto qualche ora senza appuntamenti.” 
“In realtà non sono un nuovo cliente, sono un vecchio cliente” disse l'uomo sedendosi lentamente. 
Gli occhi della donna si dilatarono leggermente e per qualche battito di ciglia sembrarono assenti, persi a cercare di ricordare il suo precedente incontro con quell’uomo. Infine, piccole rughette sul viso della donna le disegnarono un sorriso condiscendente. 
“È impossibile, ricordo le storie di tutte le persone a cui faccio le carte, io e lei non ci siamo mai visti”
L'uomo la guardò immobile per qualche secondo, l’espressione indecifrabile, poi anch’esso sfoggiò un sorriso dolceamaro e le rispose. 
“Hai ragione, non puoi ricordarti di me, perché vengo dal futuro” 
“Dal futuro? Cosa intende dire scusi?” Sgomento misto a curiosità trasudavano da quegli occhi simili a quelli di una bambina, ma gentilmente incorniciati dal viso di donna con lunghi capelli biondi, acconciati in un precisissimo e anacronistico frisé. 
“Che noi un giorno ci incontreremo, tu mi farai le carte moltissime volte, conoscerai molto bene la mia storia” 
“Ma è incredibile, com'è possibile. E perché dovrebbe essere venuto qui dal futuro, qualcosa che le ho detto si è avverato ed è venuto qui a dirmelo? È orse arrabbiato?” La donna sembrava spaventata ma allo stesso tempo catturata dalla conversazione come mai prima d'ora, si sporgeva in avanti e scrutava il viso dell'uomo con insistenza cercando una qualche somiglianza con i visi archiviati nella sua mente. 
“Tutt’altro, sono venuto a farti un regalo, tu mi hai raccontato la mia storia e io ora sono venuto a raccontarti la tua” disse l'uomo senza scomporsi, con profonda calma. 
Ormai la donna fremeva di curiosità e un sorriso iniziava ad intravedersi sul suo volto, accesosi alla parola 'regalo' e pronto a brillare. 
“Troverai un bel lavoro, come maestra di scuola media” 
“Che bello, io adoro i bambini!” 
“Infatti ti sposerai con un impiegato di banca, e avrete un figlio maschio a cui vorrai un bene dell’anima. Il suo nome sarà Tommaso” 
“Ma è un nome splendido!” 
“Certo perché lo sceglierai tu Paola” disse l'uomo con tenerezza. 
Gli occhi della donna trasognati si persero per qualche istante ad immaginarsi nel suo futuro, con in grembo il suo bambino, e una leggerissima lacrima le scese sulla gota sinistra. 
Ella però la scostò velocemente e tornò concreta a guardare l'uomo con gioia. 
“Che bel regalo che mi hai fatto” poi fece una pausa, guardò alle spalle del suo interlocutore per poi avvicinarsi ulteriormente a lui e aggiungere sottovoce: 
“Ma quel ragazzo che si è avvicinato poco fa, e che sta dritto lì dietro, è con te?” 
“Ah sì, lui. È qui per proteggermi, è un bravo ragazzo, i miei viaggi nel passato sono spesso molto dolorosi” 
“È la tua guardia del corpo? Ma allora perché torni, se è così doloroso?” 
“È più forte di me, era scritto nelle carte” 
“Ah le carte, posso farti le carte? Vorrei così tanto ringraziarti, mi hai detto delle cose bellissime! Sono così felice” Sul volto della donna un sorriso caldo e avvolgente, occhi luccicanti di una nuova luce. 
“Non ho più tempo, temo di dovermene andare” 
“Torna a trovarmi allora! È stato bello conoscerti. Ciao anche a te guardia del corpo!” 
Il ragazzo in piedi alle loro spalle ebbe un sussulto e le rivolse un sorriso timido, quasi commosso. 

“Papà perché hai dovuto farlo, non è già abbastanza doloroso ogni volta sentirle fare le carte?” 
“Ma non lo vedi che è così felice ora?” L’uomo che era rimasto impassibile fino a quel momento mostrò al figlio gli occhi lucidi e le mani tremanti. 
“Sono contento di essere venuto con te, non sei in grado di guidare in questo stato” disse il ragazzo apprensivo appoggiando una mano sulla spalla del padre. 
“Ogni volta penso che non mi farà sentire così, e ogni volta mi sbaglio. L'unica cosa che non capisco è perché non le hai voluto parlare” disse l'uomo al ragazzo. 
“Cosa avrei dovuto dirle, vedere che non mi riconosce è troppo doloroso. E domani si sarà già dimenticata tutto, che senso ha spiegarle” disse serio il ragazzo. 
“Tommaso, ti avrebbe abbracciato se le avessi detto chi eri invece di startene lì impalato in disparte”
“Magari settimana prossima, oggi proprio non me la sentivo” 

“Buongiorno Signor Baranzelli! È venuto a trovare Paola con suo figlio? Oh, ma che bel giovanotto!”
“Buongiorno Clara, cercavamo proprio lei prima di andarcene. Come sta andando? Eravamo così preoccupati di cambiarle struttura, ma sembra contenta.” 
“Oh, si è ambientata proprio bene, sa? Quando ha visto quel tavolino tondo è impazzita e ha detto che era il posto perfetto per lei. Lei mi aveva avvertito della sua mania per le carte e allora le ho messo una tovaglietta di pizzo ed era felicissima. Ora non fa altro che fare le carte a tutti, si è proprio calata nel personaggio” disse la rubiconda infermiera, carica di cartelle cliniche. 
“Sì, ho notato che ormai pensa di essere una cartomante di professione, ma ha sempre amato fare le carte a parenti ed amici. È così strano che le sia rimasto solo quello, forse perché lo faceva fin da ragazza.” Disse l'uomo sommessamente. 
“Sì, parlandoci mi è stato subito chiaro che sia convinta di avere poco più di vent'anni, e che aspetti che la madre la venga a prendere in bicicletta, che gioia. Ma tutti la amano qui alla clinica, fa le carte a tutti, e a me, che mi vede sempre, me le fa più volte al giorno.” 
“Mi spiace che debba sopportarla” 
“Ma cosa dice! Come le dicevo tutti la amano, è così fresca e gioiosa quando fa le carte. Quando sente le storie degli altri si illumina e accetta qualsiasi cosa le venga detta. Ha fatto le carte a donne che non si ricordavano nemmeno il loro nome, ma è riuscita a metterle a loro agio. Non fa altro che diffondere un po’ di amore in questo posto, e dio solo sa se ce n'è bisogno.” 
“Sono lieto di sentirglielo dire, a rivederla allora, alla prossima settimana” 

Marina Alice Cibin



Io di mestiere faccio la cartomante. Ricevo abusivamente in uno scantinato a Beinasco, un infelice anonimo dormitorio alle porte di Torino. La mia professione è nata per caso. Fin da bambina indovinavo le cose, specialmente durante i giorni del ciclo. La mia pelle diventava un ricettacolo di sensazioni, mille aghi mi oltrepassavano il cuore e diventavano gomitoli di percezioni confuse, vedevo figure nell’ombra, sentivo canzoni mai sentite prima e poi sbam, la visione. 

La signora Cassolari aveva perso un braccialetto d’oro e piangeva nella cucina, mentre mia madre cercava inutilmente di consolarla: 
“Madre santa, è un regalo della buonanima di mia suocera, mio marito mi spaccherà la faccia”.
“Nell’armadio, nella tasca della vestaglia” 
“Che?” avevano detto mia madre e la signora Casolari, all’unisono. 
Beata Vergine, era vero! Letizia Casolari aveva nascosto i sui tesori prima delle vacanze, ma se ne era dimenticata! 
Io come facevo a saperlo? Niente, semplicemente avevo visto l’armadio che si spalancava nella mia testa, i cappotti impacchettati nel cellophane, le camicette inamidate e infine la vestaglia di lana scozzese, avvolta in una luce dorata. 

La voce si era sparsa e nel giro di un po’ di tempo mi ero conquistata una certa fama. Mia madre mi aveva comprato dei libri sui tarocchi e un bel mazzo di carta, affermava che un po’ di scena mi avrebbe favorito. 
Avevo smesso di andare a scuola, la mattina mi svegliavo tardi, facevo colazione davanti alla tivù e poi provavo i giochi con le carte. Ogni tanto arrivava una cliente e ci chiudevamo in cucina. 
Dopo un po’ di tempo mia madre aveva affittato uno scantinato che si era liberato vicino ai garage, aveva confezionato delle tende azzurre e comprato due poltroncine dell’Ikea. 
Lei aveva ripreso il pieno possesso della sua cucina, io avevo aumentato la mia fama in tutta Beinasco e dintorni. 

Vorrei dirvi che il mio lavoro non è così appassionante come forse vi immaginate. Le clienti hanno sempre le stesse esigenze: amore, soldi, vendetta. Le mie sedute sono a buon prezzo e la mia clientela è monotona nei suoi bisogni trascendentali. Però, ascoltando tutta quella materia umana, mi sono fatta le mie idee sul mondo, la vita, la morte. Ho un bel bagaglio di esperienza, anche se sono così giovane. 

Ad un certo punto, mi è venuta voglia di ricominciare a studiare. Ho preso il diploma tre anni in uno, tanto me lo posso permettere con i proventi della mia professione. Mia madre ha disapprovato, ma io sono la fonte di sostentamento della famiglia e alla fine si è rassegnata. Mi sono iscritta all’università, Filosofia. Dopo cinque anni di lettura dei fatti altrui, ho deciso di allargare i miei orizzonti, approfondire la conoscenza della mente al di là del bene e del male. Al mattino mi alzo presto e corro in facoltà. Sono contenta, dentro di me percepisco una forza inusitata, una velleità a me sconosciuta. Non disprezzo quello che faccio nello scantinato, anzi, mi sono raffinata nel linguaggio e cerco di dare i dei responsi più sottili e articolati alle mie clienti. Alcune di loro non capiscono, ma io mi impegno per distoglierle dalle loro fissazioni, anche se loro tornano inevitabilmente al nocciolo della questione: 
“Si, va bene, ma Ignazio me le fa le corna o no?” 
Io le accontento, non mi piace deluderle. 
Fisso il volto della donna che mi siede di fronte, osservo le sue rughe, noto un piccolo brufolo dalla punta giallastra sul bordo della bocca impiastricciata di rosa. Mi viene un’irrefrenabile voglia di schiacciarlo. 
“Si bisogna far uscire il pus” 
“Bastardo, questa me la paga”. 

Ora vorrei dirvi che quello che c’è tra il professor Renato Bandi, mio docente di filosofia teoretica e me, è vero amore, ma non sono così ingenua, dopo tutti questi anni di esperienza sul campo. La mia professione mi è di immenso aiuto. Ciò non toglie che io sia rimasta ammaliata dalla sua lucidità intellettuale, dai suoi maglioncini di cachemire beige, su cui amo strofinare la guancia quando lo abbraccio forte, dalle sue mani affusolate che mi sollevano il mento per guardarmi nel profondo degli occhi. Insomma, sono caduta ai suoi piedi come una pera cotta. Mi incanta il suo senso di rispetto per la mia essenza femminile mentre mi slaccia il reggiseno. Nell’ appartamento tutto grigio e bianco, luminosissimo, affacciato sul parco, tra una lezione e l’altra, l’amore del professore mi avvolge e io mi ammanto di lussuria, risplendo come una regina. 
“come sei bella” mi dice “vorrei fermare questo istante per l’eternità” 
“che ore sono? Oddio com’è tardi, devo scappare!” 
“amore, non mi hai ancora detto che lavoro fai”
“un giorno te lo dirò”. 
Chissà che cosa immagina, rifletto, mentre torno a Beinasco sul mio autobus di linea, che ci mette un’eternità prima di giungere a destinazione. Fantastico, mi spingo in là con i miei sogni fino a prevedere che mi trasferirò. Dove? Ma nella bellissima casa di Renato, tra i suoi libri e le sue piante rampicanti. Il nostro nido d’amore. 

“vorrei sapere di Salvatore, se mi tradisce. L’ho beccato più volte che telefonava di nascosto e buttava giù quando mi avvicinavo…” 
“Chi?” 
“Come chi? Ma Salvatore! Oggi sei distratta, Solange, come mai?” 
Mi vedo nello scantinato con il mio nome d’arte e mi sento improvvisamente ridicola, inutile e depressa.
“Scusami tanto, Carmela, oggi non è giornata, mi sento poco bene, torna domani, mi sento un po’ stanca e le carte non mi stanno aiutando” 
“ma che hai, non ti ho mai visto così” 
“No, non è niente, passerà, abbi pazienza”. 
Sono due settimane che Renato non si fa vedere né sentire. 

Renato, come vi state tutti immaginando, mi ha lasciata per un’altra. Mi correggo, non ha avuto questo coraggio, è svanito nel nulla come fanno i tanti Salvatori e Ignazi che ho conosciuto tramite le mie affezionate clienti. Credo che si sia imboscato con la nuova allieva prediletta, una ragazza dai capelli rossi alta almeno un metro e settantacinque. Non servono le carte, basta un po’ di buonsenso, e di pettegolezzi raccolti nei corridoi dell’università. 
Intanto io mi sto per laureare con degli ottimi voti e sto progettando di lasciare lo scantinato per altre vie, magari un master all’estero. 
Sono un po’ preoccupata per le mie clienti, non credo che la prenderanno bene, anche se ho pensato che, giacché sono tutte dotate di smartphone, posso senz’altro impiantare delle consulenze su internet. 
Ho deciso di fare una sorpresa a Renato: gli ho inviato una cartolina di quelle che aveva preparato mia madre per farmi pubblicità. La grafica è dozzinale, si intravede la figura in penombra di una ragazza con i capelli ricci, il seno prominente, una sfera di cristallo su un tavolino ricoperto di stelle. Una scritta dorata completa la scena: “Solange, risolve i tuoi affari di cuore e di denaro. Consultala a Beinasco, pressi centro commerciale”. 
L’ho firmata sul retro: saluti dalla tua cartoamante preferita. 
Vediamo se avrà il coraggio di consultarmi. Perché, questo è certo, prima o poi toccherà anche a lui di ricevere, come si dice a Beinasco, una tramvata in faccia. 

Barbara Fiore


La mia analista l'ha scritto oggi per la prima volta sul suo taccuino. Sono stati sufficienti pochi minuti perché la diagnosi fosse finalmente chiara. Chiara e tonda, scritta in stampatello e sottolineata su quelle pagine ruvide, gialle, grammatura 80, aroma di castagne nel sottobosco di Castellamonte. 

Deve esser cominciato tutto prima ancora che io lo possa ricordare. Avevo già 3 o quattro anni quando mia madre mi sorprese per la prima volta con la faccia spiaccicata su un libro di fiabe illustrate. Iniziata la scuola fu la volta di sussidiari e quaderni. Invece di fare i compiti stavo lì, con i libri contro il muso, io a fare il ripieno di un panino cartaceo. 

All'inizio pensarono solo che fossi una bambina un po' particolare poi, visto che il mio curioso comportamento continuava, presero a portarmi da un medico all'altro. Le ipotesi diagnostiche che si alternarono negli anni furono, nell'ordine: narcolessia, miopia, ipotensione da vago ipersensibile, sindrome dello studente pigro, morbo della faccia pesante, virus della fronte appiccicosa, disfunzione comportamentale alquanto imbarazzante, detta DCAI. Tutte teorie nessuna certezza. Io cercavo di spiegare il motivo del mio comportamento ma gli adulti, genitori e dottori, mi accarezzavano bonari il capo e poi tornavano a parlottare tra loro. 

Avevo circa 10 anni quando, stanca di esami del sangue, radiografie e martelletti sulle ginocchia, decisi di farmi furba, o quantomeno più circospetta. Niente più musate a libri e quaderni. Niente più annusate rapite ad agende timide. Niente. O meglio, niente quando sapevo di essere vista. I miei genitori pensarono felici che fossi guarita. Che la loro strana figlia non fosse più così strana. 

Trascorsi un'adolescenza apparentemente serena anche se, dentro di me, cresceva il dubbio che avessi davvero qualcosa di sbagliato, che fossi davvero malata. 
Per questo motivo oggi, all'età di 19 anni, dopo tre anni di paghette messe religiosamente da parte, mi sono presentata nello studio della dottoressa. Ho letto il suo annuncio in rete. "Psicologa, psicanalista, esperta di vizi ma non giudicante", diceva il banner. 

Appena sedutami di fronte a lei, le ho spiegato dettagliatamente il mio problema, il mio vizio, la mia debolezza. "Annuso la carta. Quella dei libri, delle agende e dei quaderni. Ci immergo la faccia e sto lì a respirare. L'ho sempre fatto. Mi tranquillizza, mi rende felice, mi fa sentire a casa. Non è necessario che siano libri o quaderni miei. Mi hanno già buttato fuori da 2 biblioteche, 5 librerie, e il reparto cartoleria di diversi centri commerciali. Non credo che sia la colla della rilegatura, con la carta da parati non ho lo stesso effetto, ci ho provato." 
"mmmm" ha risposto la dottoressa scrivendo sul proprio taccuino col mezzo sorriso di chi la sa lunga. 
"mmmm cosa?" 
"mmmm mi è tutto chiaro"
"ha capito che cos'ho?"
"ma certo, non è poi così raro" 
"e può farmelo passare?" 
"oh cielo no, e perché mai dovrei?" 

Jane Pancrazia Cole

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Buongiorno a tutti dalla Zona Rossa!
Di nuovo chiusi in casa, siamo pieni di tempo libero da utilizzare in maniera proficua. Quindi, dopo aver impastato la prima pizza del secondo lockdown, tornate qua a leggere i miei suggerimenti per questo Novembre 2020. Cose da fare, vedere, leggere, ascoltare comodamente dal proprio abusato divano.

Il web pullula di siti, profili, pagine che trattano di libri. Perché consigliarvene uno invece di un altro? Perché a quest'uno collaboro anch'io (in maniera molto sporadica, onestamente). Si tratta del collettivo dei Russi, nato – da un'idea di Enza Spinapolice – da facebook per poi approdare anche su un blog. Un gruppo di lettori forti e un po' pazzi, dai consigli di lettura mai scontati.
Potete trovare le recensioni dei Russi di "Parla della Russia" sul sito e anche tanto altro sulla loro (nostra) pagina Facebook. 
Seguiteci, leggeteci, leggete!

Qualcuno di voi conoce gli Slim Dogs? Io li conoscevo di fama ma non li avevo mai seguiti molto. Un gruppo di videomaker romani molto prolifici anche su youtube o, meglio, un gruppo di youtuber che sono stati ingrado di farne una professione anche al di fuori della rete. Ultimamente sono diventata dipendente dalla loro rubrica "Come ca**o hanno fatto?" dove spiegano tutti i segreti dietro la realizzazione delle scene più interessanti e assurde del cinema. Ormai ho deciso: se rinasco voglio fare l'esperta di effetti speciali, effetti visivi e pure scenografa di colossal. Ecco.

In piena pandemia tendiamo a scordarci gli altri problemi di questo pianeta. Male, molto male. La state facendo ancora la differenziata, nevvero?
Comunque, vi consiglio un modo per divertirvi e rinfrescarvi la memoria. 
Michela Leonardi – donna di scienza, in gambissima e amica mia – si è inventata un gioco tutto nuovo che si chiama Climate Change. Potete scaricare il file e stamparvi a casa board game, carte e segnalini, oppure giocarci direttamente online. Gratis.

Infine, per gli appassionati di scrittura ho due consigli: The catcher, il magazine della Scuola Holden che trovate su Medium; e, ovviamente, il mio Laboratorio Condiviso di Scrittura con un esercizio tutto nuovo.

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Pensavate che i consigli fossero finiti qui? In realtà lo pensavo anch'io ma un minuto prima della pubblicazione mi sono imbattuta in questo video ADORABILE! Quindi, ora, con l'ultimo regalo al volo per questo mese vi saluto. Ridete, state sereni ma, soprattutto, state attenti.

Un abbraccio, molto virtuale, a tutti!

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Da quando ho inziato quest'avventura del Laboratorio Condiviso di Scrittura (ufficialmente lo scorso gennaio ma nella mia testa poco prima di Natale) ho preso a raccogliere idee per gli esercizi in una nota sul cellulare. Esercizi classici, cose lette in giro, cose inventate di sana pianta, ispirazioni estemporanee. E, a proposito di ispirazioni estemporanee, parecchi mesi fa ho sentito una parola, credo durante uno spettacolo d'improvvisazioen teatrale, l'ho sentita ed ho pensato: questa sarebbe perfetta per il Laboratorio!

Consideratela un titolo, la protagonista o una semplice remota ispirazione, fatene un po' ciò che volete, sentitevi liberi come l'aria, io ve la lascio qui, ve l'appoggio qua sul blog, la parola è CartoAmante. Non deve neanche essere presente nel vostro testo ma, leggendolo, io devo pensare "eccola là, CartoAmante!" 

Scrivete un racconto, una poesia, un monologo, un dialogo, ciò che più vi aggrada. Stupitemi come solo voi sapete!

Tipo di testo: racconto, poesia, monologo, dialogo, quello che vi pare... 
Lunghezza testo: dagli 800 agli 8000 caratteri. 
Email: janecole@live.it. 
Oggetto: laboratorio condiviso di scrittura. 
Specificare nel testo dell’email se volete restare anonimi o meno, se volete essere taggati (su FB) o meno. Scadenza per far pervenire il testo: domenica 15 novembre 2020, ore 12.

Volete leggere tutti i Racconti nati da questo esercizio? Li trovate qui.
Per questo esercizio, in uno sfoggio di esuberante generosità ho regalato ai partecipanti al Laboratorio Condiviso di Scrittura diversi personaggi. Nello specifico: il bambino prodigio, il musicista disoccupato, la ragazza madre, la trapezista, il contadino col fucile, la nonna anaffettiva e l'astronauta. Sette personaggi tra cui sceglierne almeno tre da inserire nelle vicende narrate.

Non si può dire, certamente, che questa volta io abbia badato a spese ma, con grande gioia, devo ammettere che la mia munificenza è stata ampiamente ricompensata dal lavoro dei partecipanti al Lab.


La bruma autunnale ricopriva il campo del signor Giovanni, quella domenica mattina. I primi raggi di sole facevano balenare la nebbiolina a pochi centimetri dal terreno, facendola assomigliare ad una soffice coperta. L’aria era ancora fresca dalla notte appena passata ed il signor Giovanni camminava soddisfatto lungo il bordo del suo campo, il fucile ben assestato sulla spalla destra, il cappello floscio calcato sulla testa. Aveva appena finito di piantare le verdure autunnali – radicchio, broccoli e coste – ed era molto orgoglioso del lavoro appena concluso. Tutti i filari erano ben ordinati, le parti aeree delle sue verdure sfilavano a perdita d’occhio in righe perfettamente parallele. 

Non avrebbe consentito ai conigli, alle lepri ed ai cervi di rovinare il suo splendido lavoro ma amava troppo gli animali per ucciderli. Spaventarli, però, poteva farlo; caricare alcune cartucce con grani di sale grosso aveva risolto la situazione lo scorso ottobre, e così Giovanni si ritrovò a pattugliare il suo campo anche quest’anno. Ricordò come le lepri correvano a perdifiato quando il fucile Beretta faceva sentire la sua voce e una risata uscì spontanea, avvolgendogli il volto col vapore del suo fiato. 

Era ancora perso nei suoi pensieri quando la sua vista, ancora acuta nonostante l’età, colse un movimento all’angolo opposto del campo. Pensando ad un erbivoro intento a sgranocchiare le sue piante, si avvicinò con circospezione e rimase stupito davanti alla scena che gli si presentò davanti. 

Una donna era in piedi di fianco ad un bambino, il quale stava dipingendo su una tela appoggiata ad un cavalletto; la sua espressione era molto concentrata e la sua manina sinistra reggeva un pennello con molta sicurezza e maestria. Il sorriso orgoglioso della donna che doveva essere sua madre si vedeva a venti metri di distanza. Giovanni si avvicinò. 

“Buongiorno, è strano veder dipingere da queste parti”. 
“Buongiorno a lei, a mio figlio piacciono molto questi paesaggi e così l’ho accompagnato per ritrarre questo splendido campo. Spero di non disturbare nessuno”. 
“No, non si preoccupi, siete al bordo del mio campo e non rovinate niente.” Giovanni si avvicinò alla tela e guardò meglio il dipinto. Rimase stupefatto da quello che vide. “Ma è meraviglioso! Sembra una fotografia! Questo bambino è incredibile!”. 

La madre sussultò d’orgoglio e rispose: “Mio figlio, Leonardo, cominciò a dipingere ancora prima di imparare a scrivere. Dapprima con delle semplici matite, adesso è passato ai dipinti a olio e domani chissà!”. La donna fece una risatina e prese un foglietto piegato dalla tasca del vestito “questo l’ha disegnato quando aveva tre anni, il giorno in cui il mio compagno venne ricoverato. Lo fece seduto nella sala d’aspetto. Fu l’ultima cosa che il mio compagno vide prima di…”. Il volto della donna si rabbuiò per un momento poi proseguì: “Da quel momento in poi non ha fatto altro che disegnare e dipingere ad ogni occasione”. 

Giovanni prese il foglio e lo guardò. Ritraeva un cavallo disegnato in modo assolutamente perfetto. I dettagli, i muscoli del collo, la criniera. Sembrava una fotografia. Giovanni era assolutamente esterrefatto dalla bravura di questo bambino che non poteva avere più di sei anni. Quando aveva la sua età, suo figlio era solamente in grado di allacciarsi le scarpe da solo, ed infatti era cresciuto buono a nulla. 

Stava ancora meditando su queste cose, quando un’ombra passò rapidamente sul suo campo visivo. Una scia di fumo tagliò in due il cielo ed un oggetto si schiantò esattamente al centro del suo campo, lasciando un solco profondo ed un piccolo cratere dove l’oggetto si era schiantato. Il suo cervello ci mise qualche secondo per riprendersi dallo shock, ma poi realizzò il disastro appena compiuto. Cominciò a correre verso il cratere, insieme alla donna. Una volta arrivati, videro che l’oggetto era conico, con una base convessa ed una bandiera americana sul fianco, insieme alla scritta NASA. Subito dopo essere arrivati, un grosso paracadute si afflosciò sull’altro lato, staccandosi poco dopo e raschiando il terreno mentre veniva trasportato via dal vento. 

“Una capsula spaziale!” esclamò la donna. 

Giovanni si avvicinò con prudenza alla capsula che ancora scottava. Aprì con delicatezza lo sportello e dall’interno si udì una voce che parlava una lingua a lui sconosciuta, ma si capiva bene che era sofferente. La donna si avvicinò ed evidentemente lei parlava quella lingua, perché cominciarono a scambiarsi delle frasi. La donna si voltò verso di lui: “È un astronauta americano della missione Starweed, la caduta deve avergli procurato delle ferite gravi perché non è in grado di muoversi. Io non sono un medico, non so cosa fare” 

Anche Giovanni non lo sapeva; da poco erano stati immessi in commercio dei dispositivi che ti consentivano di telefonare anche in mezzo al niente, e con uno di quegli affari avrebbe potuto chiamare i soccorsi; ma erano ancora troppo pochi e troppo cari e Giovanni non sapeva cosa farsene.

All’improvviso, la capsula fu circondata da un numero impressionante di fuoristrada verde oliva con delle targhe strane, seguiti a breve distanza da un camion con argano. Tutti intorno alla capsula, tutti sul suo campo. Dalle auto scesero un numero impressionante di militari equipaggiati di tutto punto, seguiti da qualche medico in camice bianco. Aiutarono l’uomo ad uscire dalla capsula che guardandoli riuscì solamente a mormorare un “Thank you so much!”, lo caricarono su un fuoristrada dopo averlo visitato velocemente, il camion sollevò e caricò la capsula, insieme al paracadute. Nel giro di quindici minuti tutti i fuoristrada ed il camion erano spariti, lasciando un campo devastato ed un signor Giovanni in lacrime. La donna si avvicinò a lui e disse: “Mi hanno detto di darle questo”. 

La donna gli porse un biglietto che riportava questa frase: “Grazie per la sua collaborazione. Provvederemo a rifondere i danni subìti dalla sua proprietà. Per favore, contatti l’amministrazione locale delle forze armate statunitensi e gli dia questo cartoncino, provvederanno a tutto loro” 

Le lacrime fecero spazio ad un largo sorriso. Il suo campo era salvo, almeno a partire dall’anno prossimo. Si voltò verso la donna e la invitò a pranzo insieme a suo figlio. I due accettarono di buon grado e così si incamminarono verso la cascina. Avrebbero avuto molto di cui parlare.

Beppe Carta





Era la tipica domenica d'ottobre 
Il cielo era grigio e l'unica cosa che intendevo fare era prepararmi il caffè per poi tornare a letto a leggere 
Nella mia testa pregustavo già il momento. 
I cuscini sistemati a dovere, la coperta morbida e calda e "il mondo di Sophie", un libro che avevo iniziato a leggere almeno 3 volte ma che non riuscivo a farmi piacere a sufficienza per finirlo, quando all'improvviso degli spari mi fecero sussultare 
Era il mio vicino di casa, un contadino vecchio stampo e un po' ottuso che tutti gli anni, all' inizio della stagione di caccia, imbracciava il fucile e sparava a qualsiasi cosa si muovesse 
Lo odiavo!!! 
Così, visto che concentrarmi sulla lettura era pressoché impossibile, decisi di fare ciò che mi proponevo da tempo, andare a Volterra a visitare il museo etrusco 
Era da quando avevo letto il libro di uno dei miei autori preferiti, Valerio Massimo Manfredi, che desideravo andare a vedere una cosa in particolare, ovvero la piccola statua chiamata "l'ombra della sera" 
Oggi è il giorno perfetto mi dissi e Volterra dista poche decine di km da casa mia 
Così mi preparai, prima di uscire misi i croccantini a Macchia e Yoghi che altrimenti al mio rientro, permalosi come sono, mi avrebbero miagolato per 2 ore indispettiti. 
Salii in macchina e feci partire il solito cd 
"anche oggi mi sono scordata di prenderne un'altro a casa " dissi a voce alta come per giustificare la mia sbadattaggine 
"I migliori anni della nostra vita, stringimi forte che nessuna notte è infinita... " cantare e guidare mi dava un senso di pace, sopratutto quando lo facevo col volume altissimo e a squarciagola 
Arrivai al parcheggio poi, seguendo le indicazioni, mi incamminai verso il museo quando delle note struggenti mi fecero fare una deviazione 
Seduto su un piccolo sgabello c'era un uomo sulla cinquantina, aveva un bel vestito anche se un po' logoro, era alto, magro con dei bellissimi riccioli neri, gli occhi profondi e malinconici 
Col suo violoncello intratteneva due o tre passanti anche loro, come me si erano fermati per ascoltare quella musica suonata meravigliosamente 
Davanti a lui la custodia aperta del suo strumento musicale e un cartello: 
"Mi chiamo Carlo, sono un musicista, ho suonato in quasi tutti i maggiori teatri del mondo, ero felice e appagato 
Il destino mi ha tolto tutto 
Non ho più niente, solo il mio violoncello 
Spero di rendervi felici con la mia musica" 
All'improvviso mi sentii molto triste e cercando di non dare troppo nell'occhio misi 2 pezzi da 20 nella custodia e andai via 
Le note mi accompagnarono fino all'ingresso del museo 
Pagai il biglietto ed entrai 
Ogni volta è come se venissi trasportata magicamente in un luogo senza tempo 
Mi piace andar per musei, leggere tutte le descrizioni, le date e cercare di immagazzinare più nozioni possibili 
Presa dalle mie considerazioni non mi resi subito conto della voce stridula che arrivava dalla sala accanto 
"basta per piacere, non puoi guardare e stare zitto!" 
Era una signora anziana a parlare, accanto a lei un bimbo che avrà avuto sì e no 6 anni 
Rimango impressionata dal suo vocabolario forbito, sembra di sentir parlare un professore universitario
"vedi nonna, questa statua denominata 'ombra della sera' risale al terzo secolo a.C. le fattezze potrebbero farla sembrare di un artista contemporaneo visto le proporzioni" 
Il piccolino continuava a parlare sciorinando una cultura impressionante da vero e proprio bambino prodigio 
La nonna accortasi di me e del mio sguardo incredulo mi fece un mezzo sorriso e quasi giustificandosi mi disse : 
"è mio nipote, la madre è fuori per lavoro e mi tocca tenerlo per una settimana 
Tutti dicono che è un genio, secondo me è solo un mostriciattolo pedante" 
Il bimbo continuava a parlare incurante del commento, come fosse isolato nel suo mondo fatto di nozioni e storia 
Quella nonna antipatica e anaffettiva mi mise di malumore così decisi di uscire 
"forse nemmeno oggi è la giornata giusta per dedicarmi ai musei" pensai! 
Appena fuori mi diressi verso l'angolo dove c'era il musicista disoccupato 
"Carlo, se mi suoni qualcosa di allegro ti porto a pranzo fuori " gli dissi tutto d'un fiato 
Andammo in una trattoria lì vicino e tra un bicchiere di Chianti e una ficattola con la finocchiona mi raccontò di come da professionista appagato si ritrovò a suonare per le vie della sua città 
Vedi, mi disse, ero molto spesso fuori per lavoro e quando tornavo mi dedicavo alla famiglia e al mio hobby, la moto 
Appena avevo un po di tempo mi chiudevo in garage per smontarla, ripararla e pulirla 
Mio figlio più grande aveva la mia stessa passione così a volte, anche contro il parere di mia moglie, uscivamo insieme e ce ne andavamo noi due soli a scoprire la campagna qui intorno 
Angela aveva sempre paura potesse capitare qualcosa e quella mattina era più ansiosa del solito ma ormai avevamo programmato le tappe e Giacomo non me lo avrebbe perdonato se fossi andato senza di lui 
Era una bellissima domenica autunnale proprio come oggi 
Il motore cantava allegramente mentre noi parlavamo della scuola e della ragazza del terzo banco, quella carina chi gli faceva gli occhi dolci 
Il tono della sua voce cambiò all'improvviso 
"Accadde tutto in un attimo" proseguì 
"una macchina velocissima sbucò dalla curva, aveva perso il controllo e ci prese in pieno 
Non ricordo nulla, solo che mi svegliai all'ospedale da solo 
Per rimettermi in piedi ci vollero due mesi 
Da allora cambiò tutto 
Mio moglie mi addossò tutta la colpa e non la biasimo per questo, se le avessi dato retta nostro figlio sarebbe ancora vivo"
Abbassò lo sguardo e rimanemmo in silenzio per pochi interminabili minuti 
Riprese a parlare con un filo di voce 
"Andai via di casa, trovai un piccolo appartamento in affitto ma non mi rassegnavo a quello che era successo, così iniziai a bere per stordirmi e non pensare 
Non andavo alle prove o arrivavo in ritardo e ubriaco così mi cacciarono dall'orchestra 
Questo è tutto, ora sono senza un lavoro e senza una famiglia, sopravvivo grazie alla generosità delle persone 
Ho solo pochi attimi di felicità 
Quando suono e quando vado davanti alla scuola di Matteo, mio figlio più piccolo, per vederlo uscire prima che salga in macchina dove lo aspetta mia moglie per portarlo a casa" 

"sai, lui è una specie di bambino prodigio" aggiunge 
Legge da quando aveva 3 anni ma non cose da bambini 
È affascinato da tutte le materie umanistiche ma sopratutto dalla storia antica 
La sua passione sono gli Etruschi" 
Lo fermo! 
"Credo di averlo incontrato oggi", gli dico 
"Era al museo con la nonna" 
Accenna un sorriso 
"È Giovanna la megera, io chiamo così la mia ex suocera, a dirla tutta la chiamavo così anche prima" mi dice ridendo poi aggiunge, 
"è una donna strana, anaffettiva 
Mia moglie mi raccontava che non le aveva mai dato un bacio, nemmeno da piccola"
 
"Credo di averti annoiato" 
"Assolutamente no", rispondo prontamente, "starei ad ascoltarti per ore ma temo che il ristorante stia chiudendo" dissi guardando i camerieri che sparecchiavano e spazzavano il pavimento 
Eravamo rimasti solo noi 
Uscimmo e ci salutammo con un abbraccio come fossimo due vecchi amici 
"torna ti prego, non parlo mai con nessuno e tu sei così carina ad ascoltarmi" 
Poi, sussurrandomi in un orecchio mi disse : "la prossima volta ti racconterò di quando da ragazzino vivevo al circo con i miei genitori, mio padre era un trapezista!" 

Antonella Carta





La tradizione in India era che i trapezisti iniziassero i loro allenamenti all’alba, prima che il grande calore rendesse fiacche le membra e insicure le loro menti. 
Solvig aveva finito da qualche mese le riprese del film che l’aveva resa famosa, una specie di fiaba in bianco e nero in cui un angelo cadeva dal cielo, diventava uomo, girovagava per la città, si innamorava di una trapezista, declamando riflessioni profonde sul senso della vita. 
Il film era stato un successo di critica e pubblico, ma Solveig si era stancata presto di tutto quel chiasso mediatico ed era fuggita in oriente. Non avrebbe mai potuto permetterselo, con quello che guadagnava nei circhi di seconda categoria. 

Da quando era in india, Wim, Il regista, la chiamava spesso. Voleva girare il sequel dell’angelo: “pensavo a un titolo facile, per esempio: il cielo sopra Torino. Hanno già fatto una canzone, ho immaginato che il gruppo che l’ha incisa potrebbe essere presente nella sequenza iniziale, e poi comparire ogni tanto” 
“Wim, non so neppure dove sia Torino” 
“te lo mostro su Google" 
ma Solveig aveva altro per la testa, doveva concentrarsi sul triplo salto mortale, e rinforzare i polpacci. La vita mondana l’aveva un po’ rammollita. 
“Scusa, ho pochissima batteria e sono in un villaggetto disperso nel nulla, devo riattaccare” 
Volteggiava tra gli alberi della foresta, tra foglie grandi come un ombrello e uccelli multicolori che smettevano di cantare quando lei gli saettava accanto, sudata e felice. Si era costruita un complicato meccanismo con carrucole e corde di liane intrecciate per raggiungere le vette del cielo, viveva in una casupola di pochi metri quadri e si faceva la doccia sul retro del cortile con una scodella di acqua piovana. 
Aveva affittato l’abitazione di cartone e lamiera da una vecchia molto taccagna, che le aveva chiesto un affitto esorbitante. 
“ma non c’è neppure il bagno” aveva protestato Solveig 
“il campo, c’è il campo” aveva risposto la donna. Sorrideva con le gengive, agitando le braccia rinsecchite luccicanti di braccialetti. 
“Non lo chiedo per me, ma per i miei cinque nipotini, la mia unica figlia è fuggita con un brasiliano e me li ha lasciati sul groppone” 
Solveig però non vedeva bambini in giro: erano forse a scuola? 
“No” aveva risposto la nonna “sono al lavoro nella fabbrica di tappeti” 
Al lavoro? MA quanti anni avevano? 
“il più grande ha 12 anni e il più piccolo 4, vivono nella fabbrica del signor Gupta, che li nutre e li protegge, così non corrono pericoli, povere creature” aveva risposto orgogliosa la nonna. 
Solvieg scrutava il volto della vecchia, cercando una direzione che le permettesse di non cadere nella dimensione giudicante occidentale. 
Sentiva intorno a lei il canto vibrante degli uccelli nella foresta, l’armonia del cosmo le penetrava nel sangue, raggiungendo le sue membra muscolose. 
“questa vecchia deve schiattare” aveva pensato. 

Vedeva spesso il contadino con il fucile girovagare nei paraggi. Forse era interessato all’arte circense, oppure era attratto dalle sue cosce nude. Quella mattina cadeva una pioggia sottile, le liane erano scivolose e Soleveig si sentiva vagamente depressa. 
La vecchia non si era ancora vista, probabilmente dormiva ancora, mentre i suoi nipotini si erano svegliati alle quattro per iniziare la loro giornata di lavoro di sedici ore. 
“Salve” aveva detto il contadino. 
“Salve” aveva risposto Solveig, notando per la prima volta che il ragazzo aveva al massimo vent’anni e non era male, portamento elegante, denti bianchissimi e carnagione color torta di cioccolato ben cotta.
Era scesa per fare quattro chiacchere: 
“come mai vai sempre in giro con quel fucile? “ 
“Difendo la zona da animali feroci, lo faccio per hobby, quando non ho niente da fare nei campi. Nei tempi morti” 
“Che tipo di animali feroci ci sarebbero, da queste parti? “ 
“Oh di tutto, serpenti, tigri” 
Il ragazzo fissava le sue gambe tornite, sorridente, con le perle immacolate al posto dei denti. 
“il punto è” aveva detto Solveig “che io non sopporto l’idea di quei bambini rinchiusi nel capannone dei tappeti” 
“lo trovi strano, capisco. Per voi è inconcepibile, ma qui è normale” 
Aveva l’aria pacifica, con il suo fucile a tracolla e il sorriso più dolce del mondo, ma a Solveig ricordava Lo stesso il primo della classe che ti spiega una lezione a te che ti sei distratto, perché sei un coglione e pensi solo al divertimento. Si era sentita fieramente occidentale: 
“ragazzo, guardami bene: tutto questo misticismo di merda, le pagode, le bandierine, Ganesh e compagnia bella, non servono a niente se si imprigionano i bambini, e li si fa lavorare come schiavi.” 
E se ne era andata nella casupola, sbattendo la porta di lamiera così forte che a momenti veniva giù il tetto di paglia. Quasi quasi faceva le valige, chiamava Wim, e gli dava appuntamento a Torino o come cazzo si chiamava quel posto sperduto. 

Ma non era partita. Si era messa di impegno, in fondo era anche un’attrice, oltre che trapezista. 
Nel giro di una settimana si era data da fare e aveva attivato una tresca con il contadino, rendendolo suo alleato. Lo aveva introdotto ai diritti umanitari, e alla protezione dei minori, con lezioni sempre più intense e raffinate. Alla fine, lo aveva convinto a passare all’azione. In una notte di luna nera, si era arrampicata sul tetto del capannone, aveva rotto un vetro del lucernaio, ed era scesa nelle viscere della fabbrica. 
Mentre il contadino con il fucile faceva la guardia sul retro, armato de suo fucile, lei aveva individuato i cinque fagotti che dormivano rannicchiati, tra la sporcizia e lo squallore. 
Per non spaventare i bambini, si era vestita come se dovesse andare in scena: body azzurro, paillette sparpagliate tutto il corpo e ali di velo che le penzolavano dalla schiena, una torcia rivestita di alluminio per alimenti per simulare una bacchetta magica. 
I bambini la fissavano sbalorditi, e lei, approfittando del loro stato di stupore sonnolento, li aveva convinti a farsi legare come salami. Il contadino, dall’esterno, manovrava con destrezza le corde e le carrucole, travestito da corsaro nero. 

E la nonna? Solveig l’aveva affrontata la mattina seguente, spiegandole che i bambini erano liberi e al sicuro, nella casa del contadino, che si era scoperto essere maritato con una giovane moglie di sedici anni incinta del primogenito. 
Solveig non aveva avuto problemi a convincerli per l’adozione, corrompendo contemporaneamente il capo del villaggio, un poliziotto, il proprietario della fabbrica. 
Praticamente aveva speso quasi tutto il suo compenso del cielo sopra Berlino. 
“non mi importa di quei marmocchi” aveva detto la nonna, mostrando indifferenza “i soldi che avevo guadagnato con la loro vendita me li sono già persi i tutti al poker”. 
Solveig l’avrebbe stesa volentieri con un pugno, ma si era detta che non ne valeva la pena. In fondo, si trovavano pur sempre nella patria di Gandhi. 

Solveig stava per atterrare in quel posto assurdo, Torino. La cittadina non sembrava poi così male, aveva un fiume azzurrino a serpentina, vie squadrate, qualche macchia di verde qua e là. 
Wim l’aspettava all’hotel, l’avrebbe presentata alla troupe, poi breve giro per la città, e per finire la cena con il gruppo musicale del cielo sopra Torino: 
“Vedrai, ti porterò a vedere una bella piazza, una delle più grandi d’Europa, e durante le riprese abiterai in una bella casa sulle pendici delle colline”. 
L’importante, per quello che la riguardava, è che nei paraggi ci fosse un circo dotato di trapezio.

Barbara Fiore



Lucida, lucida, lucida Gianni. Lucida che deve brillare, metti altro Sidol e ricomincia Gianni, lucida, lucida, lucida, anche se ti fa male il gomito, anche se ti tira il tendine. 
Lucida, lucida, lucida, che è il lavoro delle femmine, e se lo fanno loro lo puoi fare anche tu. 
Lucida e sta giù con la testa proprio come diceva la nonna Maria: sei buono solo a fare andare le mani, proprio come tua madre! La nonna Maria la sapeva lunga, lei sì che sapeva le cose, le sapeva tutte. 
Lei la vita l’aveva capita tutta, non come me e la povera mamma. 
Le pentole di rame le lucidavo tutte io, tutte le sere davanti al camino. Questo stupido camino che mangia legna come se fosse senza fondo. Avessi fatto il boscaiolo non l’avrei avuto no il problema del legno, proprio no. Ma solo il campo c’avevamo, che dovevo fare con le mie manacce inutili? 
Lucida, lucida Gianni prima che si spenga l’ultima brace, e poi farà troppo freddo anche per te, anche se c’hai la pellaccia, anche se dicono che i contadini ce l’hanno dura a morire. Non è vero niente, che di freddo si può morire e lo sai bene. 
Questa stupida casa, questa stupida vita, ma solo questa potevo fare. Le mani da contadino c’avevo, aveva ragione la nonna Maria, braccia forti e niente cervello come quello lì che se n’è andato e mi ha lasciato con la mamma. 
Non era colpa della mamma no, ma la nonna c’aveva ragione, che stupida è stata a farsi incastrare da uno così sparito in meno di un autunno lasciandole un figlio bastardo, che ero io il bastardo, sì io lo so, non c’ho mica vergogna. Io son il figlio bastardo e la nonna c’aveva ragione. Lei sì la sapeva lunga, la sapeva la vita, a lei non sarebbe successo. 
Però la mamma era buona non c’aveva la colpa, le era successo, lei si fidava troppo. E io che dovevo fare, io facevo quello che faccio adesso. 
Faccio quello che mi dice la nonna, lucido, lucido, lucido, col Sidol che è ancora l’ultimo barattolo che m’aveva comprato la mamma. Ma devo smettere di accalcarmi sti pensieri che poi non lucido bene, che mi bruciano gli occhi e non vedo, che l’acqua col sale non fa bene al metallo e non la posso mischiare col Sidol. Che se mi si bagnano gli occhi non vanno le mani, e le mani sono l’unica cosa che so fare andare. 
Stupido Gianni che non c’hai il controllo né della tua testa né del tuo corpo, lucida, lucida, lucida, che c’hai grandi cose da fare domani mattina e devi finire prima che l’ultima brace si spenga. 
Che poi non c’hai colpa Gianni se le cimici cinesi ti hanno distrutto il mais, e se le vespe samurai non ce l’hanno mica fatta, e tu da tordo c’hai speso gli ultimi soldi che c’avevi. È che c’hai l’anatema del figlio bastardo, a te non ti può andare bene niente, e le mani forse non son buone nemmeno pei campi, forse giusto lucidare puoi. 
Come quando c’avevo sette anni che il Maestro Roberto c’aveva detto alla mamma che io alla lezione di musica ero tipo quel tedesco pazzo, quello dei libri con le righe sottili, quel Mozart, perché il maestro Roberto c’aveva pensato che queste manacce da contadino ci potevano suonare al pianoforte. 
La mamma era stata contenta, Giannino vuoi suonare il pianoforte? Ma la nonna c’aveva avuto ragione lei, che non c’aveva senso che non era vero che ero buono e che comunque c’avevo il campo da fare andare ora che il nonno era morto, e la mamma non aveva saputo tenersi un uomo. 
Che poi non è vero che mi piaceva suonare, il maestro Roberto era bravo con me ma i bambini mi ci chiamavano bastardo sottovoce una volta che avevo finito il pezzo, e io che c’ho l’orgoglio di esserlo non mi importava niente, ma comunque non mi piaceva suonare, non così tanto. 
Io c’ho le mani per far le cose rudi non per far le cose da signorina, e infatti la dimostrazione è quanto splende questo pezzo di metallo che c’ho tra le mani, che finalmente l’ho lucidato fino a finire la bottiglia di Sidol della mia cara mamma. 
Che ora manca solo da caricarlo, che c’ho speso gli ultimi spicci che c’avevo perché domani è il giorno in cui vado a fare il botto con questo. 
Col fucile del nonno ci vado alla banca, e alla mamma non ci piacerebbe e piangerebbe tanto, ma ormai ho capito che c’aveva ragione la nonna, ci dobbiamo prendere tutto quello che possiamo, perché nessuno ci da più niente. 
E io domani vado lì e non glieli chiedo io i soldi, cara mamma, glieli chiede il fucile del nonno, che ora luccica come i tuoi occhi, ma profuma di Sidol proprio come la nonna. 

Marina Alice Cibin



Lo sapevo! 

Non smette di piovere da ieri sera ed in questo bosco cittadino così fitto si sente l’odore tipico della terra bagnata, più intenso quando trova un suolo di partenza più secco a causa della siccità, che adoro e mi fa ricordare quando con tutta la famiglia ci avventuravamo ogni anno per la prima volta a raccogliere castagne. 

Peccato che abbia il fango fino al ginocchio e che per muovermi di mezzo metro impieghi 5 minuti. 

Maledetti lavori socialmente utili! 

Noi supereroi non siamo tutelati dalla legge: salviamo le persone, facciamo buone azioni e poi... basta passare col rosso ad un semaforo aereo durante l’inseguimento di un criminale e zac… vieni punito. 

Non c’è più giustizia. Per di più c’è anche un testimone, il tecnico che stava osservando la migrazione programmata degli sciami di 10 specie protette dalla Comunità dei Pianeti Alleati. 

2692 mosche tzè tzè, 957 api blu, 562 cavallette del Mar del Nord, 103 zanzare sorridenti: questi sono i numeri di piccoli animaletti ed insetti che avrei ucciso, secondo il rapporto della polizia. 

Del tutto involontariamente! E non mi ha aiutato provare a spiegare a chiunque che stavo inseguendo un ragazzo che aveva buttato la plastica nel cassonetto dell’umido del palazzo dei vicini. Io sto sempre dalla parte dei più deboli. 

La conseguenza? Ogni 27 del mese per i prossimi 2 anni e 3 mesi, la Fata ufficiale della Questura mi toglie ogni potere. Non posso più volare, non ho più forze particolari, non vedo al buio. 

La stessa fata mi fa recapitare a casa qualche giorno prima un bigliettino con scritto sopra un luogo ed una persona: il primo mese, per esempio, il biglietto diceva “musicista disoccupato – Orient Express”. 

Al ristorante Orient Express del quartiere Sarpi ho trovato un ragazzetto giapponese piangente sul tetto del piccolo edificio, tremante e col suo sassofono in mano. 
“Hey tu!” – ho urlato. 
Nessuna risposta. 
“Scendi!” 
Nessuna risposta. Ma ho visto volare vicino a me il sassofono. 
Sono riuscito finalmente a salire sul tetto e, dopo alcune ore, a convincerlo a non buttarsi. 
Scendere le scale, la prima volta, e trovarsi di fronte la nonna di Al – cioè del ragazzetto – che avevo nel frattempo scoperto essere la causa principale della sua depressione, mi aveva lasciato un senso di meraviglia e di disperazione. 
La vecchietta compunta, con una lunga treccia bianca e degli occhialini tondi alla John Lennon, aveva uno sguardo triste ma allo stesso momento così pungente ed intenso, che io non riuscivo a sostenere. Eppure sembrava così indifesa. 
Indipendentemente dall’aspetto, Al mi aveva raccontato quanto lei fosse glaciale che non le avesse mai fatto un complimento, nemmeno quando lui era stato preso all’Accademia di Musica Interspaziale. Anzi, forse lei si era sentita abbandonata, a causa del conseguente trasferimento. 
Insomma, dopo un breve scambio di frasi con lei, in men che non si dica eravamo tornati entrambi sul tetto. Quella giornata è stata un duro e lungo salire e scendere, tra il tetto e la nonna. 

Questo mese, invece, è capitato “Boschetto di Rogoredo - trapezista”. 
Ma cosa sarà venuta a fare una trapezista in un bosco il 27 del mese? Raccogliere castagne? Fare esercizio col trapezio appeso ad un albero? Sperperare il suo stipendio in droghe? 

Mentre bestemmiavo contro il mondo e contro le mosche tzè tzè, ho sentito un urlo in lontananza alle mie spalle. Un “Banzai” così lungo che mi sono voluto girare per capire cosa stesse succedendo. 
Un signore con un fucile stava correndo nella mia direzione. 
Ho scoperto che è così facile camminare nel fango, se trovi un appiglio alla James Bond, ne salti fuori e corri più veloce possibile, alla Taz. Qualcuno mi disse, davanti al cartone animato, “Certo, maggiore è la velocità perpendicolare alla superficie mentre corri, minore è la forza che applichi sulla superficie stessa. La somma delle forze rimane pari a zero e quindi il sistema rimane in equilibrio!” 
Ed io non ci avevo creduto. Fino adesso. 
Dopo alcuni meravigliosi metri, con un altro balzo mi sono aggrappato ad un ramo di un albero con due mani, fatto due giri carpiati, per poi lasciarmi andare e cadere in piedi in equilibrio su un altro ramo.
“Bravo” – disse una voce alle mie spalle. 
Eccola lì, la trapezista! 
“Hai visto anche te il contadino impazzito? Sembra che questi alberi di castagne siano suoi e che, non riuscendo a trarne profitto a causa dei ladri di castagne e del giro di drogati, sia impazzito e vada in giro urlante e sparando a chiunque veda. Sta riuscendo in quello che anni di retate di polizia non hanno fatto...” – rise sorniona – “Io cercavo una dose, ma non sono proprio riuscita a trovare nessuno”. Si fermò un attimo e mi guardò finalmente dritto in faccia: “Sei uno sbirro?”.
Io, che stavo cercando di riprendermi dalla forte fitta alla schiena sopraggiunta dopo il salto, risposi con un veloce “no, no”. Forse però avrei dovuto cambiare lavoro. 
“Vuoi un po’?” – disse la trapezista porgendomi la canna che stava fumando – “Intanto mi accontento di questo.” 
Perché no? 
Passammo tutta la sera a ridere e a scherzare. 
“Sei bravo nei trick. Io ho bisogno di un partner lavorativo. Vieni ad allenarti con me domani.” 

In quel momento sentimmo di nuovo il “Banzai” del povero contadino sotto i nostri piedi. 

Perché no? Forse è proprio il momento di cambiare lavoro.

Marianna Palmerini



Anja cullava il piccolo tra le braccia sottili. Lui si lamentava piano cercando cibo e rifugio tra i seni  vuoti di lei.
"È tardi, fallo smettere" spuntò la testa assonnata di Vladi al fondo della roulotte.
"Ha fame"
"E chi non ne ha?"

La pioggia spazzava il campo da più di una settimana. Ruote e gabbie affondavano nel fango, artisti stanchi e animali infelici vivevano bloccati in un incubo grigio ed umido. Il tendone, colorato feticcio di un orgoglioso passato, era un fradicio colabrodo ripiegato su se stesso.
All'angolo della strada i manifesti si scollavano e finivano a sbriciolarsi sull'asfalto. Non che servissero a qualcosa ormai. Il tempo infame era solo l'ultimo chiodo sulla bara di un Circo che nessuno amava più.

Anja, tutta ossa e niente latte, cercava di convincere il bambino a succhiare una sottile fetta di mela. Vladi, che aveva rinuciato a prendere sonno, stendeva i muscoli all'interno dello spazio angusto.
"Devo continuare a tenermi in forma," diceva lui "la pioggia prima o poi finirà e io tornerò sul trapezio".
"Sei così magro" rispondeva lei, osservando il corpo ogni giorno più fragile del fratello. 

Un timido pugno bussò alla porta di lamiera. 
"Questa notte non dorme nessuno" disse Vladi andando ad aprire.
"Che ci fai qui?" chiese a un'ombra fradicia con i piedi nel fango e una fisarmonica sotto il cappotto.
"Non sapevo dove altro andare" gli rispose.
Lui l'avrebbe lasciata volentieri là a sciogliersi in una pozzanghera e sparire nella terra. Che a sparire lei era tanto brava. Ma, dal fondo della roulotte, arrivò a entrambi la voce di Anja: "Entra pure mamma, avevo proprio voglia di un po' di musica".

Jane Pancrazia Cole

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