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Ognuno di noi ha piccoli progetti, piccole sfide, cose che amerebbe fare ma che, per un motivo o per un altro, tende a rimandare, con la scusa della mancanza di tempo, di opportunità o dell'adeguata congiunzione astrale.

Io, ovviamente, non faccio eccezione e, in particolare, conservo accuratamente nel mio capiente cassetto del "vorerei ma non posso" diverse letture impegnative che mi spaventano e che quindi ho sempre rimandato a data da destinarsi.

Data che, però, con il sopraggiungere della quarantena, sembra finalmente essere arrivata e, con essa, il momento del "non ci sono più scuse". Ed è dunque questo il momento in cui, finalmente, mi sono decisa a cominciare a leggere l'imponente: Guerra e Pace di Tolstoj.

Ma visto che i progetti faraonici non vengono mai da soli ho, altresì deciso, di documentare questa mia avventura russa su Instagram con stories giornaliere in cui racconto impressioni, facezie, e personaggi interessanti. Quindi se volete vivere con me, per interposta persona, questo viaggio nella miglior letteratura russa di tutti i tempi, seguitemi su Instagram. Ne varrà la pena. Spero.

Il tempo passa, questa bella avventura del Laboratorio continua, ed è arrivato il momento del Sesto Esercizio.

Già per due volte, durante questo percorso, siamo partiti da un incipit per raccontare una storia, questa volta invece proveremo un approccio completamente diverso: scriveremo una storia sapendo già dove andrà a finire.

Questo sarà il finale dei vostri racconti:
Mi chiusi la porta alle spalle e questa volta, per sicurezza, diedi anche due mandate.
Che sia un racconto (appunto) o una poesia, un flusso di coscienza, una pièce teatrale o un trattato di astrofisica, qualunque sia il testo che decidiate di scrivere, l'ultima riga dovrà essere quella qua sopra.
Come ci arriverete? Quale sarà l'inizio e lo svolgimento?  Decidetelo voi e sorprendetemi!

Ovviamente, come sempre, può partecipare chiunque.
Buona scrittura!

Tipo di testo: qualsiasi (racconto, poesia, flusso di coscienza, etc…).
Lunghezza testo: dai 100 ai 3600 caratteri, spazi inclusi.
Email: janecole@live.it.
Oggetto: laboratorio collettivo di scrittura.
Specificare nel testo dell’email se volete restare anonimi o meno, se volete essere taggati (su FB) o meno.
Scadenza per far pervenire il testo: domenica 5 aprile 2020, ore 12.

Volete leggere tutti i Racconti nati da questo esercizio? Li trovate qui.

Un solo incipit, tanti racconti ad opera di altrettanti autori.

La Scrittura a Tempo anche questa volta ha dato ottimi risultati, e i partecipanti al quinto esercizio del Laboratorio Condiviso di Scrittura sono stati in grado di trasportarci in storie diverse e imprevedibili. La location è una sola: Roma. Ma i protagonisti sono diversi e, a volte, inaspettati.

Per leggere i diversi testi su Issu vi basterà cliccare qui, avrete a disposizione la "rivista letteraria" del Laboratorio con tanto di immagini azzeccate.
Se, invece, siete persone dall'esigenze semplici, trovate tutti i testi, in ordine di ricezione (il mio per ultimo, come sempre), a seguire. Nessuna immagine, solo ciccia di parole.


Lo vide in un angolo. Sedeva di fronte alla finestra e guardava le fronde degli alberi graffiare il cielo giallognolo di Roma. I capelli neri brillavano alla luce dei lampadari. Gli si avvicinò con cautela. "Mi scusi... – disse Romina avvicinandosi all’uomo – ecco la spremuta.” La donna provò disagio a disturbarlo, come se sentisse un’insistenza inesistente nel servirgli la bibita che aveva ordinato. E non perché l’uomo – sulla settantina, i capelli vistosamente tinti, il viso pieno di rughe – avesse dimostrato insofferenza. Romina era convinta che lui avesse molte cose importanti a cui pensare, lì, nella caffetteria del secondo piano di un edificio storico di via Margutta. Lui la ringraziò, dopo essersi ripreso dai suoi pensieri per un solo secondo. Scostò il portatile per far spazio al tovagliolo e al bicchiere che Romina appoggiò sul tavolo e riprese la posizione iniziale: schiena dritta, mano davanti alla bocca, sguardo concentrato sull’imminente tramonto. A Romina piaceva il suo lavoro. Incontrava molta gente nelle sue giornate, turisti per lo più ma anche artisti e galleristi. Aveva l’impressione che ognuno di loro, dietro la richiesta di un caffè o di un aperitivo, celasse un invito per lei: vieni a vedere i miei quadri, vieni a ammirare le mie opere. E lei lo avrebbe fatto. Anzi, in qualche modo lo faceva, ogni giorno. Per questo quell’uomo, dai capelli forzatamente scuri, la incuriosiva. Chi era? Un artista? Un critico d’arte? Forse un collezionista. Tornò dietro al banco ma i pensieri dello sconosciuto sembravano le tirassero delicatamente il bordo del grembiule della divisa marrone. “Mi scusi…” si trovò a ripetere. L’uomo si destò una seconda volta e si girò verso di lei. La guardava con una punta di impazienza, o almeno le sembrava. “Sì?” rispose con voce serena e un accento toscano. Ora Romina doveva inventare qualsiasi motivo per giustificare la sua nuova interruzione.
Marika De Sandoli
Lo vide in un angolo. Sedeva di fronte alla finestra e guardava le fronde degli alberi graffiare il cielo giallognolo di Roma. I capelli neri brillavano alla luce dei lampadari. Gli si avvicinò con cautela. "Mi scusi...
padre, mi scusi…”. Il prete, assorto nella preghiera non aveva sentito avvicinarsi quella giovane donna dal passo leggero.
“Mi dica, posso aiutarla in qualche modo?”
“È lei il responsabile della cattedrale? Stavo cercando notizie su di un dipinto che dicono essere stato esposto qui per lungo tempo, prima della guerra.”
“Chi le ha raccontato questa storia?”, rispose il prete stupito, la bocca semi aperta come chi proprio non si aspetta una domanda simile, in un giorno normale, assorto nella preghiera.
“Sono una studiosa di storia dell’arte, ma questa storia me l’ha raccontata mia nonna: lei era nella resistenza partigiana e, una volta che Roma fu liberata dai nazisti, era venuta qui a pregare davanti a quel dipinto, ma non l’aveva più trovato. Adesso io lo sto cercando, per lei: è mancata poco tempo fa e io sento che devo vedere quel quadro, non fosse altro che per capire questo suo ricordo ricorrente”.
Il prete abbassò lo sguardo, la bocca adesso si era stretta in una smorfia mista tra dolore e rassegnazione.
“Cara ragazza, questa è una storia che solo poche persone possono conoscere, le racconterò quello che so. Ma a nessuno è dato sapere dove sia finito quel quadro. I partigiani non venivano in chiesa proprio perché erano credenti, sa? Ma anche gli uomini di fede come me in certe circostanze sanno mettere da parte i dogmi a favore delle necessità degli uomini e così facemmo. Arrivavano, di solito giovani donne, meno sospettabili, in bicicletta o a piedi, fingendo di pregare di fronte all’altare: poi, quando nessuno guardava, lasciavano messaggi sotto la cornice…”
Letizia Battaglia

Lo vide in un angolo. Sedeva di fronte alla finestra e guardava le fronde degli alberi graffiare il cielo giallognolo di Roma.

I capelli neri brillavano alla luce dei lampadari. Gli si avvicinò con cautela. "Mi scusi...”

“Arrivo subito” esclamò il giovane, non senza una certa stizza nel tono.

Sapeva a cosa stava andando incontro. Quattro mesi prima gli era stato conferito il compito ingrato di far fronte all’inquinamento dilagante nella capitale con un’idea da lui stesso sviluppata: un enorme macchinario che, utilizzando una tecnologia solo a lui conosciuta, poteva ripulire l’aria ed addirittura arricchirla di ossigeno.

I primi esperimenti erano andati magnificamente, così bene che la giunta della capitale gli aveva dato carta bianca per avviare la produzione del macchinario.

E così, dopo solo tre mesi dall’inizio della costruzione, il macchinario mangia smog era entrato in azione. Tutto bene, il primo periodo: l’aria era diventata decisamente più pulita, si respirava meglio, non era più presente quel nauseabondo odore di sottofondo che si percepiva distintamente quando si usciva di casa.

Poi, accadde. La tecnologia utilizzata dalla macchina si basava su un composto chimico che assorbiva lo smog e lo intrappolava nella sua gabbia molecolare. Ma nessuno sapeva che, una volta che il composto si fosse saturato di agenti inquinanti, avrebbe cominciato a funzionare al contrario, immettendo nell’atmosfera una quantità enorme di agenti inquinanti concentrati e mortali. Il vero problema è che non era possibile spegnerlo, perché le reazioni a catena che si sarebbero innescate avrebbero trasformato il macchinario in una pericolosissima bomba chimica.

E così, dopo più di un mese dalla messa in servizio del macchinario, Roma si ritrovò in una situazione peggiore di quella iniziale. E lui, il giovane e brillante scienziato, venne additato come unico colpevole di tutto questo disastro.

La sala consiliare del Municipio Roma I era gremita di gente che aspettava di vedere in faccia il colpevole di questo disastro, già pregustando le parole di odio e di rimprovero che sarebbero uscite dalla bocca del sindaco.

Ma non sapevano che tutto questo non sarebbe mai successo. Uno spaventoso boato fu percepito in tutta la città, seguito da un’onda d’urto che spazzò via la quasi totalità dell’abitato. Il macchinario aveva collassato, riducendo la città ad un ammasso di macerie, silenzio e morte.
Beppe Carta
Lo vide in un angolo. Sedeva di fronte alla finestra e guardava le fronde degli alberi graffiare il cielo giallognolo di Roma. I capelli neri brillavano alla luce dei lampadari. Gli si avvicinò con cautela. "Mi scusi...dottor Fioravanti?"
Un attimo di silenzio a lei sembrava un'eternità. Il suo viso pallido sentiva il calore sulle guance. I suoi capelli biondissimi non riflettevano la luce come lui sembrava assorbisse la luce. Nello studio la musica di Chopin rendeva tutto più delicato.
Lui si girò lentamente, con il comando vocale abbassò il volume della musica.
"Buonasera, lei chi è? Non avevo appuntamenti a quest'ora. Questa è l'ora di Chopin" un sorriso sornione si dipinse sul suo viso.
"Mi scusi tanto dottore, sono la dottoressa Tetti. L'infermiera mi ha detto che potevo entrare" le sue mani sudavano.
"Ahhh dottoressa Tetti! Prego si accomodi". Con un cenno della mano le indicò la sedia davanti alla scrivania.
"Sono venuta per ringr..."
"Per favore non dica nulla", la interruppe lui socchiudendo gli occhi.
"Dottore davvero ci tengo a ringraziarla"
"Non lo deve fare, ho fatto solo il mio dovere, ciò che anche lei avrebbe fatto"
"No!" Insistette Monica.
"Lei ha fatto molto di più"
"Non esageri la prego" controbatté lui seriamente.
"Lei mi ha restituito la fiducia nell'essere umano".
Lui non pronunciò altre parole. Rimase solo Chopin, rimase il tramonto oltre !a finestra e la gratitudine nella stanza. La porta si chiuse in silenzio.
Patricia Scioli

Lo vide in un angolo. Sedeva di fronte alla finestra e guardava le fronde degli alberi graffiare il cielo giallognolo di Roma. I capelli neri brillavano alla luce dei lampadari. Gli si avvicinò con cautela. "Mi scusi, Presidente: è ora.”
Giuseppe Conte era ancora assorto nei suoi pensieri e impiegò più di qualche secondo a rassicurare il suo interlocutore di aver recepito il messaggio. Stette alla finestra a osservare la città vuota, avvolta da un silenzio surreale: non l’aveva mai vista così. Eppure si sforzò di associare tale panorama ad un pensiero positivo, nonostante la drammaticità del momento: il popolo lo aveva ascoltato. La gente aveva capito che le limitazioni imposte alla propria libertà erano finalizzate a preservare le proprie vite: niente passeggiate, niente turismo, niente gladiatori davanti al Colosseo, niente cacio e pepe nei ristoranti del centro e della periferia, niente assembramenti di alcun genere: la guerra al virus si combatteva così.
Erano passati pochi minuti da quando aveva dato l’annuncio ai cittadini a reti unificate, nel quale si era raccomandato di stare a casa e di non uscire per alcuna ragione.
Uscì dai suoi pensieri e si ricordò dell’incombente da fare: lo odiava. Aveva il terrore di dimenticarsi sempre qualcosa, qualcosa di importante: scese, salì sull’auto blu e si fece accompagnare dall’autista al supermercato, sperando di riuscire a portare a termine l’arduo compito assegnatogli: fare la spesa per due mesi rispettando la lista datagli dalla moglie.
Fabrizio Cardaci
Lo vide in un angolo. Sedeva di fronte alla finestra e guardava le fronde degli alberi graffiare il cielo giallognolo di Roma. I capelli neri brillavano alla luce dei lampadari. Gli si avvicinò con cautela. "Mi scusi il ritardo. E’ molto che attende”. Lui si voltò a guardarla con un movimento meccanico e poi si alzo di scatto prendendole la mano. Sfiorò appena con la labbra il guanto immacolato che era stato del corredo di sua madre. “Si sieda e non si preoccupi del ritardo. L’aspetto da una vita”. Arrossì leggermente, per non sembrare sfrontata e si abbandonò sulla sedia mantenendo una posizione eretta. Badava a fatica a tutte le buone maniera imparate troppi anni addietro nei tre anni di collegio femminile. Poi lo guardò mentre lui la fissava. I loro sguardi si fecero intensi. Era sconveniente, lo sapevano ma continuarono ancora per qualche secondo. Era una donna bellissima anche se non più in età da marito. E la foto ingiallita recapitata con l’ultima missiva non le rendeva giustizia. Questo pensò mentre prendeva dalla tasca una carta sgualcita. “È andato bene il viaggio?”. Ma avrebbe voluto chiederle. “È sicura che vuole sposarmi?”. “Sì” – lungo e rassicurante – “la nave ha impiegato un giorno in più perché il vento non voleva saperne di placarsi mentre ci avvicinavamo alla costa ma io non soffro il mare”. Aveva sofferto la terra. Quella che ti inghiotte un marito nelle sue viscere. Quella che ti ruba gli affetti e ti fa credere che non ci sia un futuro. Senza genitori, con una dote ancora intatta ma senza futuro. Eppure ora che era davanti a sé aveva la sensazione che quel futuro avrebbe potuto essere migliore di quanto avesse mai pensato negli ultimi anni.
Anonimo

Lo vide in un angolo. Sedeva di fronte alla finestra e guardava le fronde degli alberi graffiare il cielo giallognolo di Roma. I capelli neri brillavano alla luce dei lampadari. Gli si avvicinò con cautela. "Mi scusi...
… potrebbe per cortesia indicarmi dov’è il bagno?”
“Certo, signore. Dopo quella porta in fondo, giri prima a destra e poi a sinistra, troverà le indicazioni.”

Mannaggia, pensò, che approccio cretino. Se non fossimo a una mostra almeno gli avrei potuto chiedere una sigaretta. Offrirgli un drink, che ne so. Tutti difficili me li trovo: non poteva fare il barista?

Si diresse nella direzione indicata. Voltato l’angolo, si portò la mano sulla fronte, fermandosi.

Sono stato troppo impulsivo. Avrei dovuto pensare meglio a come approcciarlo. Adesso si ricorderà di me, ho bruciato la magia del primo incontro. Spontaneità ce n’era, romanticismo poco. A meno di feticismi per i bagni pubblici…

Continuò in direzione del bagno. Una volta entrato, si sciacquò la faccia per rinfrescarsi le idee.

Per lo meno la mostra è interessante, potrei visitarla veramente, magari trovo l’ispirazione.

Il primo piano era dedicato a Monet e i suoi contemporanei. Salendo, di piano in piano il tempo procedeva fino ad arrivare a Picasso. Si gustò tutti i quadri, uno a uno, con un sapore misto tra interesse storico e curiosità sui particolari delle vite raccontate. E delle vite che raccontano. Arrivato alla fine, invece di prendere l’uscita, tornò indietro. Lo ritrovò al secondo piano, nel post-impressionismo. Un’espressione assorta lo rendeva ancora più affascinante.

Strano, di solito i guardiani stanno seduti su una sedia, sempre nella stessa sala, con un’aria annoiata. Sembrano sempre un po’ dei bruti.

Una donna gli si avvicinò e da lontano sembrò chiedergli dov’è il bagno. L’indicazione però questa volta non finiva mai. Pietro si avvicinò.
“… pensi che l’ha dipinto mentre era disperato per la morte del suo amante. È come un urlo disperato di invocazione alla gioia, affinché tornasse a riempire il suo cuore. Era un uomo molto razionale, anche se allo stesso tempo incredibilmente passionale.”

Cazzo, che idiota! Facendo finta di niente, sbirciò il badge che aveva appeso al collo. Curatore. Fantastico. Ho chiesto dov’è il bagno al curatore della mostra. Ottimo inizio.

Attraversò di nuovo le sale tra Cezanne a Picasso. Uscito sulla strada, si guardò intorno. Gli occhi si fermarono sul bar Lavanda dall’altra parte della strada. Decise di prendere tempo. Ordinò un caffè e, subito dopo, una birra. Erano le cinque, la mostra avrebbe chiuso in mezzora. Decise di aspettarlo, sperando che quella mezzora e un po’ di alcol portassero la fantasia e il coraggio di un approccio se non più intellettuale, se non altro meno barbarico.
Passata un’ora e tre medie, eccolo finalmente uscire dal portone. Pietro, finalmente pieno il cuore di sicurezza di sé, gli andò incontro.

Eviterò riferimenti a bisogni fisiologici, ma eviterò anche l’argomento mostra. Vedrà centinaia di visitatori ogni giorno, sicuramente non si ricorderà della mia gaffe.

“Buonasera.”
“Oh buonasera, l’ha trovato il bagno?”
“Oh sì, la ringrazio molto, le sue indicazioni sono state proprio utili, l’ho trovato subito.”
“Ne sono lieto. Anzi, la ringrazio di avermi rallegrato la giornata. Parlare sempre di arte e artisti dalla vita estremamente interessante e accattivante dopo un po’ mi annoia mortalmente.”
“Non c’è di che, non c’è di che davvero. Se vuole, ho molte altre domande a metà tra il fisiologico e il rozzo che la potrebbero salvare dall’abisso esistenziale. Le andrebbe un aperitivo?”

Si incamminarono verso il bar Lavanda.
Benedetta Bianchi

Lo vide in un angolo. Sedeva di fronte alla finestra e guardava le fronde degli alberi graffiare il cielo giallognolo di Roma. I capelli neri brillavano alla luce dei lampadari. Gli si avvicinò con cautela. “Mi scusi…”
Non fece in tempo a finire la frase che Glauco sussultò, riducendola al silenzio. Non fu proprio un sussulto, a dire il vero. Fu più una sorta di ruggito, un boato, uno sconquasso rinofaringeo, un… insomma, Glauco russò. Prepotentemente.
Neva rimase a guardarlo affascinata. Come sempre, aveva interpretato male i segni. Glauco non stava ammirando il cielo, non era perso in profondi pensieri filosofici sulla condizione umana ma, semplicemente, era sopraffatto da una lenta digestione. Questo particolare le fu confermato dall’inserviente: “si è mangiato un piattone di pasta e poi è svenuto!”
Sorrise e decise di non svegliarlo. Sarebbe tornata il giorno dopo, e senza dubbio lo avrebbe trovato di nuovo alla finestra.
“Cara Neva, non potrei mai stancarmi di guardare il cielo. È imprevedibile, anche se sappiamo sempre come va a finire.”
“Come?” chiese Neva, sempre pronta a sollecitare le sue opinioni e le sue confidenze.
“Nel blu profondo della notte, cara Neva. Il cielo finisce sempre in un blu profondo.”
L’inserviente li osservava, appoggiato allo stipite della porta. La relazione tra quei due era per lui un curioso diversivo nella routine alienante della residenza per anziani. Glauco, con i suoi 80 anni, era tra gli ospiti più giovani. Il tempo aveva lavorato bene su di lui e l’unica nota stonata del suo aspetto era frutto di un deliberato vezzo vanesio: tingersi i capelli di nero corvino. Tuttavia, quell’incongruenza era il comune denominatore con Neva, giovane donna di bassa statura e fisico morbido, la cui pelle diafana era messa in risalto da una lunga chioma rossa. Mirko li aveva soprannominati belli capelli e non perdeva occasione di origliare le loro conversazioni e commentarle con gli altri inservienti.
“Oggi le ha tirato una supercazzola di mezzora sui cumulonembi e lei stava lì a bersi ogni parola! Quella è matta! Sai che sono i cumulonembi? Nuvole. Mezz’ora a parlare di nuvole!”
“Oggi è arrivata, gli ha portato un pomodoro. Un pomodoro! E lui le ha baciato le mani e poi le ha messo il pomodoro sulla testa. Le diceva “Visto che il colore è lo stesso?”. E lei rideva, dovevi sentirla come rideva!”
“Oggi gli ha portato un libro e lui non l’ha neanche voluto prendere in mano. Sai che glielo ha fatto portare via? Poverina, mi ha fatto pena.”
“Oggi sono stati in silenzio per un’ora a guardare il cielo. Quando si è fatto buio, lei gli ha sorriso e se ne è andata. Oh, non si sono detti una parola…”
Sulla metro che la portava a casa, Neva accarezzava le pagine di un libro. La signora accanto a lei ne sbirciò la dedica: “A N., luna della mia notte”. “Certa gente scrive un sacco di fesserie” pensò tra sé e sé, scendendo in tutta fretta alla fermata Tiburtina.
La Peppa
Lo vide in un angolo. Sedeva di fronte alla finestra e guardava le fronde degli alberi graffiare il cielo giallognolo di Roma. I capelli neri brillavano alla luce dei lampadari. Gli si avvicinò con cautela. "Mi scusi”, disse alle sue spalle.

L’uomo si voltò. Le sopracciglia alzate in un muto fastidio mentre gli occhi, da dietro una montatura leggerissima e alquanto costosa, la osservavano spietati dall’alto in basso, dalla testa corvina ai piedi calzati in un paio di sneakers.

“Mi scusi” ripeté.
“Cosa vuoi ragazzina? Non ho soldi da darti”
Lei lo guardò stupefatta e offesa. Aveva impiegato ore a decidere cosa indossare per l’occasione. Niente di nuovo o elegante dato che non poteva permettersi nulla del genere, ma comunque tutto pulito e stirato con cura. E, invece, lui l’aveva appena scambiata per una stracciona.
Le cose non stavano andando come se le era immaginate mille volte.

“No, non ho bisogno di soldi” disse cercando di non lasciarsi scoraggiare. “Ma di qualche minuto della sua attenzione. Dovrei parlarle…” lui agitò una mano in cerca di una cameriera che l’aiutasse a scacciarla, ma lei non si sarebbe fatta mandare via né tantomeno interrompere. Aveva studiato il piano da settimane. Sapeva che era impossibile prendere appuntamento con lui in ufficio. Ci aveva provato, eccome se ci aveva provato, ma la sua segretaria altezzosa l’aveva respinta diverse volte, minacciando persino di chiamare i carabinieri. Si era quindi decisa a cercare di avvicinarlo in un ambiente neutro ma anche in quel caso pareva difficile trovarlo da solo, circondato com’era sempre da autista, guardia del corpo, o giornalisti. Difficile ma non impossibile. Nelle settimane precedenti, osservandolo con attenzione, aveva scoperto che, ogni giorno alla stessa ora, si recava per un bicchiere e un piattino di deliziosi dolcetti in un esclusivo Circolo in una zona più che esclusiva. Lei ci aveva messo giorni ma alla fine era riuscita a fare amicizia con il lavapiatti del locale, un tale Giulio con un florilegio d’acne che si poteva giocare a unire i puntini. “Hai solo un’occasione”, le aveva detto il ragazzo, dopo essere stato adeguatamente corrotto con una pulizia viso nel salone dalla miracolosa Estetista Lirica. Vecchia amica della madre di lei, per fortuna. “Domani te lascio aperta la porta del retro. Ma, ricorda, se te beccano tu non me conosci, me raccomanno!”. Ed era stato così che lei, lavata e profumata, era riuscita ad infiltrarsi in un ambiente che così poco le apparteneva.

“Mi scusi” ripeté per la terza volta in una manciata di minuti, aggiustandosi sul naso i suoi spessi occhiali rosa, “Volevo solo dirle che lei è mio padre”.

Un delizioso bignè di San Giuseppe – curioso delle volte il destino – si bloccò tra esofago e trachea, gli occhi di lui si fecero rossi e lucidi mentre prese a tossire convulsamente, briciole e saliva si sparpagliarono ovunque, una cameriera accorse con un bicchiere d’acqua mentre lei – Maria si chiamava– prese posto su una poltroncina scarlatta accanto al tavolo. “Tranquillo, Onorevole, non è poi così grave” gli disse dandogli amorevoli pacche sulla schiena.
No, le cose continuavano a non andare come se l’era immaginate.
Jane Pancrazia Cole

Per l'ultimo esercizio del Laboratorio Condiviso di Scrittura ho scritto un racconto, scegliendo il ragazzo in foto come protagonista. Era una storia breve e senza impegno, quella di un uomo che attende una donna in ritardo a un appuntamento. Una volta finita mi sono subito resa conto che non bastava ciò che avevo scritto, ci voleva anche il punto di vista di lei. Quindi ora, eccoli entrambi: prima lui e poi lei.

Un minuto.
Un minuto di ritardo.
Non è grave, sono sicuro che stia arrivando. È colpa mia, io sono sempre così puntuale che passo la mia vita ad aspettare gli altri. Sono sereno, già che ci sono scrivo a quel cliente.

Un minuto.
Un minuto di ritardo.
Uno dei laccetti di cuoio dei miei sandali si rompe proiettandomi sull’asfalto a pochi metri da lui. Più che le ferite, brucia l’umiliazione. Una signora mi porge la mano, mi sollevo, lo cerco con lo sguardo. Non si è accorto di nulla, scrive al cellulare, per fortuna.

Cinque minuti.
Cinque minuti di ritardo.
Guardo lungo la strada. Non arriva. Cerco notizie sul cellulare. Nessun messaggio su whatsapp, non un cenno su messenger, neanche un vecchio caro sms. Tranquillo. Sono tranquillo. Rido a un meme del mio socio.

Cinque minuti.
Cinque minuti di ritardo.
Mi infilo dentro il centro commerciale che si trova dietro l’angolo. Con le scarpe in una mano, cammino a piedi nudi fino al primo negozio di calzature. Se faccio in fretta forse riesco a salvare l’appuntamento.

Quindici minuti.
Quindici minuti di ritardo.
Cammino avanti e indietro sul marciapiede. Spero che arrivi presto. Ma vorrei che non mi beccasse in piena crisi di ansia, vorrei avere un'aria più cool ma proprio non ci riesco. Che mi becchi pure così, che rida di me vedendomi da lontano mentre macino km sul marciapiede e armeggio col cellulare, che mi becchi pure così, basta che arrivi. Presto. O anche tardi. Basta che arrivi.

Quindici minuti.
Quindici minuti di ritardo.
Scelgo un paio di adorabili sandali ma mi accorgo di aver dimenticato la carta di credito in ufficio. Non ho molti contanti con me: l’unica cosa che posso permettermi è un paio d’infradito. Andrò all’appuntamento con il tizio carino del bar, il tizio su cui ho fantasticato per settimane, con un paio di infradito di plastica. Due zattere verde mela di due numeri in più. Mi accascio su una panchina di fronte al negozio. Un piangino isterico ora non me lo leva nessuno.

Trenta minuti.
Trenta minuti di ritardo.
Ha il telefono staccato. Riempio l'aria di parolacce assortite, una signora copre le orecchie del nipote e mi guarda con rimprovero. Giro i tacchi e faccio per andarmene.
"Scusa" sento alle mie spalle.
Mi giro.
Eccola.
"Oddìo, scusa il ritardo! Temevo di non trovarti più, il lavoro, la metro, il cellulare scarico, sono un disastro" ha l'aria arruffata, ha corso, gli occhi lucidi, sta per piangere.
È davvero dispiaciuta. Voleva davvero esserci, ora c’è. Basta che arrivi, mi ero detto.
"In ritardo? Figurati anch'io sono appena arrivato".

Trenta minuti.
Trenta minuti di ritardo.
Decido di tornare a casa. Ora gli scrivo un messaggio per avvertirlo che ho avuto un contrattempo. Prendo il cellulare dalla borsa: è scarico. Non mi perdonerà mai. Mi odierà per sempre. Dovrò anche cambiare bar.
Prima di andarmene, lo spio da dietro l’angolo, è ancora là, dopo mezz’ora non ha ancora rinunciato, fa avanti e indietro sul marciapiede, è nervoso, arrabbiato, deluso.
È adorabile.
Non ero l’unica a tenerci a questo appuntamento.
Mi avvicino, “Scusa” dico alle sue spalle.
Si gira. “Oddio, scusa il ritardo! Temevo di non trovarti più, il lavoro, la metro, il cellulare scarico, sono un disastro"” continuo. Sono orrenda, mento per salvare la dignità, sto per piangere.
"In ritardo? Figurati anch'io sono appena arrivato", mi sorride.
Spero tanto che non mi guardi i piedi.




Ben strano il destino della mia rubrica di consigli. La prima edizione, uscita a inizio del mese, ha dovuto evitare teatri, cinema e cabaret, dato che li avevano già chiusi quasi tutti per colpa del coronavirus. Mentre la seconda (questa!), invece di uscire ad aprile, viene anticipata ad oggi, 11 marzo 2020, perché da un paio di giorni l'Italia è diventata tutta Zona Rossa e noi, lavoro permettendo, è meglio che #StiamoACasa. Quindi, se questa rubrica vuole avere un senso, che lo abbia soprattutto ora, nel momento del bisogno, nel momento in cui è grande la necessità di svago e suggerimenti.

Che siate da soli o in compagnia, con i vostri genitori, i vostri figli o i vostri amanti, 24 ore a casa sono lunghe e, per evitare l'abbrutimento, oltre che, cucinare, mangiare, fare ginnastica, è il caso di distrarsi con tutto ciò che la rete ha da offrire in questo momento. E vi posso assicurare che è molto ed è vario.

Eccovi un breve elenco da me amorevolmente redatto.

Stasera iniziano le trasmissioni di Red Zone Comedy, la stand up comedy disponibile direttamente a casa. Se guardandola mangerete patatine e vi farete uno spritz, l'effetto locale di cabaret sarà perfetto! www.facebook.com/redzonecomedy

Avete dovuto rinunciare a viaggi già in programma e vi è presa una tristezza cosmica? Non c'è problema, è possibile visitare alcune attrazioni anche dal proprio divano. Tre esempi? Il Louvre, la NASA e Digital Cosmos, la sede digitale del Castello di Rivoli – museo d'arte contemporanea. Quest'ultima è stata aperta in fretta e furia da pochissimo, proprio per andare in contro all'emergenza attuale e continuare a diffondere bellezza, vi pare poco?
www.louvre.fr/en/visites-en-ligne.
www.nasa.gov/glennvirtualtours.
www.castellodirivoli.org/mostra/digital-cosmos/.

Volete leggere ma avete finito i libri a casa? E che sfiga! Comprateli online, scaricateli o, ancora meglio, aiutate le librerie sparse per l'Italia che, grazie all'idea del sito The Book Advisor,  si impegnano a spedirvi i libri direttamente a casa. Le merci circolano ancora, il corriere suona, vi lascia il pacchetto davanti alla porta e stiamo tutti tranquilli.
Ecco l'elenco: www.thebookadvisor.it.

Poi avete ovviamente Youtube, la TV, i social con gli attivissimi influencer, ad ognuno il proprio, e il mio Laboratorio Condiviso di Scrittura, giunto ormai al quinto esercizio, a partecipazione libera e assolutamente gratuita. Mi sto autopromuovendo? E certo!

Mi sono persa qualcosa? Voi aggiungereste qualcosa all'elenco?



Dopo due mesi di esercizi, durante un periodo che dire complicato è dir poco, ho ritenuto che fosse il momento di tirare il fiato e di scrivere senza troppi pensieri. Quindi, dopo aver dato nuovi significati a nuove parole, storie a facce sconosciute, litigi a coppie senza volti, si torna all'origine, si torna alla Scrittura a Tempo.

Esercizio perfetto per coloro che hanno già partecipato al laboratorio e hanno bisogno di rallentare il ritmo e anche per chi al laboratorio non ha mai partecipato e preferisce iniziare in maniera soft, mettendo un piedino alla volta dentro l'acqua ghiacciata.

Per chi non lo sapesse: cos'è la scrittura a tempo? L'esercizio di base di ogni laboratorio che si rispetti.

Si punta una sveglia che dovrà suonare dieci minuti dopo l'inizio dell'esercizio. Si parte da un incipit  (uguale per tutti) e si scrive, si scrive, si scrive, senza pensieri, senza tornare indietro, senza correggere, fino a quando la sveglia non suona e allora ci si interrompe.

Per questa settimana il vostro incipit sarà il seguente:
Lo vide in un angolo. Sedeva di fronte alla finestra e guardava le fronde degli alberi graffiare il cielo giallognolo di Roma. I capelli neri brillavano alla luce dei lampadari. Gli si avvicinò con cautela. "Mi scusi...
Nei dieci minuti a vostra disposizione qualcuno avrà scritto un racconto, qualcun altro una poesia, un flusso di coscienza o chissà che altro. Non c'è problema, non si può sbagliare questo esercizio, qualunque cosa scriviate andrà bene. L’importante è che il trillo della sveglia vi sorprenda con la penna (o la tastiera) ancora in mano. Finito il tempo, finita la possibilità di scrivere. STOP. Ovviamente se siete a metà parola, o anche a metà frase, potete concluderla a sveglia già suonata. Non sono poi così cattiva!

A esercizio finito potete spedirmi ciò che avete prodotto senza correggerlo, oppure potete sistemarlo, o ancora usarlo come l'inizio di un racconto più lungo e articolato. Starà a voi scegliere, potrete fare ciò che vi pare, la scrittura a tempo serve a questo: a liberare la creatività senza costrizioni. Divertitevi quanto vi pare e ricordatevi solo di spedirmi il tutto entro domenica 22 marzo 2020 alle ore 12.

Come sempre, se avete domande, contattatemi pure sul Blog, su FB, Twitter, Instagram o LinkedIn, non si può dire che io sia una persona difficile da trovare!

Credo di avervi detto tutto, non mi resta che augurarvi buona scrittura!

Tipo di testo: qualsiasi (racconto, poesia, flusso di coscienza, etc…).
Lunghezza testo: dai 100 ai 3600 caratteri, spazi inclusi.
Email: janecole@live.it.
Oggetto: laboratorio collettivo di scrittura.
Specificare nel testo dell’email se volete restare anonimi o meno, se volete essere taggati (su FB) o meno.
Scadenza per far pervenire il testo: domenica 22 marzo 2020, ore 12.

Volete leggere tutti i Racconti nati da questo esercizio? Li trovate qui.
Due settimane fa ho pubblicato quattro immagini tra cui scegliere, quattro facce, quattro persone, quattro protagonisti. Come sempre, anche questa volta, molti di voi mi hanno risposto in maniera incredibilmente sollecita e quindi oggi condivido con tutti le nostre storie. Storie che sanno di passato, di mistero, di magia ma anche quotidianità.

Questa volta i racconti non sono in ordine di ricezione ma in ordine di personaggio scelto.

Buona lettura e a domani per il quinto esercizio del Laboratorio Condiviso di Scrittura Creativa!


Emma è una ragazza di 12 anni in piena adolescenza, viso limpido e sempre sorridente con una smorfia leggermente burlona… “Non so quando mi parli sul serio o quando mi stai prendendo in giro” – le dice suo padre quando lei lo guarda quasi senza espressione quando lui la richiama all’ordine. Lei scappa dicendo “Ti voglio bene papino” e lui si scioglie come neve al sole.

Emma ha un frizzante fisico snello ed è sempre in continuo movimento… “Sembra che voli” – commenta sua madre ogni volta che la vede saltellare in mezzo ai rami dell’albero in giardino. Da sempre nel mondo dell’Aldiquà ha imparato a giocare fin da piccola con le fate. Sì con le fate!, perché Emma è nata con uno strano dono… un occhio magico che nasconde con astuzia dietro ai suoi occhiali da sole.

Da quando ha visto la luce Emma si è rivelata una bimba speciale, appena nata la sua testa era ricoperta da una leggera peluria grigio azzurra che crescendo man mano si è trasformata in splendidi capelli turchesi, lisci, morbidi sempre a seguire il movimento del suo corpo irrequieto. Nella sua famiglia né mamma né papà hanno i capelli turchesi ma, guardando vecchie foto, hanno scoperto che la trisnonna Ada aveva anche lei i capelli turchesi e che assieme a quei capelli turchesi aveva anche un dono un po' strano... Oltre ai capelli turchesi Emma aveva l’occhio sinistro di un azzurro profondo che guardava un po' all’insù…per questo motivo era vittima di prese in giro a scuola e di discriminazione. Molti bambini non la volevano come amica ed Emma ci soffriva molto. Ma quell’occhio non era un occhio qualsiasi, era come quello della nonna Ada…vedeva gli esseri magici, incluse le fate, così non rimaneva mai sola. Aveva un gruppo di amici magici che l’apprezzava così com’era lei EMMA indipendentemente dalla sua apparenza e dal suo modo di essere. Il suo occhio magico aveva anche un altro immenso dono, riusciva a percepire le emozioni che provavano le persone intorno a lei. Un dono che all’inizio le faceva paura ma che crescendo l’avrebbe resa sempre più empatica e capace di capire meglio gli altri… fu grazie alla scoperta dell’empatia che Emma iniziò a scoprire quelli che poi divennero i suoi amici non magici!

Patricia Scioli



Un minuto.
Un minuto di ritardo.
Non è grave, sono sicuro che stia arrivando. È colpa mia, io sono sempre così puntuale che passo la mia vita ad aspettare gli altri. Sono sereno, già che ci sono scrivo a quel cliente.

Cinque minuti.
Cinque minuti di ritardo.
Guardo lungo la strada. Non arriva. Cerco notizie sul cellulare. Nessun messaggio su whatsapp, non un cenno su messenger, neanche un vecchio caro sms. Tranquillo. Sono tranquillo. Rido a un meme del mio socio.

Quindici minuti.
Quindici minuti di ritardo.
Cammino avanti e indietro sul marciapiede. Spero che arrivi presto. Ma vorrei che non mi beccasse in piena crisi di ansia, vorrei avere un'aria più cool ma proprio non ci riesco. Che mi becchi pure così, che rida di me vedendomi da lontano mentre macino km sul marciapiede e armeggio col cellulare, che mi becchi pure così, basta che arrivi. Presto. O anche tardi. Basta che arrivi.

Trenta minuti.
Trenta minuti di ritardo.
Ha il telefono staccato. Riempio l'aria di parolacce assortite, una signora copre le orecchie del nipote e mi guarda con rimprovero. Giro i tacchi e faccio per andarmene.
"Scusa" sento alle mie spalle.
Mi giro.
Eccola.
"Oddìo, scusa il ritardo! Temevo di non trovarti più, il lavoro, la metro, il cellulare scarico, sono un disastro" ha l'aria arruffata, ha corso, gli occhi lucidi, sta per piangere. È davvero dispiaciuta. Voleva davvero esserci, ora c’è. Basta che arrivi, mi ero detto.
"In ritardo? Figurati anch'io sono appena arrivato".

Jane Pancrazia Cole



Me la sono fatta fare proprio così questa foto, in bianco e nero, con lo sguardo lanciato lontano, una foto quasi antica, dal sapore di cose passate. Mi hanno sempre detto che ho un profilo alla Virginia Wolf e io mi sono voluta calare nel personaggio, almeno in un ritratto da appendere al muro.


Sì, perché io poi questa cosa del flusso di coscienza ce l’ho proprio dentro, anche se non mi serve per scrivere: il pensiero parte da un punto non precisato e fluisce, gira, spazia, si ferma sui dettagli di storie fantastiche, si eleva a livelli inimmaginabili creando vortici di emozioni. Sono una donna semplice, ma dentro di me è chiusa una rivoluzionaria, poi una santa, poi una donna libera, che come diceva un’altra eccellente scrittrice, è l’assoluto contrario di una donna leggera. Tutte queste etichette mi sono sempre andate strette e forse è proprio per questo che all’apparenza io sono così normale, così adeguata ai canoni di brava persona agli occhi di chi guarda.

Poso nuovamente lo sguardo su questa foto e lì ci trovo ancora quei pensieri di bambina che si sognava archeologa e non certo una banale impiegata. Guardo il mio profilo, ormai appesantito e con i primi segni del tempo che passa, ancora non ci credo che tutto quello che ho dentro, giovane, scalpitante, ferocemente innamorato della vita, strida così pesantemente con il mio involucro esterno. Quante cose si possono nascondere in una foto. Quante emozioni. Sono lontana in quello sguardo, sono tra le braccia di un amante appassionato, sono la mano tesa all’aiuto, sono il pugno levato al potere, sono il pianto disperato, il grido di vendetta contro l’ingiustizia. Spesso la sera, quando appoggio la testa sul cuscino e chiudo gli occhi, mi chiedo cosa ne ho fatto del giorno passato: il tempo, l’unico vero tesoro che ci è dato, questo tempo come l’ho vissuto? E soprattutto, l’ho vissuto veramente? La vita sembra fatta solo di impegni, ma è davvero la vita questa? Il mio ritratto in bianco e nero sembra parlarmi anche di questo, mi racconta di mondi che vorrei aver visto, di sguardi che avrei voluto incrociare, di avventure. Mi parla di vita.

L’ho appeso al muro, senza cornice, perché almeno la foto non voglio che sia imbrigliata in spazi prestabiliti: l’ho appeso ed ho guardato le reazioni di chi l’ha visto. Mia madre ha borbottato che sembro una vecchia, mio padre ha sorriso evitando di rimarcare che forse, lo sono.

Le mia amiche si sono divise tra quelle che lo hanno ignorato, come se fosse solo un altro oggetto di arredamento e quelle che invece hanno dato un giudizio, chi sommario, tipo “oh che bella quella foto”, chi tagliente “dai, ma non sei poi così male”, chi invece cercando un significato che andasse oltre l’apparenza. Quelle, neanche a dirlo, sono le mie migliori amiche: quelle che sanno cosa pensi anche quando non lo dici e sanno trovare anche in una semplice foto, quella che veramente sei.

Voglio immaginare anche cosa ne penserebbe l’uomo della mia vita di quella foto, se solo ci fosse; cosa vi scorgerebbe, se riuscirebbe a capire qualcosa che standomi accanto, ancora non sa. Quell’uomo sognato, desiderato, quell’uomo che non c’è proprio perché non assomiglia a nessuno ed è solo quello che aspetti. Lui vorrebbe vedere quei mondi insieme a me, quegli sguardi insieme a me, alzare con me quel pugno, lui compagno e complice, lui tenero e sicuro.

E ora basta flusso di coscienza, torno alla mia normalità, fisserò ancora il mio ritratto un giorno e forse, allora, anch’io sarò fuori dalla mia cornice, sarò libera come uno sguardo in bianco e nero lanciato nella vita.

Letizia Battaglia

Mi chiamo Flora, vestigia del lavoro di botanico di mio padre e dell'amore per le lettere classiche di mia madre.
E assomiglio al nome che porto, a chi non succede... Ogni genitore dovrebbe saperlo che la prima scelta che fa per un figlio ne racconterà l'indole e la guiderà, per amore o per forza.
Mi chiamo Flora e come il mondo che rappresento anche io muoio in inverno e rinasco, in questo angolo di Inghilterra, ogni volta che i daffodils tingono di giallo le piccole colline.
Allora passeggio, col mio libro e col quaderno nero, dove disegno fiori, insetti, dettagli insignificanti che raccontano l'intera storia dell'universo: la nervatura di una foglia, il viola di un petalo, la radice gonfia di un ciclamino.
Ogni tanto mi siedo, metto insieme i pensieri e le pagine, cercando un filo nei miei disegni.
Cosa trasformi un fiore in frutto, un seme in pianta, l'aria in vita.
A volte mi pare di avere tutto chiaro: il sole ci manda la luce, qualcosa, nelle foglie, la trasforma in cibo, gli animali lo mangiano, noi mangiamo gli animali, infine tutto muore e torna all'aria, alla terra, alla luce.
Ho messo in fila queste idee. Non mi hanno fatto parlare, il posto delle donne d'Inghilterra non è la scuola, ma il letto, a far figli timorati di Dio, e in cucina, a rigovernare piatti sudici e mariti ubriachi, di lavoro, di birra e di noia.
Già, Dio.
Dio che non entra nel mio quaderno, che non racconta, non spiega, non torna.
Perché Dio dovrebbe aver fatto il cancro del platano, la scoliosi e l'appendicite?
Perché non potremmo solo spiegare quello che c'è con quello che da sempre sappiamo?
Nulla esiste per grazia, tutto accade per caso e necessità.
Bisognerà che alla prima occasione ne parli con mio cugino Charles, è l'unico che mi capisce in queste cose...
Letteredalucca
Questa è la storia di Virginia, una donna intraprendente, impulsiva ed eclettica che ha saputo abbattere alcuni luoghi comuni riservati alle donne della sua epoca. Ella visse agli inizi del Novecento a Parigi, quando allora la città era un punto nevralgico della produzione artistica internazionale, fin tanto che era possibile ascoltare conversazioni personali nelle più disparate ed inconsuete lingue, per lo più sconosciute alle orecchie di molti.

Virginia si trasferì a Parigi all’età di 25 anni, quando comprese che la sua città natale, un piccolo paese collinare, era troppo stretto e rigido rispetto alle sue idee rivoluzionarie. Nel suo paese natale Virginia viveva in una spaziosa villa in campagna insieme ai suoi genitori, con le sue sorelle ed i suoi fratelli. Nonostante questa importante compagnia, la nostra protagonista, nei suoi anni adolescenziali, si sentiva spesso isolata ed incompresa. Inoltre, durante questo periodo le successe un importante fatto che modificò per sempre la sua vita, tanto da valerle il soprannome di idiota fra i suoi amici e compagni che, nonostante volessero davvero bene a Virginia, suscitarono in lei un forte senso di inadeguatezza, rendendo la ragazza introversa, timida ed insicura. Questo soprannome nacque in seguito allo spargersi di notizie circa la salute della nostra protagonista, una ragazza assai minuta che all’età di 14 anni fu afflitta per la prima volta da un attacco epilettico, malattia che la accompagnò lungo l’arco della sua adolescenza; questi episodi erano reputati, in quegli anni, incomprensibili ed innaturali di fronte agli occhi dei suoi coetanei. Essi iniziarono, in seguito alla lettura del libro Idiota di Dostoevskij ad associare il soprannome del protagonista del romanzo, idiota per l’appunto, a Virginia, essendo entrambi accomunati dalla stessa malattia. Ella non comprese mai questo strano nomignolo anzi cercò in tutti i modi di rimuoverselo, cercando di ripetere più e più volte ad i suoi amici, le precise indicazioni dettatale dal medico del paese che capì che poteva trattarsi di un aspetto positivo essendo tale patologia definita in greco morbo sacro. Virginia riportava le parole del dottore ogni qual si volta veniva chiamata con quel suo orrendo soprannome che le affibbiarono i suoi amici, vuoi per auto difesa vuoi per cercare di convincersi che lei fosse non solo normale bensì dotata di alcune attitudini riservate a pochi eletti, siccome l’epilessia affliggeva, in epoca greca e romana, personaggi illustri. Nonostante questo coraggio e questa continua lotta da parte di Virginia verso l’ingenuità e l’ignoranza dei suoi amici, ella non solo si convinse sempre più delle sue doti naturali, bensì di impegnò anima e corpo alla ricerca di un possibile riscatto personale, lontano dal suo paese natale.

Secondo il medico del paese, divenuto ormai suo complice più segreto, ella possedeva delle innate doti scrittorie, fu proprio lui, infatti, ad iniziarla a quel fantastico mondo sperimentale ed in continua evoluzione che era la letteratura francese di quegli anni. l’immaginario della nostra giovane fanciulla, sarebbe dovuta avvenire in un ambito ben specifico: la letteratura. Virginia, complice con il dottore, continuava a seguire, tramite quotidiani e riviste d’avanguardia, le innumerevoli imprese e scoperte che si consumavano quotidianamente a Parigi. In particolare modo, in quegli anni, la colpì la possibilità di poter raffigurare visivamente il contenuto letterario di una poesia, avendo lei appena letto il testo Il Pleut scritto da Guillame Apollinaire. In seguito a questa rivoluzionaria scoperta e forte del fatto di disporre di innate abilità scrittorie decise all’età di 25 anni di lasciare la sua terra natale e di avventurarsi, senza alcuna sicurezza economica o di ogni qual altro genere, nella capitale francese.

La ragazza trovò un’insolita sistemazione sulla rive droite, proprio grazie alla frequentazione di quei celebri café di cui aveva sentito parlare nei numerosi testi da lei letti in quegli anni. Fu in questi luoghi, così tanto sognati ed immaginati visivamente, che la nostra Virginia iniziò ad interfacciarsi con nuove compagne di avventura, specialmente con tre donne a lei coetanee che le proposero, pochi giorni dopo il suo arrivo a Parigi, di vivere nella loro abitazione, una mansarda situata nei pressi di Montmartre. Virginia accettò volentieri ed iniziò, quasi subito, a raccontare il motivo del suo approdo a Parigi, riscontrando nella sua malattia e nelle sue ambizioni personali le primarie fonti di migrazione verso quella terra promessa così tanto agognata e sognata negli anni della sua adolescenza al paese. Le sue inquiline e nuove amiche abituate a ben altri disordini e problemi che dovevano fronteggiare in quella crudele quanto affascinante città, qual era Parigi, non si sorpresero in alcun modo della dichiarazione di Virginia, anzi le diedero pieno supporto e comprensione cercando, fin tanto che gli era loro possibile, di aiutare Virginia nell’orientarsi. La nostra giovane fanciulla seguì alla lettera i consigli delle sue nuove amiche e fu così che iniziò a frequentare abitualmente le Chat Noire e la Rotonde, café dove era possibile incontrare i massimi esponenti della rivoluzione artistica e letteraria di quegli anni. Ella iniziò a sentirsi subito a suo agio, i nuovi problemi quotidiani le permisero di scordarsi e di rimuovere per sempre vecchi mostri insiti ormai del suo passato e di una donna che non esisteva più. Il suo nuovo mondo era costituto da orari irregolari, pasti saltuari, una vita inusuale la cui principale fonte di gioia proveniva da continue lezioni di vita, di arte, di letteratura e di musica udibili gratuitamente nei café da lei frequentati giornalmente. Tutto ciò che ella ascoltava durante il giorno lo trasportava su carta all’alba, quando le sue inquiline dormivano ancora e la città sembrava sotterrata da un leggero strato di oscurità ed incertezza utile a suscitare, nella nostra donna, un profuso senso di curiosità sulle nuove opportunità e sfide che la aspettavano l’indomani. Questa nuova vita, città e compagnia le permisero di realizzare e concretizzare, in opere letterarie di rara bellezza poetica e sentimentale, quella donna insicura e timida abituata a sognare ad occhi aperti.

Lucrezia Pellizzola
Era l’inverno del 1923, di lì a pochi giorni sarebbe stata sulla prima pagina di tutti i giornali, gli strilloni si sarebbero trovati ad annunciare a squarciagola “Madame Lestrange regina dell’occulto!” Nei salotti di Londra, si sussurrava di come Madame Lestrange, donna dall’apparenza morigerata, di nero vestita e con espressione anonima, fosse però in grado di riportare per qualche minuto indeterminato, nell’aldiquà chi si trovasse nell’aldilà. Molti cacciatori di ciarlatani si erano cimentati nell’intento di smascherarla, ma con scarsi risultati. Chiunque avesse vissuto quell’esperienza dal sapore ultraterreno, era pronto a giurare non solo quanto avesse sentito ma soprattutto, cosa ben più difficile da inventare, quanto avesse visto! La proclamavano medium, spiritista, regina dell’occulto e, ad aumentare quell’aura di timore reverenziale, era il fatto che si veniva ricevuti, in prima battuta, in un’anticamera. Qui, all’interno di un villino liberty dalle vetrate smerigliate, Madame Lestrange ascoltava in devoto silenzio la storia del richiedente, guardava quasi sempre un punto nel vuoto, senza fissare alcuno trasmetteva la sensazione che fosse già in una sorta di trance, mentre l’interlocutore viveva nel sacro terrore del sentirsi, alla fine, negata la possibilità del “contatto”. Si, perché alla fine madame Lestrange decideva se valesse la pena o meno di utilizzare il suo dono per quel determinato caso. Superato l’esame iniziale, la diafana signora dal dono soprannaturale, faceva accomodare i richiedenti nella sua stanza attorno al tavolo della cerimonia e, mentre iniziava, faceva servire loro del tè caldo al limone. Da quel momento in poi, raccontava chiunque avesse frequentato quel posto, accadeva che la percezione della realtà di ogni presente fosse del tutto alterata e surreale. Ora, all’epoca ero io il maggiordomo al servizio che si occupava di tutto, posso spiegarvi molte cose a partire dalle abilità della Signora. Innanzitutto Madame Lestrange era una chimica e, in quanto tale, sapeva perfettamente come il potere di un veleno venisse accelerato nel momento in cui questo venisse a contatto con una sostanza acida. Proprio per ciò, al momento del tè spettava a me il compito di inserire un’infima quantità di polvere velenosa con il limone, sicché questo procurava delle piccolissime allucinazioni che, ovviamente variavano da soggetto a soggetto, facendo sì che La Signora potesse manipolare la coscienza di ognuno a proprio piacimento. Ovviamente una volta fuori, i presenti, non si azzardavano a contraddirsi ed ognuno poteva riferire alle cronache le proprie differenti e senza dubbio veritiere, esperienze! Ecco perché Madame non poté mai essere smascherata, balzando invece così agli onori delle cronache come la Regina indiscussa dell’Occulto.
Daria de Turris

Guarda, guarda come se ne va in giro. Come se nulla fosse.

Strafottente nel suo cappotto scuro. Con quell'andatura finto-incerta, guarda come studia la situazione. Sta tramando qualcosa.

Leggero come una farfalla ma preciso come un dardo, il suo sguardo aleggia sulla via. Si schianta sui lampioni, buca il marciapiede, squarcia le vetrine dei negozi. Si ficca nei passanti lacerandoli. Con gli occhi, lui condanna a caso. Tu sì, tu no.

Guarda quel vecchio come avanza sprezzante, con il cappello blu petrolio che affonda tra la gente. Si crede più alto ma è solo più visibile.

Ecco! La sua prossima mossa verso l'inesorabile! L'hai vista? È lì, concentrata sulla sua barba. Hai notato come le labbra gli tremano dalla rabbia? Vibrano in modo quasi impercettibile, come volessero colpire, anche loro, cose e persone. Ma aspettano, non è ancora il momento.

L’aria è sempre più calda, la luce accecante, l’asfalto diventa burro. Eccoli i passanti frettolosi, non curanti. Il vecchio vorrebbe trafiggerli, uno alla volta.

"Poveracci. Tutti. Ignoranti." Ti sembra di sentirlo, vero? E intanto una goccia di sudore si impossessa della sua fronte, tra i capelli e il cappello blu.

Guarda, com’è sottile il suo odio. Non urla, il disprezzo è un rumore bianco.

Ma che succede? La strada di colpo cambia ritmo, alcune persone si fermano…

Il vecchio col cappotto scuro è a terra, ansimante. Con una mano si stringe il braccio sinistro. Circondato dai bersagli umani, allarga il volto in un ghigno insoddisfatto.

Marika De Sandoli




Come avrete già capito il 2020, per Radio Cole, sarà l'anno del Laboratorio Condiviso, ma non di solo laboratorio si vive e così, presa da incoercibile smania propositiva, ho deciso di inaugurare una nuova rubrica. Mensile. Il titolo? Ovviamente: Pancrazia Consiglia.

E no, non si tratta di una posta del cuore in cui voi mi scrivete i vostri tristi problemi ed io, dall'alto della mia esperienza, vi sciorino i miei preziosissimi consigli. No, non si tratta di questo, anche se a scriverla ora mi sembra un'idea bellissima! Ma no, dicevo, si tratta di altro: una volta al mese vi suggerirò cose da fare, vedere, leggere. Del resto, è ciò in cui consiste gran parte del mio lavoro, quindi perché non farlo anche qua?
Il periodo però è, come ben sapete, uno dei più delicati, quindi per questo giro salto a piè pari teatri, cabaret, cinema e musei, sperando ardentemente che possano tornare a pieno regime il prima possibile. Per questo mese, intanto, mi concentro su tutto ciò di cui potete godere da casetta vostra, dal vostro soggiorno virusfree.

Iniziamo con un libro: Il Dizionario che cura le parole. Da leggere, consultare e conservare gelosamente. Il primo volume di una serie che progetta di andare dalla A alla Z, per dare nuova vita a parole importanti come "resistenza" e "coraggio". Per saperne di più ecco il mio articolo pubblicato su TorinOggi.

Sempre di lettura tratta il secondo consiglio ma, in questo caso, non di una lettura da fare bensì da ascoltare. Luna's Torta, caffè libreria torinese, ha organizzato su Facebook una lettura online del Decamerone. Iniziata il 29 febbraio continuerà per 10 giorni. Dieci giorni durante i quali in oltre 100, tra operatori culturali, artisti, librai, gestori di locali, semplici fruitori provenienti da tutta Italia, leggeranno in video, un pezzo per uno, tutta le novelle del Boccaccio. Qui il link alla pagina dell'evento.

Infine, per trascorrere questi giorni virali e piovosi, potete anche scegliere di spiaggiarvi sul divano, accendere la tv e godervi tutti i film dello Studio Ghibli finalmente disponibili su Netflix. Sono sette i titoli tra cui  è possibile scegliere da ieri (primo marzo): Nausicaä della Valle del vento, Principessa Mononoke, I miei vicini Yamada, La città incantata, La ricompensa del gatto Arrietty, Il mondo segreto sotto il pavimento e La storia della Principessa Splendente.
Non avete l'abbonamento a Netflix? Tranquilli, potete usufruire della prova gratuita, basta registrarsi su questo sito. No, Netflix non mi paga per questo spottone: io sono una blogger poveraccia e lui è Netflix, perché mai LUI (il signor N) dovrebbe pagare ME?

Questi sono i miei consigli, voi ne avete altri da aggiungere?

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