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Avete presente Emma Watson? La giovane attrice inglese, la piccola Hermione Granger, la ragazza sottile ed elegante come non se ne vedono spesso in giro? Ecco, lei.

Non so se lo sapete ma io che la seguo su Instagram lo so. So che è un’amante della lettura, so che s’interessa dei diritti delle donne, so che ama il bookCrossing e spesso lascia in giro libri per la gioia di fortunati sconosciuti.

Emma Watson, nel prossimo film dedicato alle Piccole Donne della Alcott, sarà Meg, la primogenita. Il film sta per uscire e, ovviamente, Emma, usa i social per fare un po’ di pubblicità, perché anche la promozione fa parte del mestiere di attore e chi non la fa ha quell’atteggiamento da snob che non vuole intaccare la pVopVia aVte, atteggiamento che, onestamente, in un’industria come quella di Hollywood non è solo fuori luogo ma anche parecchio paraculo.

Dicevo, Emma, in questo periodo sta spingendo particolarmente il film e la sua ultima trovata (sua o di qualche lungimirante assistente, poco importa) è stata di fare bookCrossing, lasciare copie di Piccole Donne in diversi luoghi simbolici di Londra. Monumenti dedicati a personaggi femminili di diversa importanza, come le donne cadute in guerra e – adoro– le suffragette!

Quindi se siete a Londra andate a caccia che, magari, con un’incrdibile botta di britannica buona sorte ne trovate ancora una copia. Se, invece, siete altrove, guardate il film, leggete/rileggete il libro o, semplicemente, fatevi l’eterna domanda: “Chi sono io tra le sorelle March?”
No, non “qual è la mia preferita?” ma “chi sono?”, che è cosa ben più interessante. Non vi darà il polso di chi siete veramente (ammettendo che ciò sia possibile) ma, certamente, di come vi vedete. La vostra soggettiva e, spesso castrante, opinione. 

Profilo Instagram Emma Watson >>> www.instagram.com/emmawatson/

Albergo a Long Island, colazione inclusa. Una babele di voci e profumi. Marito che, in brevissimo tempo, diventa cintura nera di waffle. Io che, altrettanto velocemente, ciuccio unte fettine di bacon, senza remore e senza dignità. Senza dignità io, non il bacon. Il mio cellulare che, all'inizio, non riesce ad agganciarsi al wifi, quello di marito invece sì, e da ciò una diretta facebook con il suo faccione divertito in primo piano e la mia crisi isterica – solo audio – in sottofondo. Una crisi isterica – a mia insaputa – con millemilioni di visualizzazioni. C'è gente che chiederebbe il divorzio per molto meno. 

Comunque, sarà che la strada tra l'aeroporto e l'albergo passa per una periferia di indicibile tristezza, sarà che Long Island non è Manhattan, sarà che la metropolitana è sporca e puzzolente, sarà il problema del wifi di cui sopra – whatever will be, will be – ma le mie prime ore a New York non sono proprio esaltanti e il mio primo commento al riguardo è un lapidario "Accidenti, quant'è brutta questa città!" al che il marito, che a NY è già stato e la ama assai, mi guarda come se gli avessi appena insultato tutta la famiglia, nonnina preferita inclusa. 

Per fortuna finalmente arriviamo a Manhattan, passiamo per la stazione centrale, Grand Central Terminal, "Gossip girl, gossip girl!" esclamo io, senza vergogna e remore di svelare al mondo e, soprattutto, al marito, di essermi vista tutta la vacua e folle serie, pur essendo abbondantemente al di fuori del target adolescenziale a cui era destinata. Poi facciamo tre volte il giro dell'Empire State Building in cerca dell'ingresso,  lo troviamo, dentro c'è l'ascensore che fa 80 piani in un secondo, ci sono i valletti che indicano la strada ad ogni corridoio e svolta, e c'è la città da ammirare dall'alto. La giornata è bellissima ed io, finalmente, inizio a cogliere il fascino del luogo, con l'Hudson, le barche e la statua della libertà che da quassù è piccolissima. "Ci facciamo un selfie?" chiedo, che nel mio linguaggio vacanziero significa "Ok, questo posto mi piace, teniamoci stretto questo ricordo".

E da quel momento, per sei giorni è un susseguirsi di scatti, luoghi, esperienze e scoperte.
Il MOMA che sta per chiudere per lavori. Facciamo appena in tempo a vederlo. Bellezza ovunque ma è qualcos'altro ad attirare maggiormente la mia attenzione. La gente si accalca davanti a un van Gogh. Mi fa sempre un certo effetto pensare che lo sventurato sia vissuto e morto male. Solo e dall'enorme talento non riconosciuto. Abbia venduto un solo quadro in vita sua ma che adesso sia uno dei pittori più conosciuti di sempre. Non solo le sue opere raggiungono quotazioni altissime ma anche chi non è mai entrato in un museo in vita sua l'ha sentito nominare almeno una volta. Non sono sicura che lui gradirebbe l'ironia della sua sorte.
Il MET. Adoro il Met. Me ne innamoro subito, mi metterei a vivere lì, in una sala qualsiasi, dormirei felice ranicchiata tra statue e quadri per poi, al mattino, salire in terrazza a far colazione. Si aggiunge di prepotenza ai miei musei del cuore, insieme al Pergamon di Berlino e alla Pincoteca di Brera.
Il Museo di Scienze Naturali con incluso spettacolo dentro il planetario. Ti metti in poltrona, alzi gli occhi e sei immerso tra le stelle e poi tra gli alberi e poi ancora le stelle. Io una cosa così la vorrei in casa, in soggiorno, mi siederei sul divano, soffitto e mura prenderebbero vita e mi farei un viaggio nella Via Lattea e poi più in là ai confini dell'universo, che Netfilx scansati proprio!
Il battello al tramonto, direzione Staten Island, a guardare lo skyline dall'acqua, mangiarsi il primo hot dog di una lunga serie e finire la serata morti di sonno.
In mattina invece si prende un altro battello, lo si raggiunge passando accanto al toro arrabbiato e poi a destra dietro il carosello, dove fisso con stupore una numerosa famiglia con cappelli e cuffiette "gli amish gli amish" sgrano gli occhi ma non indico e non alzo la voce perché lo stupore non diventi invadenza. Ci imbarchiamo. Sotto lo sguardo attento di tutta la ciurma, "Whatch your step" dicono ad ogni passeggero, ad ogni passo, prima di salire. Ci si sente coccolati ma anche terribilmente ansiosi. "Sto attento a dove metto i piedi, sta sereno!". Prima siamo alla Statua della Libertà, dove il museo racconta una storia lunga e un progetto ambizioso. Poi, in una giornata lunghissima che mette a dura prova il fisico di marito, arriviamo ad Ellis Island, approdo della grande immigrazione europea tra Ottocento e Novecento. L'edificio principale è restaurato ma fedele. In quelle stanze a guardar fuori da quei finestroni ci fu anche il mio bisnonno dai baffoni importanti e l'aria distinta. Partito da solo e tornato in Italia da moglie e figli con le tasche piene. L'audioguida racconta la sua storia e quella degli altri. Passo passo. Trasmettendo la paura e l'enormita' del cambiamento affrontato dai bisnonni di tutti noi. La Quinta Strada...

Continua...

Prologo, Partenza


“Lo fate il viaggio di nozze?”
È questa la domanda che ci fanno tutti appena sanno dell’imminente matrimonio.

“Boh, non lo sappiamo, dobbiamo ancora decidere”
È questa la risposta che diamo a tutti.
All’inizio.
Poi, a poco a poco, l’idea si fa strada nei nostri cervelli, i preventivi richiesti non pretendono nessun nostro organo interno come anticipo e così, al fine, decidiamo.

“Stati Uniti” è la nuova risposta. La mia più specifica “Stati Uniti Nord Orientali“ per poi partire con l’elenco delle tappe principali: New York, Washington, Pittsburgh, cascate del Niagara, Ithaca (no, non quella di Ulisse) e Boston. Lo ripeto a chiunque, decine di volte, nascondendo malamente l’eccitazione. Perché Pancrazia vostra, la donna di mondo, alla veneranda età di ventrentquarant’anni, non è mai stati fuori dall’Europa. E sempre la suddetta Pancrazia vostra da cinque anni esibisce nella propria cucina un quadro dedicato a New York. Una speranza, un progetto e ora, finalmente, un biglietto!

E così il 12 giugno c’imbarchiamo finalmente per questo viaggio. Tutto bello. Tutto stupendo, non fosse che sempre la Pancrazia di cui sopra ha un piccolo, insignificante, minuterrimo problema: non ama volare. Non amo volare.

Non che ciò mi abbia mai impedito di viaggiare ma fino a quest’occasione le mie esperienze si sono limitate a viaggi lunghi al massimo un paio d’ore. Paio d’ore passate tutt’altro che rilassata. Come sopravvivere dunque alle nove ore tra Roma e New York? I multimedia! Sì, quello schermetto che, in caso di viaggi lunghi su grandi apparecchi, ogni passeggero si trova davanti e che pare offrire tutte le distrazioni possibili: film, telefilm, news e persino video giochi.

L’aereo decolla e io mi attacco a telecomando e cuffiette come ai miei unici salvatori. Tutto questo mentre il marito, dopo aver sacrificato le sue mani alle mie unghie durante il decollo, si guarda "Una poltrona per due" e ride di gusto. Il fatto di averlo già visto un milione di volte non scalfisce il suo entusiasmo. Per fortuna tra i film da scegliere non ci sono quelli di Bud Spencer e Terence Hill, altrimenti lui si piazzerebbe su quell’aereo per sempre e io farei il viaggio di nozze da sola.

Comunque, mentre Eddie Murphy imperversa sul suo schermo, sul mio si susseguono nell’ordine: Tetris, Modern Family, I Griffin, Animali Fantastici e dove trovarli… che se non ci pensa la Rowling a darmi serenità non so chi potrebbe riuscirci. Ed è proprio guardando le avventure di Newt Scamander – sotto il plaid, con il sedile reclinato – che alla fine mi addormento. Che meraviglia, io in aereo non dormo mai. Questa volta sì. Questa volta mi riposerò pacifica per poi zompettare negli Stati Uniti più carica che mai. Apro gli occhi, mi stiracchio, chissà quanto manca all’atterraggio, un’ora? Poco di più? Guardo lo schermo: 6 ore e 35 minuti! Credo di aver fatto pisolini più lunghi in metropolitana. 

E così seguono 6 ore di noia NOIA NOIAAAA. Guardo spizzichi e mozzichi di tutti i film a disposizione, tutti film che tra l’altro ho già visto, sbuffo, m’irrito per la calma di marito, m’irrito perché sono tutti sereni, mi annoio oltre ogni immaginazione. Poi però, finalmente, il comandante annuncia che stiamo per atterrare e io ripianto le mie unghie sulla mano paziente di marito. Perché è proprio nel momento in cui l’aereo punta verso terra, lo stomaco ti sale in testa e tutto traballa, che pensi che, tutto sommato, lassù a vederti "Una poltrona per due" non ci stavi tanto male.

Continua…

Se siete miei amici “dal vivo” lo sapete.
Se siete miei amici sui social lo sapete.
Se non appartenete a nessuna delle due categorie precedenti, o siete molto distratti, è possibile che non lo sappiate e quindi ve lo dico io: mi sono sposata. Il 9 giugno. Giuro.

È per questo che sono andata negli Stati Uniti, in viaggio di nozze. Questa serie di post non sarà dedicata al matrimonio ma al viaggio. No, niente simpatico aneddoto sulla scelta dell’abito. No, nessun racconto hot riguardo all’addio al nubilato (i tre addii al nubilato che mi hanno organizzato, 3!). E no, neanche un resoconto dettagliato circa le parole che ci siamo scambiati il marito ed io. Sono una blogger (o forse lo ero, data la frequenza dei post negli ultimi anni) abituata a parlare dei fattacci propri ma voglio comunque esercitare il mio diritto al pudore.

Non racconterò nulla delle nozze ma posso dirvi che è stato un matrimonio divertente. Una festa molto più che un pranzo. Certo, non c’era il sole, ha persino un poco piovuto ed io per le prime due ore ero tesa come una corda di violino, ma poi gli amici hanno cominciato a ballare, mi sono rilassata e mi sono divertita.
Il marito invece se l'è goduta fin dall’inizio e in tutte le foto sfoggia un sorriso che levati.

Sono una donna poco organizzata e quindi sono stata una sposa poco organizzata. Nessun miracolo da nubenda si è compiuto, io sono sempre io e mi sono dimenticata le scarpe di ricambio. Ma, dato che ad ogni problema c’è sempre una soluzione, quando i piedi hanno cominciato a dolere ho scelto di andarmene in giro scalza alla “chi se ne fotte”.

Ho avuto la cerimonia più bella del mondo, perché l’ha celebrata un amico, il migliore. Le letture e le musiche le abbiamo scelte marito ed io. Testimoni e amici ci hanno prestato le loro voci. Eravamo in una saletta piccola, tutti appiccicati, non è partita subito la marcia e io, sibilando tra i denti “la marcia, la marcia” mi sono rifiutata di entrare fino a quando non ho sentito la musica giusta. Poi, quando il celebrante ha cominciato a parlare, il vociare di fondo non si è chetato e sempre io, con l’eleganza che mi contraddistingue, mi sono girata e ho cazziato gli invitati “Sssssshhhh è arrivato fin da Catania per questo, lo vogliamo ascoltare o no?”
Insomma una sposa serena.
Però, vi giuro, la cerimonia è stata proprio bella.

Al matrimonio c’erano tutti, o quasi, qualcuno non ha potuto, a qualcuno abbiamo dovuto rinunciare, avete presente cos'è compilare una lista invitati per un evento del genere? Una tragedia!
Tra i presenti menzione d'onore a mio zio del Belgio che ha più di 80 anni ed è tutt’altro che in salute. Fino all’ultimo ci ha detto che non ce l’avrebbe fatta e invece, due giorni prima delle nozze, ce lo siamo ritrovato a Caselle. Aveva preso il biglietto da mesi e ci aveva fatti tutti fessi. Noi Cole abbiamo la pellaccia dura e l’animo mattacchione.

C’erano i miei genitori, i nipoti, mia sorella, Mati, le amiche, gli amici, i cugini, gli zii, la famiglia del marito con una mascotte di pochi mesi. C'erano quelli scatenati e quelli più tranquilli. C'erano persino  la saldatrice di Flashdance, Frank Sinatra e tutto il Trono di Spade. Parevano tutti felici. Felici per noi.

Ho lasciato i capelli semi sciolti perché volevo rimanere me stessa quel giorno, niente piega e impalcatura laccata ma ricci liberi e voluminosi, che sono il mio marchio di fabbrica. Però, ogni volta che qualcuno mi abbracciava, pensavo “cacchio mi schiaccia i capelli!” ma poi mi scioglievo, perché io mica li ho mai ricevuti tanti abbracci così, e quando mi ricapita?

A noi, gli sposi, è piaciuto tutto. Perché è stato a modo nostro. Che il bello di sposarsi dopo una certa è anche questo, si abbassano le aspettative degli altri e si alza il tuo livello di "mi sposo io e decido io". Anche se chi mi conosce dice che quel livello io, probabilmente, ce l'avrei avuto altissimo anche a vent'anni...

Ora basta però, che mi ero promessa di non raccontare nulla.

Il 12 giugno siamo partiti per gli Stati Uniti e voglio scrivere di questo.

Continua…
Io, ogni due settimane, racconto Torino. La racconto proprio. Scrivo racconti dedicati alla città, alla sua storia e a i suoi miti. E cosa c'è di più mitologico del gianduiotto?

L'atmosfera in città era mogia. Il meraviglioso profumo proveniente da tutte le pasticcerie era sempre meno forte.
"Potremmo fare i cioccolatini più piccoli" proponeva il garzone di bottega.
"Più piccoli?"
"Sì, più piccoli sono e meno cacao ci vuole"
"Non sarebbe una soluzione, purtroppo. I nostri clienti vogliono riempirsi la bocca con vere prelibatezze, non stuzzicarsi l'appetito con piccolezze che finiscono prima ancora che ne abbiano apprezzato il sapore" rispose Michele Prochet, abile cioccolataio ammirato in tutta la città.
"Ha ragione, Maestro. Accidenti a quel nano prepotente francese, è tutta colpa sua!"
Il brevilineo francese in questione era nientepopodimeno che Napoleone Bonaparte. 

Continua...

Continua il mio sodalizio con il quotidiano TorinOggi.

Rio de Janeiro, 2 dicembre 1940. Giulia osservava il profilo del marito, mentre lui era intento a leggere chino sulla scrivania. I capelli, negli ultimi anni, gli si erano fatti più radi ma il suo spirito era rimasto sempre lo stesso, non era stato cambiato da nessuno degli incredibili avvenimenti che avevano caratterizzato gli ultimi 24 anni della sua vita.

Era il 1916 inoltrato, vivevano ancora a Verona, quando era arrivata a casa loro quella lettera. Quella lettera maledetta che li avrebbe separati per la prima volta nella loro vita e che rischiava di tenerli distanti per sempre. Loro che si conoscevano fin da bambini. Loro che si erano sposati giovanissimi e avevano sempre condiviso tutto.

“Richiamato in servizio”. Era questo ciò che diceva la missiva. Il Regno richiamava in servizio il professor Giulio Canella. La Grande Guerra continuava sanguinosa e il fronte richiedeva sempre nuovi uomini. "Promettimi che tornerai" gli aveva chiesto lei sulla porta. "Se Dio vorrà", le aveva risposto lui.

Giulio era partito, lasciandola a casa giovane e già madre di due bimbi. Il tempo era passato, la guerra era finita. Vicini, amici e parenti erano tornati, chi tutto intero, chi ammaccato, chi con i piedi in avanti. Giulio però no.

“Disperso sul fronte Macedone, a seguito di un'imboscata sulla collina di Bitola”, si leggeva nei documenti ufficiali. "Disperso, che è persino peggio che morto, non ti puoi neanche rassegnare", dicevano tutti. "Disperso, posso continuare a sperare" pensava Giulia.

E la sua speranza, contro ogni logica e buon senso, venne soddisfatta il 6 febbraio del 1927. Quando vide il viso del suo amore sulle pagine di un giornale. “Chi lo conosce?” chiedeva la didascalia.

Continua...


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