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A seguire la cronaca di un sabato appena trascorso.

Ore 19.00
Punto verso il centro con l'auto. Ho lo stomaco vuoto e sono di corsa.

Ore 19:20
Mi telefona IlSocio. Stasera, oltre che con Radio Cole, siamo in ballo con Humans-Torino.
"Tra dieci minuti arrivo" mi dice.
"Perfetto"
"Sono zoppo"
"Cosa?"
"Agility"
"Ah"

IlSocio ha da poco ripreso a fare agility col proprio cane.
La bestiola va come una scheggia.
L'umano arranca.
Pare che il quadrupede stia meditando di abbandonare il bipede ad un autogrill. Difficile dargli torto.

Ore 19:30
Comincia la ricerca del parcheggio.

Ore 19:35
Si conclude la ricerca del parcheggio.
Lascio la macchina lontano dal locale, ma non tanto lontano come altre volte, ad una distanza quasi dignitosa.
Mi commuovo.

Ore 19:45
Arrivo al Cafè des Arts, in via Principe Amedeo 33/f.
IlSocio è già davanti all'ingresso. La sua auto pure. Lo odio!
Accarezzo l'idea di acciaccargli pure l'altra gamba. Ma mi serve vivo e anche deambulante. Quindi desisto.

Ore 20:00
Incontriamo, abbracciamo, sbaciucchiamo, e intervistiamo Cecilia D'Amico, l'attrice romana vincitrice della scorsa edizione di Facce da Palco, tornata sotto la Mole per aprire in bellezza la stagione di Palco Oscenico.

Io domando, IlSocio fotografa, la comica si dimostra disponibile e con la chiacchiera caricata a pallettoni. Perfetto. Il risultato finale mi piace assai.
Le foto e le parole dell'incontro potete trovarle qui.
(Avete messo il like a Humans Torino? Non avete ancora messo il like a Humans Torino? Cosa aspettate a mettere il like a Humans Torino?!?! Mettete il like a Humans Torino!)

Ore 20:30
Mi avvento sul buffet dell'aperitivo con la voracità di un lupo della steppa siberiana.
Bevo vino rosso, mastico pizzette, ingoio bruschette, spalmo salsine e sgranocchio grissini.
Il barista mi osserva basito e leggermente spaventato.
Io lo ignoro. Ho fame.

Ore 21:20
Occupo, orgogliosa sbruffona e satolla, il posto che mi è stato tenuto da parte dall'organizzazione.


Ore 21:30
Musica introduttiva.
Cecilia sale sul palco.
Comincia lo spettacolo.


Cecilia D'Amico veste i panni di quattro diversi personaggi.
Tre donne e un ragazzo, tutti alle prese con le difficoltà di relazione, amorose o umane che siano. Il tutto fatto con un'ironia travolgente e una notevole presenza scenica.

Impossibile non riconoscersi in una o più delle maschere rappresentate.
Io, personalmente, adoro Mara. Esasperata, disperata, indomabile, travolgente, sarcastica, insicura, pazza, spazientita, speranzosa. UnaDiNoi! Noi a cui gli uomini piacciono ancora. Nonostante le delusioni e l'innegabile convinzione che meriterebbe di essere sterminati. Ma poi, sai che noia!

Un'ora di risate, trasformazioni e video.
Un'ora in cui è riassunto il lavoro di anni.
Un'ora in cui Cecilia ci presenta la sua prima creatura. E, per questo,  la più preziosa.

Questo sabato si è aperta ufficialmente la rassegna di Palco Oscenico.
Era ora!
E adesso?
Adesso la si segue fedelmente e appassionatamente.

Il prossimo appuntamento?
Sabato, 4 ottobre, al Cafè des Arts sarà la volta dei DettoFatto.
Numerosi e rumorosi, i migliori improvvisatori torinesi dotati di Gorilla ci faranno sicuramente ridere.
E noi, probabilmente, faremo ridere loro. In che senso? Venite e lo scoprirete!
Entro in questo locale pieno di mobilio perfettamente accocchiato a caso.
Mi rigiro tra le dita di rosso pittate la mia tessera nuova nuova.
Prendo posto su una seggiola d'oro e velluto.

E mi godo lo spettacolo.
Lo spettacolo che inizia dall'ingresso in questo teatro.
Teatro dove tutti si conoscono e io, ovviamente, non conosco quasi nessuno.
Quasi nessuno tra i cento spettatori che contano cabarettisti, attori, artisti di strada, maghi, domatori di leoni, leoni, foche, e una blogger.
Una blogger. Io.

Tempo d'iniziare a sentirmi a mio agio che si spengono le luci e arriva lei. La protagonista. Giorgia Goldini. Con il suo Maifemili.

Di Maifemili mi sono piaciute le musiche, la microscenografia, l'abilità di Giorgia nel tenere il palcoscenico, la prima mezz'ora di risate e gli ultimi cinque minuti di poesia.

Di Maifemili non mi sono piaciute alcune lungaggini nella parte centrale.

Di Maifemili è importante sottolineare come la Goldini scelga di far ridere con uno degli argomenti più tristi che ci sia: la perdita, vera, autobiografica. Quella che non è finzione, ma racconto di sé al pubblico. Questa è una scelta che può premiare o meno, ma che vanta comunque il marchio del coraggio.
L'attrice percorre e fa percorrere una via non facile. Via che, forse, è ancora da sistemare, da rendere più praticabile per lei e per il pubblico. Ramazzando via gli ostacoli e sfoltendo le chiome degli alberi, in modo che rimanga inevitabile, riconoscibile, ma anche un poco più illuminata e luminosa.

Giorgia Goldini è brava. Parecchio.
Lo spettacolo è buono, ma ancora con margini di miglioramento. Ampi.
Il Teatro della Caduta è una meraviglia. Sul serio

Ode a te,
vecchina che abiti proprio sopra di me.

Le tue novantaquattro primavere porti splendidamente,
non fosse per quella tua ottusa mente.
Tale limitazione, io me ne avvedo,
non dipende dal tempo andato, ma fa parte del tuo umano corredo.


Ode a te,
rimbambita che abiti proprio sopra di me.

Un tempo ti lamentavi dell'afro odor emanato dai quei due rumeni:
"puzza di pulito" la chiamavi. Una totale insensatezza, ne convieni?
Oggi cucini aglio come se non ci fosse un domani: "che t'andasse di traverso"
dico, chiudendo porte finestre pertugi, e verso.


Ode a te,
stracciamaroni che abiti proprio sopra di me.

Ce l'hai sempre avuta anche con i giovinastri extracomunitari
che abitavano al piano pari.
A sentire il tuo dire accusatore,
costoro passavano le giornate ad andare su e giù in ascensore.


Ode a te,
vecchiaccia che abiti proprio sopra di me.

In passato ti lamentasti ogni giorno della molesta presenza dei miei predecessori,
Fu per questo motivo che gioisti alquanto quando vedesti i miei traslocatori.
Prima ti crucciavi di viver sopra due indegni stranieri,
ora festeggi per la mia presenza, come mi spiegasti non più tardi di ieri.


Ode a te,
che abiti proprio sopra di me.
Le tue novantaquattro primavere ti proteggono da qualsiasi mia lamentela,
ma almeno lascia che ti dedichi questa mia d'insulti sequela.
Secondo Wikipedia Torino occupa una superficie di 130,84km² e conta un numero di abitanti pari a 902.137 unità.
Ma Wikipedia mente.

Torino è un trilocale con bagno, sgabuzzino, ampio terrazzo, spazio auto in cortile, e cantina. 110m². Calpestabili. Non uno di più.
E noi torinesi saremo, a voler tenersi larghi, un migliaio. Mille persone che entrano ed escono da questo alloggio, come lo chiamiamo noi, incontrandosi e scontrandosi in continuazione. C'è chi passa dalla finestra, chi se ne va sbattendo la porta, e chi dirige il via vai come il più esperto dei padroni di casa. Tutti noi, tutti assieme, negli stessi luoghi, in tempi diversi o uguali.

Prendi un caffè in cucina e ti passa lo zucchero una tua compagna delle superiori.
Vai al cinema in soggiorno e ti trovi seduta accanto a tuo cugino.
Esci in terrazza per vedere uno spettacolo di cabaret e scopri che quel terrazzo è lo stesso dove tu, meno di un anno prima, hai fatto un corso di acquerello. Lo stesso luogo dove l'insegnante, individuate immediatamente le tue doti, prese ad usarti come metro di giudizio. Negativo. "Più acqua, devi usare più acqua. Sei quasi peggio di Pancrazia!" "Che orrore! Una roba così non la farebbe nemmeno Jane!" "Sei irrecuperabile, vatti a sedere vicino alla Cole e fatevi compagnia"

Ieri sera sono tornata a Lombroso16, il coloratissimo centro policulturale che lo scorso autunno vide il nascere e l'estinguersi della mia carriera da acquerellista. Carriera durata il tempo di un gatto in tangenziale. Impagliato.

Sono tornata nella stessa sala per assistere a uno spettacolo di stand up.
Quello di Elena Ascione, una stand up comedian, di cui avevo già scritto bene in passato. Ricordate?
Elena ci ha fatto ridere raccontando le sue nevrosi e manie, l'ossessione per il controllo e l'ordine della casa. Praticamente una di famiglia!
La magia si è ripetuta anche questa volta. Elena ha fatto ridere me, e tutto il resto del pubblico.
Ha raccontato il mondo delle donne: dalle favole all'Eden, dal multitasking isterico alla pacifica consapevolezza delle ottuagenarie, dalla dieta drenante alla prova abiti in camerino.
Ha espresso semplici concetti condivisibili: "un uomo scontroso probabilmente non ha subito gravi traumi infantili, è solo stronzo!"
Ha chiarito trame e complotti secolari: "con le favole ci è stato insegnato che dobbiamo essere salvate da un principe. Ma anche che noi, a nostra volta, dobbiamo salvare lui, Rospo o Bestia che sia, in un cortocircuito culturale che ci trasforma in svenevoli crocerossine destinate all'infelicità."
E' riuscita, come mai nessun altro prima, a rappresentare la commessa tipo di un negozio di abbigliamento tipo. Commessa che, non me ne vogliano le appartenenti alla medesima categoria, viene selezionata in base alla propria stronzaggine. Caratteristica che questa esprime, in tutte le sue potenzialità, piazzandosi dietro la tenda del camerino e chiedendo: "Va tutto beneeee???" Già sapendo che non va affatto tutto bene. Poiché la cliente tipo di un negozio di abbigliamento tipo, magra o morbida che sia, guardando la propria immagine riflessa, si sentirà sempre e comunque un epico, fantasmagorico, sfavillante cesso a pedali!

Elena parla di sé e degli altri. Ride di sé e degli altri.
Travolgente, sicura, padrona del palco e dell'attenzione del pubblico.
E' valsa la pena tornare nel luogo dell'acquerellico delitto, eccome se ne è valsa la pena!

NdA: i virgolettati sono miei, non estrapolazioni letterali del monologo di ieri. L'Ascione le cose le dice meglio.
NdA2: non era la mia insegnante di disegno ad essere cattiva, ero io ad essere una pippa.
His story 

The tracks are on fire.

The old man walks and sweats in a wool coat.

He sees me from afar. I smile.
He sits next to me. He smells.

"Do you take the next train?"
"Yes"


I pull out the headphones from the bag. I select the music.

It's not enough.
He speaks.
I give up.
I listen.

He starts telling his story.

A difficult childhood.
A bad mother. A selfish mother.
She's still alive. She's still bad and selfish.

A happy youth.
The '80s full of women, business, money, and friendship.

And then: drama.
Wrong choices. No more friends.
Debts.
Prison.

"Were you in prison?"
"Yes, it was a big scandal"
He's happy to have my attention, finally.

He speaks.

I listen.
Listen and surf the web. I want to know the truth, his words aren't enough.

I find something.

The story is true.
Him? I don't know.
I can't recognize his old tired face in the young man smiling on my phone.

"From the hills to the jail. He could have helped me, but he didn't"
"Who?"
"Him"
"Him? Him?"
"Yes. He's a son of a bitch!"
"He died years ago"
"He's a son of a bitch. Anyway."


The end.


Siete arrivati fino a qua? Bene. Avete appena letto il mio primo racconto in inglese. Oooooooooh.
Era ormai da tempo che volevo provarci. Esprimermi in un'altra lingua. Trovare un ritmo diverso.
L'occasione di buttarmi in questo mare grandissimo e straniero (nell'ovvio senso della parola) mi è stata data da Humans Torino. La pagina facebook dove il mio socio Sergio ed io raccogliamo volti e storie da sotto, sopra e tutto attorno alla mole. La maggiorparte dello spazio è dedicata a foto accompagnate da brevi didascalie, ma sono presenti anche piccoli racconti rubati alla quotidianità d'inconsapevoli passanti. 

Nelle ultime settimane il socio ed io abbiamo deciso che sarebbe stato il caso di tradurre tutti i post di Humans anche in inglese, "che magari non guadagnamo neanche un like, ma comunque fa figo", abbiamo sentenziato all'unisono da cialtroni par nostri. Così abbiamo iniziato a lavorarci. Così ho(!) iniziato a lavorarci.
Prima ho scelto le didascalie più brevi, poi quelle più semplici, infine ho deciso che fosse tempo di provarci con un racconto. E oggi ci ho provato.
"His story" è il risultato di questo esperimento. Esperimento rivisto e corretto da nientepopodimeno che Renée, una delle Comari berlinesi. Non so se mi spiego!

E' stato faticoso ma incredibilmente stimolante poter rimettere mano alle mie parole, cercare un nuovo respiro, riadattare il tutto a una lingua diversa. Il racconto è sempre lo stesso ma è anche un altro. E io ne vado molto orgogliosa. Questo piccolo figlio, ammettendo che a qualcuno interessi, potrà essere letto da milioni di persone in più. Lui ha un passaporto che, almeno nei miei sogni, lo potrà far viaggiare. 
E' la prima volta che ciò accade a una mia storia. Ed era il momento che accadesse.

Quindi, volete farmelo un piacere? Mandate questo link a i vostri amici sparsi per il mondo. Fate "partire" questa piccola storia per il suo lungo viaggio. 
Grazie. Thank you.

N.d.A: la versione italiana del racconto la potete trovare qui.
Quest'anno le mie vacanze sono state brevi e spezzettate, ma non prive d'interessanti rivelazioni.
Rivelazioni che vado a condividere con voi, miei amati lettori, perché la conoscenza va diffusa, elargita, lanciata al popolo come carnevaleschi coriandoli.

Sul lago di Garda ho capito che la Coca Cola Zero dà dipendenza fisica e, soprattutto, psicologica.
Non si spiegherebbe altrimenti il motivo per cui un mio amico, prossimo alla morte per totale disidratazione, si sia incaponito nel girare 3 diversi bar, rifiutando di assumere qualsiasi altro liquido, fino a trovare l'ultima lattina disponibile della nota bevanda. Lattina a cui si è fisicamente congiunto, tra lacrime e risate, con l'equilibrio emotivo di un concorrente da reality.

In riva al mare di Recco ho elevato la focaccia ligure, quella sottile salata e croccante, al rango di unico alimento di cui valga sempre la pena nutrirsi. Che sia mattina, pomeriggio o sera, essa è in grado di appagarti e allietarti. Essa è la soluzione ad ogni mancanza e necessità. Null'altro serve. Essa è.

Immersa nelle langhe mi sono, per l'ennesima volta, interrogata circa la nota freddezza di noi piemontesi (che siano acquisiti o meno). Tali aprioristiche convinzioni sono il frutto di una profonda ignoranza. Chi è in grado di produrre dei vini rossi così, è uno che dei piaceri della carne, di tutti i piaceri della carne, se ne intende. Eccome se se ne intende!
Noi non siamo freddi. Siamo solo un poco sbattuti.
Sabato, 13 settembre, 2014

La mattina vado a tagliarmi i capelli.
Il pomeriggio mi preparo secondo il dress code indicato: nero, bianco e rosso. Pantaloni neri, top bianco, smalto e rossetto rossi.
Mi sono scocciata di fare l'intellettuale e ora gioco la carta panterona. Roar.

Arrivo all'appuntamento con l'entusiasmo e l'emozione del primo giorno di scuola. Le mie compagne di avventura mi abbracciano e festeggiano:
"Ammazza che gnocca!"
"Stai benissimo con la tua nuova pettinatura"
"Sì, ma hai il rossetto sui denti"...ecco. A vestire i panni di selvagge feline bisogna esserci portate. Io non lo sono. Miao.

Oggi si tiene la festa d'inaugurazione di OffStage, la stagione teatrale che include al suo interno Facce da Palco.
Gli artisti presentano brevi stralci dei propri spettacoli in una cornice meravigliosa: piazza Vittorio!
Per i non indigeni e pratici agevolo una foto.

http://www.turinphototours.it/
Dalla quale non si capisce una mazza, ma l'immagine è spaziale e quindi ve l'agevolo lo stesso. Perché, anche in questa nuova stagione blogghistica, l'andazzo di "faccio le cose a ca..." mi accompagnerà fedelmente. E ci mancherebbe!

Piazza Vittorio è uno sfondo da favola, ma non è certo l'ideale per un'esibizione all'aperto: c'è confusione, rumore e l'amplificazione alcune volte deficita. Ma gli artisti di OffStage, dotati di notevoli attributi, non mollano, vanno avanti per la loro strada, strappano risate, applausi ed emozioni a mazzi.

Nell'ordine ci sono:

il duo Popoff, che presenta musica e parole, e mi fa sognare un cappellino rosso in precario equilibrio tra i miei ricci.

Seguono gli improvvisatori DettoFatto che, come sempre, scelgono di coinvolgere il pubblico a proprio rischio e pericolo:
"Ci dici il titolo di una favola che ti piace molto?"
"..."
"Una storia per bambini"
"Ah, lo so: Walt Disney!"
"Ma Walt Disney è una persona non una favola"
"..."
"Vabbé lo chiediamo alla tua amica, tu intanto pensaci, eh!"

Poi è la volta del musicista Emanuele Francesconi che, con il suo piano, ci regala una perfetta colonna sonora, e ci promette esibizioni future di note e voce.

Tocca alle Paperelle Scampate che propongono pochi minuti di "Non di sola parola", lo splendido spettacolo fatto di danza, poesia, e immagini di cui già vi parlai mesi fa.

Si buttano nella mischia anche i giovani allievi della scuola Mal dei Fiori Neoarcheoteatro, dimostrando la giusta dose di coraggio e incoscienza.

A chiudere Nathalie, Francesca ed Elena, le tre madri, levatrici e maestre della rassegna che ci raccontano una storia surreale di amore, inganno, legami e mistero tutto femminile.

La serata scivola via mentre io, liberatami di gran parte del rossetto, ciuccio avidamente un mojto. Seduta accanto ad amici e colleghi con cui è sempre un piacere ubriacarsi di chiacchiere.

La rassegna di OffStage prenderà il via il 27 settembre con Cecilia d'Amico, vincitrice della scorsa edizione di Facce da Palco. Voi segnatevi la data ma, non temete, ne riparleremo su questa pagina e su quella di Humans Torino. La parola d'ordine di questo autunno sarà media partnership. Che non mi è chiarissmo cosa significhi, ma fa tanto fine e non impegna.
Ogni mattina mi sveglio presto, tiro su i capelli come piacevano al marito mio, metto l’acqua di colonia dietro agli orecchi e piano piano, con la pioggia o con il sole, mi trascino fino a qua.

Augusto ed io siamo stati sposati quasi sessant’anni.
Ed io racconto la storia nostra da sempre, prima alle nuore ed adesso alle nipoti. Loro sospirano e sognano per questi due innamorati bruttarelli che si sono trovati a dividere una vita intera per caso e per disgrazia. Una storia così non c’avrebbe mai posto nei libri di favole o al cinematografo. Una storia così può esistere solo nella vita vera.

Augusto ed io abbiamo cresciuto assieme sei figli: Sandro, Enrico, Luciano, Donato, Cristiano e Felice. Abbiamo messo assieme un esercito di maschi rumorosi e disordinati, ma onesti e tutti grandi lavoratori. Ad occuparmi della casa e di quel branco di selvaggi delle volte mi sono sentita peggio d’ una schiava, ma poi a guardarli negli occhi uno ad uno sono stata orgogliosa come una regina.
Io per loro, per tutti loro, sono sempre stata “mamma Adelì” e lui “lu Babbo”.

Pochi anni dopo la fine della guerra, quando mamma mia s’era già sdraiata vicino a Lucia, abbiamo cercato fortuna in città, che la poca terra che avevamo ed il ricamo non bastavano più per dare da mangiare a tutte quelle bocche.
I ragazzi li abbiamo mandati a scuola, dal primo all’ultimo, e mentre loro studiavano anch’io, con l’aiuto dei più grandi e di Augusto, ho finalmente iniziato a leggere. Non mi sono certo fatta dottoressa o scienziata ma almeno un poco meno ignorante. Ora è normale e non ci si rende manco conto di quanto sia importante. Che delle volte, a non saper leggere e scrivere, ci si sente come ciechi e sordi. O peggio ancora ci si sente stupidi.

Ma non voglio star qua a raccontar frottole. Il matrimonio nostro non è stata mica perfetto ed anche Augusto, purtroppo, c’ha avuto le debolezze sue e qualche porcheria me l’ha fatta. Che, già ve l’ho detto, i maschi so fiacchi e prima o poi ce cascano tutti. Come quella primavera del ‘62 quando gli arrivò una nuova collega in fabbrica. Una svergognata, di sicuro. Io ho passato mesi a far finta di niente e foderarmi gli occhi e li orecchi col prosciutto. Lui faceva tardi dal lavoro, aveva sempre la capoccia da un’altra parte e di tempo per me non ce ne aveva più. Non so cosa sia successo e non lo voglio manco sapere, ma un giorno di luglio Augusto tornò a casa in orario e ricominciò finalmente a guardarmi come faceva prima. Non ci fu bisogno di dirsi niente e da quella sera tutto tornò normale. E tornammo ad essere due sposi che dormivano vicini ed intrecciati per freddo, abitudine, ma anche per amore.

Non mi piace parlare di quella vecchia storia ed alle ragazze non l’ho mai raccontata, che certe cose riguardano solo me e lui, nessun altro. Augusto è tornato da me e questa è l’unica cosa importante. L’estraneo di quei pochi mesi non lo voglio manco ricordare. Preferisco pensare a quel vecchio rugoso che in ospedale, di fronte alle bimbe appena nate di Luciano, mi sussurrò con gli occhi lucidi: “Ce ne hanno messo de tempo, ma finalmente le gemelline so arrivate.”  Quelle bambine belle, sane e perfette furono come il miracolo che tutti noi aspettavamo da sempre, e per il battesimo loro le mogli di Sandro ed Enrico gli prestarono i vestitini fatti da Lucia mia. Da Lucia nostra.

I ragazzi si sono sparpagliati per tutto il mondo, mentre noi, con la pensione, siamo tornati a vivere al paese in un appartamento al primo piano con un bel terrazzino per stare all’ombra e respirare l’aria buona. Ed ogni estate abbiamo insegnato ai nipotini nostri ad arrampicarsi sugli alberi, tirare con la fionda e sputare i noccioli delle cerase.

Sessant’anni sono così tanti che alla fine non ti ricordi neanche com’era la vita tua prima. Ti sembra che debba continuare così per sempre e che un giorno passerai al Creatore assieme al marito tuo, a braccetto, come quando andavate a passeggio la domenica. Ma non succede quasi mai purtroppo. Di solito uno dei due se ne va prima e lascia da solo l’altro.

Una mattina mi svegliai all’alba, la stanza era buia e tranquilla, ma c’era qualcosa che mi dava fastidio.
Nella nostra camera da letto non c’era mai silenzio. Augusto russava, ma non russava mica in maniera normale. Soffiava, sbuffava, grufolava, uno poteva stare ad ascoltarlo per ore senza annoiarsi mai. Ma quella mattina no, quella mattina era come se nella stanza non ci fosse più.
Mi girai a guardarlo e lui era lì. Immobile.
“Augù, ma che fai? Nun sarai mica morto? Dai nun scherzare, Augù”.
Che cosa stupida da dire: Augusto mio non avrebbe mai scherzato su una cosa così. Non un’altra volta.
Era proprio morto. Morto stecchito.

Ma che si more cuscì? Senza avvertire? Senza darmi il tempo di salutarti? Di dirti quanto bene ti ho voluto e quanto mi hai fatta felice?

Vengo qua tutti i giorni per dirtelo, Augù, sei stato la vita mia.


Fine.

N.d.A. La storia di Tizzoncino, il cui titolo originale è “Spera di sole”, fu scritta da Luigi Capuana(1839-1915) ed è contenuta nella raccolta “Si conta e si racconta”(Muglia Editore, 1913; Pellicanolibri, 1985).


Prologo - 1 - 2 -3-4-5-6-7- 8 - 9 - 10- 11- 12- 13- 14- 15- 16- 17- 18- 19- 20- 21- 22- 23- 24- 25- 26- 27- 28- 29
Non dimenticherò mai la prima notte di nozze. Me ne stavo accucciata sotto le coperte, aspettando lo sposo mio con lo stesso animo di uno che sta nella sala d’aspetto del dentista: un poco c’avevo voglia di scappare ed un poco di farmi cavare subito sto dente e non pensarci più.
Quando finalmente lui mi raggiunse, si sdraiò accanto a me e, senza dire manco una parola, si voltò dandomi le spalle.
“Notte, Adelì.”
“Notte, Augù.”
Dopo cinque minuti già russava come un trattore.
Forse era nervoso come me oppure l’aria spaventata mia gli aveva fatto passare tutte le voglie. La verità non me l’ha confessata mai e io non ho mai avuto la faccia di chiedergliela neanche dopo tanti anni. Ma fatto sta che, per quella sera e molte altre a venire, Augusto decise di non far rispettare i diritti suoi da marito.
Ero cresciuta in campagna in mezzo agli animali e più o meno lo sapevo come funzionavano certe cose. Ma una donna non è mica una giumenta e mamma mia s’era ben guardata dal darmi qualche spiegazione un poco utile. Che, comunque, ai tempi miei il massimo che ti diceva una madre prima dello sposalizio era: “Sta ferma e fa fare tutto allo marito tuo. Che prima inizia, prima finisce.”

La relazione tra me ed Augusto non era mai stata intima, non ci eravamo mai corteggiati né baciati, figurarsi fare altro.
Di fronte al Signore ed allo Stato eravamo marito e moglie ma tra di noi continuavamo a comportarci come prima. Eravamo parenti, stavamo diventando pure amici, ma ce ne sarebbe ancora voluto del tempo per diventare amanti prima ed innamorati poi.

I bambini invece rifiorirono subito, meglio degli alberelli a primavera. Il matrimonio era stato celebrato per il bene loro ed infatti furono loro a goderne subito i vantaggi più di chiunque altro. Stavano tornando ad essere sereni sia di giorno che di notte. Erano felici di avere la nonna e la zia sempre a casa. Delle volte però capitava ancora che al buio la paura si facesse troppo grande ed allora si presentavano tutte e due in camera nostra, mano nella mano, con le canotte che gli arrivavano ai ginocchi, i nasi che colavano e le guance sporche di pianto. Così belli e dolci da mangiarseli di baci.
Mia madre dormiva sopra un lettuccio nella stanzetta loro, ma aveva il sonno pesante e non si accorgeva di niente. Invece io sentivo i piedini ignudi sul pavimento già dal corridoio. Alzavo le coperte e senza dire una parola li facevo subito intrufolare nel lettone, che tanto di spazio ce n’era in abbondanza. Altro che due bambini, i primi tempi Augusto ed io dormivamo così distanti che in mezzo ci sarebbe potuto stare comodo pure un asino bello grasso.

Ma giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese, cominciammo a cercarci. Era la natura che ci chiamava. Se metti due giovani e sani, con tutte le cose al posto giusto, sotto lo stesso tetto e addirittura a dividere il medesimo letto è normale che la carne si risvegli. Sia quella d’Augusto che, dopo il dolore ed il lutto, sembrava finalmente ricordare la vita con i piaceri suoi. Sia la mia, che certe sensazioni ancora non le conosceva ma diventava ogni giorno più curiosa.
Delle volte, mentre lavavo le stoviglie o stavo accucciata a strofinare il bucato, mi sentivo lo sguardo di Augusto addosso. Erano solo attimi ma bruciavano come il carbone nella stufa. Quegli occhi scuri seguivano la curva abbondante dei fianchi miei o l’ondeggiare dei seni. All’inizio sembrava un ragazzino che spia dal buco della serratura ma poi divenne sempre più sfacciato. Ed io, ogni volta che incrociavo gli occhi suoi, mi sentivo tutta scombussolata come dopo una sorsata di vino caldo.

Augusto con gli occhi mi accarezzava e delle volte perfino mi spogliava, ma con le mani non mi toccava mai. Teneva quelle grandi mani sue, chiuse a pugno, dentro le tasche.
“Cuscì nun me venivano tentazioni”, mi confessò anni dopo.
Bravo. A lui non gli venivano tentazioni, ma a me continuavano a venire sempre più spesso certi pensieri strani, che a ricordarli adesso ancora mi faccio rossa come un pomodoro maturo. Mi sentivo così confusa che, se non fosse stato per la paura di essere rifiutata o di fare una brutta figura, gli avrei buttato le braccia al collo come avevo fatto con Gino. E al diavolo tutto!
A letto la distanza si faceva ogni giorno più piccola e delle volte eravamo così vicini da sentire l’uno il calore dell’altra. Fino a quando una notte la mano di Augusto si appoggiò sul fianco mio. “Si sveglia, Adelì?”, mi chiese con una voce bassa e profonda, di quelle che senti più con la pancia che con gli orecchi. Io non ebbi manco il tempo di rispondere, che dal corridoio si avvicinarono due paia di piedi scalzi.
Lui, bofonchiando una bestemmia, si girò dall’altra parte e si rimise a dormire ed io, sospirando delusa, feci salire le due pesti sul lettone. Quella fu la prima notte in cui il materasso divenne troppo piccolo per tutti e quattro.

Poco tempo dopo in paese si scatenò la festa.
Era l’estate del ’44, quando una lunga fila di camion occupò lo stradone principale come una grossa biscia. Sopra, a salutare e far festa, centinaia di giovani in divisa  sorridevano ai bambini ed ammiccavano alle femmine.
“So arrivati li americani!”, urlavamo tutti.
Che poi i nipoti miei, che so tutti studiati, m’hanno spiegato che al paese nostro ci sono venuti gli inglesi mica gli americani, ma che ne sapevamo noi a quel tempo lì? Per noi erano tutti uguali: alti, bellocci e non si capiva niente quando parlavano.
Nel giro di pochi minuti ci trovammo tutti per strada. Don Felicino con la tonaca impolverata e gli occhi rossi dall’emozione. I Casotti che ridevano e battevano le mani sognando il ritorno a casa dei figlioli loro. Annamaria che faceva girare la gonna come una bimba. Le ragazze non maritate tutte sorrisi e risatine. Ed i bambini che correvano come pazzi a fianco delle ruote dei furgoni, che erano alte quanto loro e c’era d’aver paura che qualcuno ci restasse sotto.

Quel giorno sembrò l’inizio di una vita nuova e di un mondo nuovo. Tutti noi avremmo ricordato per sempre la fame. Quella vera, che ti toglie la dignità, che ti fa litigare l’erba con gli animali e ti porta a dare la caccia ai ricci, gli uccelletti e perfino i gatti. Che se lo dici adesso la gente quasi te ne dice dietro, perché non lo sa più cosa vuol dire stare male per colpa dello stomaco vuoto.
Noi per anni siamo andati avanti con certe zuppe: tutta acqua e niente sostanza. Ed eravamo pure fortunati, perché stavamo in campagna con un poco di terra e qualche bestia, mentre quelli di città ad un certo punto non c’hanno avuto più manco gli occhi per piangere.

Tutti noi avremmo ricordato i visi e le voci di quelli che rimanevano indietro. Il bell’Emilio, che tornò chiuso in una bara di legno, lasciando la povera Costanza vedova e con tre bambini piccoli. Donato e Cristiano, fratelli di Augusto, morti talmente giovani da non avere ancora manco la barba sulla faccia. Tommaso, che era tanto bravo a fregare i frutti colorati dagli alberi in estate e a cui toccò andarsene in mezzo al freddo bianco e vuoto della Russia, e rimanerci a riposare per sempre, povero amico mio. Ed il signor Mariotti, che non tornò mai manco da morto, e che la famiglia sua piange ancora di fronte ad una targa fatta appendere dal figlio Pino, il primo giorno dei suoi vent’anni da Sindaco del paese.

Ma tutti noi ora volevamo andare avanti.
La famiglia mia aveva avuto la parte sua di disgrazie e dolori e forse anche per noi sarebbe finalmente cominciato un periodo più fortunato e lieve. Mia madre se ne stava da parte, infastidita da tutta quella confusione. Che, ormai, a lei dopo il matrimonio e la certezza di aver sistemato pure la figlia sua piccola ed i nipoti, non le importava più di niente ed aspettava solo, buona buona, di andare a riposarsi accanto a Lucia. Enrico, seduto per terra, s’impiastricciava la faccia con le cerase che gli aveva portato zia Caterina. Sandro era corso chissà dove con gli amichetti suoi.
Un ragazzotto in divisa si lisciò i baffetti sottili e mi strizzò l’occhio: “Bongiorno bela siniorina”
“E’ na signora”, gli rispose serio Augusto, stringendomi la vita con un braccio.
Mi voltai a guardarlo. C’aveva il profilo rigido e lo sguardo di un cane da guardia. Lo sguardo di un marito geloso. Lo sguardo del marito mio.
Il braccio mi stringeva con una presa che negli anni avrei saputo riconoscere pure ad occhi chiusi, ma quel giorno era ancora nuova e mi faceva bruciare la pelle attraverso i vestiti. Lasciandomi confusa e con la capoccia che girava.

Quello fu un giorno di gioia e la sera, complice l’aria di festa ed il vino, Augusto ed io facemmo all’amore per la prima volta. Furono carezze, baci e morsi. Con gli anni avremmo imparato a memoria la danza nostra ma quella prima volta, pure se confusa e faticosa, l’avremmo sempre ricordata con nostalgia.
Con le gambe ancora intrecciate gli sussurrai: “Pure la storia delli sassi era stata n’idea mia.”
“Bene, Adelì, c’hai altro da dirme? Cuscì co stanotte ce togliamo tutti li pensieri.”
“No, me sembra de no. Me sembra che t’ho detto tutto.”
“Bene.”
“Si arrabbiato?”
“No”, mi rispose lui ridendo.
“Ma che te ridi?”
“Gnente, è colpa tua.”
“Colpa mia?”
“Sì, me sa che co te me ne farò proprio tante de risate.”
“E’ na cosa brutta?”
“No anzi è na cosa bella.”

Quella notte, a più di un anno dal sì pronunciato in chiesa, cominciò realmente il matrimonio nostro.

Continua...


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Periodi brevi. Frasi semplici. Punteggiatura spietata.
È così che scrivo.

(Parentesi aperte che non si chiudono, "Virgolettati abbelliti da una memoria selettiva; subordinate che reggono altre subordinate che reggono interrogative irrisolte.
È così che vivo.
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