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Il giorno dopo il funerale, appena sveglia, mamma mia mi disse: “Ormai te si fatta grande, è ora che te metti a faticà e che la smetti de startene sempre in giro. Che se te becco ancora a fare la vagabonda te ne do tante ma cuscì tante, che nun te siedi pe na settimana!”
La buonanima di nonna Ada le aveva insegnato a ricamare quando era solo una bambina. Lei aveva fatto lo stesso con Lucia. Ed ora era venuto anche il turno mio.

“Nun so capace”, frignavo col collo storto su una tovaglia.
“Abbiamo imparato tutte, lo farai pure tu.”
“Nun è roba pe me”, insistevo con i diti che mi facevano male e l’umore nero.
“Nun dire fesserie: tu ce l’hai nellu sangue. Tutte le femmine della famiglia mia so ricamatrici.”
“Vor dire che io ho preso dalla famiglia dellu babbo, allora”, ribattevo litigando col filo che mi si attorcigliava tutto e mi faceva uscire pazza.
“Zitta, lavora e nun me fare arrabbià!”
Mai come in quei primi giorni sognai di essere nata maschio con un bel uccello tra le gambe che mi permettesse di farmi i fattacci miei in giro e di lavorare all’aperto. Avrei preferito di gran lunga la fatica dei campi alla tortura del lino, ma purtroppo tra le gambe non avevo un bel niente ed anzi mi stava pure cominciando a crescere il petto.

Io non ci avevo proprio pensato che la vita mia, dopo la morte del babbo, sarebbe cambiata così tanto. Credevo solo che senza di lui saremmo state tutte più serene, mica che mi sarei ritrovata chiusa in casa col sedere incollato alla sedia e gli occhi alla stoffa. Una vita così mi sembrava pure peggio delle botte e, dopo quasi due mesi, mentre mia madre stava fuori a dare da mangiare alle galline e Lucia era al lavatoio con le lenzuola, io feci il giro da dietro la stalla e quatta quatta me ne scappai via. Mica pensavo di non tornare più e di andarmene chissà dove. In realtà non pensavo proprio niente, non m’ero fatta dei progetti o cose così. C’avevo avuto l’occasione, m’avevano lasciato la porta della gabbia mezza aperta ed io ero corsa via. Come la solita bestia che ero.

Ci misi mezza giornata per trovare gli amici miei: al frutteto grande non ci stava nessuno, la casa di Ines era stata tutta sbarrata, e nel bosco rosso c’erano solo i Casotti a caccia di lepri.
Ormai stavo quasi per perdere la speranza quando trovai Teo e Giovanni dietro alla cappella del camposanto. Quei due angioli, tutti corna e zoccoli, stavano cacciando le lucertole. Le pigliavano per la coda, gli davano una bella sassata sulla capoccetta verde, le aprivano in due e poi le svuotavano come dei pescetti.
“Ma che schifezze fate?”
“Guarda nu poco chi ce sta: la sartina nostra”, disse Teo.
“Sartina ce sarà sorella tua.”
“Ma nun eri a faticà?”, mi chiese Giovanni.
“Me so presa na vacanza. Dove so li altri?”
“Li altri chi? Ormai nun ce sta più nisciunu. Semo rimasti solo li mejo”, mi rispose Teo tutto soddisfatto.
“E Maso?”
“Babbo suo se l’è preso a bottega, cuscì l’ha finita de darsi tante arie quellu scemo. E pure Bastiano sta pe i campi a faticà come nu mulo.”
“E Pino?”
“Coglie frutta co lu zio.”
“De già? Ma lui è ancora piccoletto.”
“Nun c’ha più lu babbo e mo deve pensarce lui alla famiglia sua.”
“Gli è morto lu babbo pure a lui?”
“No, nun è morto, se lo so’ portato via.”
“Chi?”
“E che ne so.”
“Ma perché?”
“Quante domande fai Adelì! Perché era nu cojone che nun sapeva starse zitto, cuscì m’ha detto lu babbo mio.”
A quei tempi di queste cose non ci capivo niente ma a pensare che qualcuno s’era portato via il Signor Mariotti, che con me era gentile e a Pino gli diceva sempre “Ad Adelì la devi trattare bene che è na signorina”, mi sentì pungere gli occhi, così girai i tacchi e lasciai quei due alle torture loro.
“Do vai Adelì? Tu ce poi stare co noi, mica s’imbranata come quello scemo de Gino”, cercò di fermarmi Giovanni.
“Lasciala stare a quella. Noi nun c’abbiamo bisogno de nisciunu. De nisciunu! Le femminucce c’hanno lo stomaco troppo delicato”, mi urlò dietro Teo e scoppiò nella sua brutta risata, che era uguale uguale al verso di un porco.

Quei due avrebbero passato tutta la vita assieme. Il gatto e la volpe. Il braccio e la capoccia. Lo scemo e il cattivo. Se ne andarono via dal paese negli anni ‘60, prima un poco di tempo nell’alta Italia e poi in Germania.
Teo è morto vecchio e grasso, con più soldi che capelli, una casa grande quanto una chiesa e una macchinona che manco quelli del cinematografo. Giovanni, invece, è andato al Creatore a quarant’anni senza uno spicciolo in saccoccia ma con un bel buco tra gli occhi vuoti.

Con lo stomaco ancora tutto girato andai a cercare Gino al forno di famiglia e lo trovai che giocava per strada con i fratelli suoi più piccoletti.
“Ce ne andiamo a farce nu giro?”, gli chiesi.
“Certo”, mi rispose tutto contento.
“Vieni in casa Gino”, si mise di mezzo la mamma sua. Un donnone col petto enorme e il carattere da generalessa.
“Ma stavo pe famme nu giretto co Adelina.”
“Vieni in casa, ho detto, nun me lo fare ripetere. Co l’amica tua ce ne devo parlà io.”
Lui mi guardò e sollevò le spalle: “Me spiace, ce vediamo n’altra volta”, e strascicò i piedi fino al cancello di casa.

“Vie qua ragazzè”, mi fece segno la signora Fiorucci, con le mani sui fianchi e le ascelle puzzolenti in bella vista.
Io, che già lo sapevo di non starle simpatica proprio per niente, mi avvicinai con la faccia scura e una gran voglia di litigare.
“Perché dai fastidio a lu figliolo mio?”
“Nun glie do mica fastidio.”
“E nun me rispondere, sa!”
“Ma se nun devo rispondere che me lo chiede a fa’?”
“Gino mio è nu bravo figliolo e nun se deve rovinare a girare co una come a te! Staglie lontano, capito?”
Una come me?
C’avevo solo dieci anni, ero più candida di un lenzuolo di bucato e quella stronza mi chiamava “una come a te”?
Con la faccia rossa di rabbia e gli occhi che buttavano fuoco gli urlai con tutta l’aria che c’avevo nel petto: “Ma chi lo vole allu figlio suo? Se lo pò tenere stretto alle tettone quel piscialletto de Gino. E poi lo sanno tutti che li Fiorucci c’hanno l’uccello piccolo e nun li vole nisciunu!” e scappai via di corsa.
Come si permetteva quella di trattarmi così? Quanto volte avevo salvato il sedere a quell’imbranato del figliolo suo? Non lo sapeva lei? Non sapeva che ero io che avevo preso a sassate il vecchio della vigna, quando questo aveva trovato Gino a fregarsi l’uva e l’aveva rincorso con un fucile? Non sapeva che ero io a fargli da scaletta quando quel culo pesante non riusciva a salire sugli alberi? Non sapeva che ero io che mi fermavo ad aspettarlo quando nelle corse rimaneva dietro a tutti, si teneva la mano sul fianco e manco ce la faceva a respirare?
Quella non sapeva niente ma dava lo stesso aria ai brutti denti marci suoi.

Avevo avuto proprio una bella idea a prendermi quel giorno di vacanza: a casa mi aspettava mamma con le mani che le bruciavano dalla voglia di farmi nera di schiaffi e io avevo passato comunque una giornata talmente schifosa che quasi quasi mi mancava il ricamo. 


S’era ormai fatto buio ed io me ne stavo ferma davanti a casa di Ines, a fissare la macchia scura di sangue dove c’era rimasto secco babbo mio, quando l’aria fredda che scendeva dalle montagne portò un puzzo che non sentivo da due mesi. Prima sentì l’odore acido e poi il respiro pesante dietro di me. Il sangue mi si fermò nelle vene ed il cuore mi salì fino al collo.

A voglia a non crederci agli spiriti, “E’ tornato lu babbo a prenderme pe portarme dalli diavuli”, pensai.

Continua...

 Prologo - 1 - 2 -3-4-5-6-7- 8

La vita è un domino.
Una serie di coincidenze che ti fanno andare da un posto all'altro, da un incontro all'altro.
A te viene chiesto solo di continuare a muoverti, dire molti "Sì", e pochi ponderati "No".

Ad esempio, se lo scorso autunno... anzi no, è necessario che io parta ancora prima.
Ad esempio, se nel 2000 non fossi andata a festeggiare quel Capodanno in quel posto e con quella gente, quasi 14 anni dopo non avrei riconosciuto quel nome tra i protagonisti di uno spettacolo. E non sarei andata a vedere tale spettacolo.

Se lo scorso ottobre non fossi andata a quella serata, non avrei scoperto nuovi incroci e casi incredibili. Inoltre, la settimana seguente, non sarei andata a vedere un altro show. Show che, in realtà, non ebbe luogo poiché c'era più gente sul palco che in platea.
Ma, del resto, se quello spettacolo si fosse fatto probabilmente non sarei andata a bere quella birra, non avrei accresciuto il mio numero di contatti su facebook e, mesi dopo, non avrei visto il trailer di facce da palco sulla mia bacheca.
Di conseguenza, non avrei scritto "Tu, per caso, conosci qualcuno dell'organizzazione?"
E, dopo 10 secondi, non mi sarei trovata in chat con Nathalie Bernardi, madre, presentatrice, folle ispiratrice di tutto l'ambaradan.
Quindi, il giovedì seguente, non ci saremmo viste. E io, sicuramente, non sarei diventata la blogger ufficiale del talent.

Se tutto ciò non fosse accaduto io non avrei incontrato tutta la bella gente che ho incontrato e sabato scorso, molto probabilmente, non mi sarei trovata alla prima di "Non di sola parola". 
Uno spettacolo fatto di danza, musica, poesia, immagini, luci, ombre, e parola. Ma non di sola parola, appunto.
Teatro danza arricchito dai versi di Alda Merini. Ispirato al suo talento e alla sua sofferenza. 

Foto di Sergio Sasso

Quattro donne, con il corpo e le voci, ci hanno raccontato parte della sua storia.
Una storia di dolore, sensibilità, e maternità.
Un dolore femminile e vivo.
Una femminilità sensuale, fatta di naturalezza e gioco, mai squallido calcolo. 

Le parole e la vita di Alda Merini sono un ricco patrimonio.
La compagnia teatrale delle paperelle scampate (Nathalie Bernardi, Sabrina Fraternali, Deborah Gallo),  con la partecipazione di Francesca Puopolo, la supervisione di Marilisa Bruno, le musiche di Emanuele Francesconi e Valentina Faith Guida, i video di Simone Tizzi, e le luci di Lorenzo Privitera, riesce in uno studio che è un omaggio. Una trasposizione che si fa dolorosa carne.

"Non di sola parola" è un'ora che incanta, scava e, allo stesso tempo, vola via.
Io non lo so se i genitori miei siano mai stati innamorati o se il babbo c’abbia mai almeno provato a fare il buon marito ed il buon padre. Anche se è successo mamma non me ne ha mai parlato ed io, comunque, non me lo ricordo.
Quello che ricordo è un uomo grosso ma una persona piccola piccola che quando morì non fu pianto da nessuno. Né da sua moglie né dalle sue figlie.

Noi eravamo una famiglia di disgraziati e il babbo era il più disgraziato di tutti. Era arrivato in paese con un bel sorriso sul muso e quattro spiccioli in saccoccia. Il nonno, lo sa solo il Signore perché, l’aveva subito preso in gran simpatia e se l’era messo a lavorare assieme. “Osvaldo farà cose grandi”, diceva.
Il babbo aveva ricambiato la cortesia e la fiducia portandosi per fratte l’unica figlia del nonno e, per fare le cose per benino, l’aveva pure ingravidata. 
I genitori miei si sposarono di corsa, non per amore, non per dovere, ma solo perché una femmina disonorata e uno spiantato sono destinati ad essere una coppia perfetta. Una coppia perfetta d’infelici.
Quella prima creatura gli occhi non li aprì mai, ma la mamma s’inguaiò comunque per tutta la vita e al nonno, dal dolore e la delusione, si spaccò il cuore in due e in poco tempo volò pure lui tra gli angioli.

Il babbo di voglia di faticare non ne ha mai avuta molta e, appena si ritrovò ad essere l’unico uomo di casa, non gli parve vero di poter mettersi a fare tutti i porci comodi suoi. I primi anni si bevve i soldi lasciati dalla buonanima del nonno e poi col tempo iniziò a bersi pure le bestie. Un ovetto per un quartino. Una gallina per un fiasco di quello buono. Ed un giorno d’estate, che doveva averci proprio una grande arsura, si svendette tutti i conigli. Cinque bestiole grasse, con il pelo morbido e le cosce sode. Quando mamma trovò la gabbia vuota uscì pazza: iniziò ad urlare, bestemmiare e darsi dei gran pugni sulla capoccia. A quei tempi Lucia ed io eravamo proprio piccolette e ci infilammo di corsa sotto al lettone per restarci un’ora buona, sporche di merda e piscio dallo spavento.


Al funerale in chiesa non ci stava quasi nessuno.
Al primo banco c’eravamo solo noi tre, con gli abiti neri e le facce serie che, con tutte le botte che c’eravamo prese due giorni prima, non facevamo una gran fatica a fare lo sguardo sofferente. Anzi, ci veniva proprio naturale.
Subito dietro si erano sistemate le vecchie della parrocchia, un gruppo di vedove stagionate che non si perdeva manco una messa e stava culo e camicia con Don Felicino, un poco per devozione e un poco perché il prete, bello, alto e con lo sguardo malandrino, faceva venire loro le fregole. Che a vedere quelle quattro stregacce fare peggio delle ragazzine alla loro prima botta era una cosa da far rigirare lo stomaco.
Quel 13 marzo del 1933, per l’occasione, arrivarono anche le pettegole della piazza. Non che a loro fregasse qualcosa della famiglia mia, ma vennero solo per vedere quanto fosse brutta la bara. Una cassa di assi di legno grezzo che il Comune pagava per quelli che, come noi, non c’avevano neanche gli occhi per piangere.
“Quel legno nun è bono manco pe cocere le caldarroste”, dicevano.
“Pare fatta de carta.”
“Che vergogna.” 
“Gliel’avranno messe le scarpe?”
“E lu vestito?”
“Ma certo. Che lo mettono in terra nudo come nu pupo?”
“Perché no? Cuscì li vestiti se li vendono tutti.”
“E dove lu trovano uno che se compra quelle quattro pezze puzzolenti?”
“Povere ragazze, come faranno mo senza lu babbo loro?”
“Come farà lei a crescere du figlie da sola?”
“La piccola è già mezza persa, ma magari la grande c’ha la capoccia sulle spalle.”
“Ma hai visto quant’è bella? Una cuscì c’ha già lu destino segnato.”
“Che famiglia disgraziata.”
“Che gran pena.”

Ci stanno persone che godono della miseria degli altri, soprattutto quelli che a malapena mettono assieme il pranzo con la cena ma che, a vedere chi sta peggio, si sentono meno morti di fame.
Ci stanno persone che godono delle tragedie degli altri e se con una mano pregano per te, con l’altra ti tengono la testa sott’acqua fino a quando non torni a galla tutto blu e con gli occhi rivoltati all’indietro.
Ma le peggiori sono quelle che non c’hanno neanche la buona creanza di dire cattiverie a voce bassa durante un funerale. Queste c’hanno proprio il cuore grande come l’osso d’una cerasa e l’anima nera come il carbone della stufa.

Continua...

Prologo - 1 - 2 -3-4-5-6-7
Una collaborazione simile era già stata realizzata alla fine dello scorso anno.
Ve ne ricordate? Eccola qua!

Questa volta cambia il tipo di racconto e la disegnatrice, ma non lo spirito di divertimento e sperimentazione. Io ci ho messo la storia. Gli altri tutto il resto.
E grazie agli altri, che sono troppi da nominare ma i cui nomi potrete leggere nei titoli di coda, Luca e Giovannina hanno preso vita, forma e voce.

Io, in questi momenti, mi sento come J.K.Rowling alla prima di Harry Potter. Una J.K. povera, sconosciuta, ma tanto gnocca che vede i propri personaggi diventare indipendenti. Un po' come dei figli che lasciano casa. Da una parte li vorresti rincorrere con la maglia di lana, dall'altra sei orgogliosa dei loro nuovi percorsi.

Ora basta con le chiacchiere e spazio alle immagini.
Buona visione!



Quella casa, dimenticata dal Signore ed ignorata da tutti da quasi un anno, era il posto perfetto per noi. Metà degli scalini erano marci, i vetri alle finestre rotti e, dentro i pochi mobili rimasti, si potevano trovare tante bestie diverse: ragni grossi come pagnotte, qualche lepre di passaggio e parecchi sorci.
A noi un posto così pareva meglio del paradiso.
Ci passavamo le giornate cacciando gli animali e sfidandoci per vedere chi fosse il più coraggioso e chi il più fifone. Gino, ovviamente, perdeva sempre e gli toccava continuamente pagare pegno. Tra nocchini dietro gli orecchi, scappellotti, pizzicotti e schiaffoni, quel poveraccio era sempre tutto un livido ma non si arrendeva mai, perché era pure capoccione oltre che piscialletto.
Una volta lo chiudemmo da solo là dentro e ci mettemmo a fare i versi degli animali, e chiamarlo con certe vocette maligne che avrebbero fatto cacare addosso anche un uomo fatto e finito. Lui si fiondò fuori pochi minuti dopo, bianco come un morto e con i capelli dritti in testa.
“L’ho vista! L’ho vista!”, urlava con la faccia da pazzo.
“Che hai visto?”
“Ines!”
“Chi?”
“Lo giuro: era appesa co li occhi aperti e la lingua de fora.”
“Tu si tutto scemo, quella sta sotto terra da mo. Che fa? Vene fora giusto per vedere lo brutto muso tuo?”
“Allora era nu spirito. Ma io l’ho vista, so sicuro!”
“E che faceva?”
“Me guardava fisso.”
“E nun te diceva gnente?”
“Gnente.”
“Nun t’ha detto manco: ma guarda che sfortuna, ho lassatu lu dimonio pe incontrare lu piscialletto?” lo prese in giro quella carogna di Teo. E noi, più carogne ancora, tutti giù a rotolarci in terra dal ridere.

Gino, oltre a prendersi uno spavento che quasi ci rimaneva secco, dovette anche pagare pegno: un calcione nel di dietro da parte di tutti. Tutti tranne me.
“Adelì, tocca a te”, mi chiamò Maso ed io mi sforzai di mettere su la migliore faccetta d’angiolo, “No, pe sto giro passo. S’è già preso tanta paura che nun c’ho voglia de farci pure male, poveretto a lui.”
Gli altri mi guardarono sorpresi ma non dissero nulla. I maschi si credono tanto furbi ma in fondo sono anime semplici, e non sono capaci di capire quando ad una femmina gira qualche idea particolare per la capoccia.

Era da un po’ che volevo togliermi una curiosità. Quindi, ritornando a casa, aspettai di restare sola con l’amico mio e nel bosco gli dissi: “Oggi nun t’ho tirato nu calcio anche se t’avrebbe fatto bene.”
“Grazie, Adelì.”
“Ma grazie de che? Nun me basta mica nu grazie.”
“No? E che voi? Mica c’ho gnente io.”
“Qualcosa veramente ce l’hai.”
“Cosa?”
“Prima me devi promette che nun dici gnente a li altri.”
“Te lo prometto.”
“Se, mica me fido cuscì. Me lo devi giurare croce su lu core.”
“Te lo giuro croce su lu core. Nun dico gnente a nisciunu manco se me schiacceno li diti o m’attaccheno pe li orecchi.”
“E se te mannano dietro lu cane rognoso della Pazza o te affogano nellu fiume?”
“Cacchio, Adelì, nun lo so mica se te la posso promette na cosa cuscì.”
“Nun si obbligato, pensavo de poterme fidare, ma piscialletto si e piscialletto rimani.”
“E va bene. Te lo prometto, croce su lu core: nun parlo manco se mi schiacceno li diti, mi attaccheno pe li orecchi, me mannano dietro lu cane rognoso o m’affogano nellu fiume. Mo me lo dici che voi?”
“Sì, famme vedere l’uccellu.”
“Ma che si matta?”
“Me l’hai promesso.”
“Col cavolo! T’ho promesso che nun dico gnente mica che te faccio vedere l’uccellu.”
“O l’uccellu o nu calcio.”
“E che c’entra?”
“Nun t’ho fatto pagà pegno pe vedere l’uccellu tuo, ma se fai tanto lu prezioso allora almeno lu calcione te lo devi pigliare. Queste so le regole, è tanto semplice.”
Io ero minuta, ma scalciavo peggio di un mulo e così Gino ci pensò un attimo e poi si abbassò i pantaloncini.
“Tu c’hai la capoccia tutta stramba. Ecco. Guarda.”
Fu una vera delusione.
“Tutto qua?”
“E che t’aspettavi?”
“E’ piccolo.”
“Ma che ne sai tu? E’ giusto pe l’età mia.”
“Si sicuro? A me me pare proprio piccoletto.”
“Tu de uccelli nun ce capisci gnente! Carlo dice che noi Fiorucci ce l’abbiamo tutti grosso e pure lu mio diventerà bello grande.”
“Fratello tuo diceva pure che lui faceva all’ammore co Annarella, ma lei nun se lo filava proprio. Quello ne dice tante de fesserie.”
“E che c’entra questo mo? E poi facevano pe davvero all’ammore, ma Annarella nun lo voleva far sapere alli genitori sua.”
“Comunque è brutto.”
“Carlo nun è brutto.”
“Ma che me frega de Carlo. E’ l’uccellu tuo che è brutto!”
“Ma che dici? E’ n’uccellu. Li uccelli c’hanno tutti sta faccia qua.”
Erano mesi che avevo questa curiosità. Abitavo in campagna ed avevo visto quello degli animali ma pensavo che quello degli uomini fosse diverso. Un poco speciale. Ed invece non era speciale proprio per niente.
Mi sembrava impossibile che un coso così potesse fare tanta differenza e che a babbo mio bastasse quel dito mollo per comportarsi da padrone. Certo che, nel caso suo, anche due mani grosse come badili lo aiutavano parecchio.
“Ora che t’ho fatto vedere lu mio, tu devi farme vedere la tua.”
“La mia che?”
“Lo sai. Quella cosa là.”
“Te si scemo! Nun ce penso proprio!”
“Però nun è giusto, tu lu mio l’hai visto.”
“E capirai che bello spettacolo!”
“E dai, solo nu secondo. Che te costa?”
Eravamo così presi dalle chiacchiere nostre che non lo sentimmo manco arrivare. Non facemmo caso né ai passi pesanti né al puzzo. Spuntò alle spalle mie e Gino scappò via coi calzoncini ancora calati e l’uccello accartocciato dalla paura.

“C’ho la figlia mignotta!” urlò babbo mio, caricandomi sulle spalle come un sacco di patate.
Mi trascinò fino allo stradone, gridando e sbatacchiandomi di qua e di là come un capretto, tanto che io finì pure per vomitargli sulle scarpe.
In mezzo alla gente che ci guardava schifata lui continuava a sputare veleno, “baldracca come tutte le femmine”, “chi t’ha imparato certi giochetti? Quella madonnina infilzata de sorella tua?”, “ce penso io a raddrizzarte!” diceva, riempiendomi di vergogna e mortificazione.

Arrivati a casa si scatenò il finimondo e, tra insulti e cinghiate, quella fu la serata peggiore della vita mia.
Babbo tirava colpi alla cieca: “Volevi fare nu servizietto all’amico tuo?”
Mamma si metteva in mezzo, “Lasciala stare che cuscì me l’ammazzi”, e ne prendeva pure lei.
Lucia cercava di tirarmi via, “Basta! Basta!”, e rimediava spinte e ceffoni.
Io mi coprivo la capoccia con le mano e aspettavo solo che tutto finisse, “Nun ho fatto gnente! Nun ho fatto gnente! Lo giuro!”, gridavo.
Ma più rispondevo e più lui s’incazzava: “Anche lu coraggio de parlare c’hai?”
Dopo un tempo infinito di quel manicomio il babbo mi buttò nella stalla, “Tra le vacche devi dormire, é quello lu posto tuo!”, e se ne tornò a bere con gli amichetti suoi, pacifico come se non fosse successo niente.

Passai quella notte sulla paglia, stretta tra la mamma che bestemmiava dalla rabbia e Lucia che piangeva per lo spavento. Tutte e tre rannicchiate sotto una coperta sola a cercare il caldo delle bestie come il bambinello nella capanna.

All’alba arrivò il maresciallo.
Il babbo e quegli ubriaconi degli amici suoi non avevano trovato niente di meglio che andare a far danni nella casa di Ines.
Mentre lui pisciava contro il muro, una pietra si era staccata dall’alto e gli era finita dritta sulla capoccia. Gli altri avevano urlato e chiesto aiuto, il farmacista era sceso di corsa ma non aveva potuto far niente.

Osvaldo Carretta era morto di colpo, senza un lamento, con le brache calate, le scarpe sporche di piscio e vomito, e la testa aperta come un cocomero.

Ad Ines il babbo non era mai piaciuto.

Continua...

Prologo - 1 - 2 -3-4-5-6
L'ultima serata.
L'ultimo parcheggio da cercare.
L'ultimo momento imbarazzante sul palco.
Gli ultimi abbracci.
Le ultime emozioni.

Facce da Palco è un'avventura che ho iniziato per caso, in uno dei periodi più assurdi e schizofrenici della mia vita.
Facce da Palco è stata la salvezza, l'appuntamento irrinunciabile, il divertimento, la scoperta.
Facce da Palco è finito. E ora vi racconto come.

Trucco, parrucco, parcheggio. Tutta questa roba la sapete già!
Arrivo al Cafè des Arts. Abbraccio e limono chicchessia. Bevo un mojito. Razzio i salatini del buffet. Prendo posto in prima fila.
Sono pronta.

Per la serata finale il cuore, la mente, la voce, la faccia, ogni parte dell'organizzazione di questo talent sale sul palco. Lo sketch iniziale prevede, infatti, i provini per i presentatori del prossimo anno. Gli aspiranti al titolo sono nuovamente Dragosh, Lothar e Natalia. Nel ruolo di giudici: Francesca, storica capogiuria, ed Elena, la regina del dietro le quinte e della scaletta calcolata al milionesimo di secondo.
Tutti sul palco per giocare, fare festa, salutare il pubblico.
Alla fine Natalia, grazie al grande talento e una pingue bustarella, viene confermata nel ruolo.
Il pubblico ride ed applaude!

L'applauso continua anche per accogliere Christian La Rosa, vincitore della scorsa edizione. L'attore, in onore di questo suo ritorno alle origini, ripropone Incommunicabilifamily, il pezzo che lo portò al successo l'anno scorso.
Parole e musica pe raccontare la famiglia e, soprattutto, la condizione di figlio con tutte le sue sfaccettature oscure e tragicomiche.
Christian è un artista dal grande carisma. Il suo è uno spettacolo complesso e intenso.
Io lo vedo per la prima volta. Mi piace molto. Non mi sorprende che l'anno scorso si sia meritato la vittoria.

E ora?
E ora tocca ai finalisti.
Inizia Cecilia D'Amico.
Oltre agli esilaranti personaggi femminili, questa volta si presenta anche in versione maschile. Porta sul palco Filippo da Desenzano del Garda. Un ingenuo che va in Cina per ritrovare se stesso e finisce col diventare inconsapevole e gioioso schiavo di un coltivatore di riso.
Cecilia è brava ma, se mi posso permettere di darle un consiglio, deve ancora lavorare molto su questo personaggio. Con le due donne si ride fino alle lacrime, con il ragazzino si sorride e basta. Certo, è inevitabile che uno spettacolo non mantenga sempre lo stesso livello, ma con la presenza scenica e l'abilità di scrittura di Cecilia i margini di miglioramento ci sono e devono essere colmati.

Infine, tocca a Caterina e Luca della compagnia A_tratti_brevissimi.
E' la terza volta che vedo il loro estratto da "Dialogo di una prostituta con il suo cliente". Più lo vedo e più ne apprezzo le diverse sfumature. Più lo vedo e più desidero assistere all'intera rappresentazione.
Sono stregata dall'intensità di Caterina, che passa attraverso il corpo e la voce. E dalle diverse facce del personaggio di Luca: fragile, arrogante, infantile, egoista.
Anche questa volta l'esibizione finisce tra gli applausi convinti del pubblico. E l'adorazione ormai sfacciata della blogger.


La scelta non sarà facile. I finalisti portano generi completamente diversi. L'unica cosa che li accomuna è l'innegabile talento. Patrimonio di tutti e tre.

Il pubblico vota.
La giuria anche.

Tutti assieme un'ultima volta.
Natalia annuncia: "Facce da Palco 2014 è vinto da Cecilia D'Amico!"
La comica romana si aggiudica così due serate nella prossima stagione della rassegna Off Stage.
L'amore tra Cecilia e Torino è destinato a continuare appassionatamente!

Parte la festa: baci, abbracci, fiori, risate e la malinconia per una bella avventura ormai giunta al termine.
Potrei lanciarmi in lacrimosi ringraziamenti, ma decido di darmi un contegno. Chi deve sapere già sa!

Ci si rivedrà il prossimo anno?
Credo proprio di sì!

E ora? Ora vado a recuperare la macchina parcheggiata, come al solito, a millemila chilometri!

La brutta esperienza dai Parise fece stringere le chiappe a tutti gli amici miei.
Il babbo mio aveva le mani particolarmente calde, ma non è che quelli degli altri scherzassero.
A quei tempi i figli si crescevano a pane e bastone e non era mica come adesso che, se un bambino combina qualche fesseria, i genitori lo credono sempre un angiolo pure se sulla capoccia porta le corna ed attaccata al sedere c’ha la coda. Una volta le prendevi metà dal maestro e l’altra metà a casa, metà dal parroco e l’altra metà a casa, metà dal vicino e l’altra metà a casa. E spesso, pure se non avevi fatto niente, le prendevi comunque. Giusto per star sereni.
Se i genitori di Augusto si fossero presentati a casa di qualcuno di noi per chiedere soddisfazione, non ci sarebbero bastate le lacrime per tutte le mazzate che avremmo preso.

Per un poco smettemmo di fregare la frutta e fare i prepotenti in giro, e ci dedicammo solo alla casa abbandonata dietro al mulino: il posto perfetto per starcene per i fatti nostri, non metterci nei guai ed essere lasciati in pace dai grandi.
I paesani erano tutti cacasotto superstiziosi e si credevano che quelle quattro mura fossero segnate dal demonio. La maggior parte di loro faceva di tutto per non passarci neanche davanti e, se proprio era costretta a prendere quella strada, si faceva il segno della croce e poi sputava a terra.
Ma a me quel posto non faceva paura, anzi. Lo ricordavo ancora quand’era pieno di vita e soprattutto mi ricordavo la padrona: la levatrice che ci aveva fatto nascere tutti quanti, pure me e Lucia.

Ines era allegra e sorridente, e m’era sempre piaciuta tanto. Perché era amica della mamma, anche se a noi tutto il paese ci guardava con lo schifo negli occhi, perché non si faceva problemi a prendere a male parole il babbo, “che lu diavolo te se pigli!” gli diceva, e pure perché una volta, trovandomi a rubarle le noci, invece di urlare o arrabbiarsi, mi aveva fatto entrare in casa e mi aveva offerto il latte con il miele. Che io una cosa buona come quel latte lì non l’ho più assaggiata. Da quel giorno, se la passavo a trovare, lei mi dava qualche frutto per riempirmi la pancia e poi raccontava a me ed ai bambini suoi delle storie bellissime. Ci faceva sedere tutti e tre a terra, andava ad aprire la cassapanca dove teneva il corredo e da lì tirava fuori un libro con la copertina dura, se lo metteva sui ginocchi con attenzione, manco fosse un tesoro, e cominciava a leggere. Il più piccolo dei figli suoi di solito cadeva subito addormentato. Quello più grandicello, invece, si stufava in fretta e dopo poco andava fuori a giocare col fango. Solo io rimanevo immobile con la schiena dritta e la bocca aperta a bermi tutte quelle parole, pure quelle difficili che non capivo ma che mi piacevano tanto. A quell’epoca avevo sempre la terra che mi bruciava sotto i piedi, ma Ines con le storie sue mi toglieva la voglia di scappare e m’imbambolava come una magia.
La favola che mi piaceva di più era quella di una fornaia “nera come un tizzone e brutta più del peccato mortale”, ma col cuore allegro e la risata sempre in tasca, “Tizzoncino fa l’uovo - dicevan le vicine”. Lei faceva innamorare persino quell’antipatico del Reuccio che all’inizio le sputava addosso ma poi si prendeva una gran botta e cominciava a chiamarla “Reginotta dell’anima mia!”. Quella storia lì me la sarò fatta leggere almeno dieci volte e l’ho imparata così bene che negli anni l’ho raccontata precisa precisa a tutti: Annamaria prima, e figli e nipoti poi.
Altro che principessine frignone o rimbambite, Tizzoncino era capace di mettersele tutte sotto i piedi ste signorine delicate. “Spera di sole, spera di sole, sarai Regina se Dio vuole!” e Tizzoncino regina ci diventava veramente.

Ines era bruttarella, con le braccia grosse e pelose come quelle di un uomo e un bel nasone a patata, ma non se ne dispiaceva: “Nun sarò bella ma ad Alfredo mio piaccio eccome: cinque anni che simo sposati e nun riesce ancora a tenerse li mano allu posto sua”, diceva e poi rideva, rideva forte. La sua risata era come una caciotta fresca: il benvenuto perfetto per i bambini appena venuti al mondo.
Io le volevo bene e da grande sognavo di diventare come lei, con una bella famiglia, un marito gentile ed una lingua tagliente e sfacciata per dire sempre tutto quello che mi passava per la testa.

Ma purtroppo le cose brutte capitano spesso anche alle persone buone ed Ines, nel giro di un anno, perse tutto, pure la risata e la voglia di vivere. Per colpa di una caduta da cavallo e del morbillo, le morirono prima il marito e poi i due figli. La poveretta, dopo aver seppellito anche il secondo dei bambini suoi, smise di occuparsi di se stessa e della propria casa. Venivano giù capelli e mattoni, si formavano crepe ai muri e rughe profonde intorno agli occhi suoi.

Dieci mesi dopo l’ultimo lutto i vicini, preoccupati per il puzzo ed il silenzio, andarono a bussarle. Batterono e chiamarono a lungo ma lei non rispose. Allora si fece avanti il più grande dei fratelli Casotti, quello che chiamavano “lu mulo”, e lui, a spallate e capocciate, buttò giù la porta.
Ines se ne stava lì, triste e sola, appesa al soffitto.

Quel cuore secco di Don Felicino non volle farle il funerale in chiesa e la fece seppellire in un angolino buio del campo santo, lontana dalla famiglia sua e nascosta come una delinquente. Ma, alla faccia del parroco, i fiori su quella lapide senza nome non sono mancati mai. Glieli hanno sempre portati e glieli portano ancora tutte le mamme del paese. E’ diventata una tradizione, un omaggio ed anche una scaramanzia per allontanare la malasorte, che se stai preoccupata per i figli tuoi ci pensa Ines a buttarci un occhio.
Lei non può essere finita all’inferno, come dicevano le quattro vecchiacce della Chiesa, io non ci credo. L’amica mia c’aveva il cuore troppo buono. Secondo me è volata dritta in cielo e la Vergine, appena l’ha vista, l’è andata incontro e le ha baciato prima una guancia e poi pure l’altra. E da quel momento Ines se ne sta là a raccontare favole ai bimbi che devono ancora nascere o a quelli che se ne sono già tornati indietro. La sera poi va dalla famiglia sua, Alfredo se l’abbraccia stretta e le dice in un orecchio “Reginotta, reginotta dell’anima mia” e lei ride, ride forte.
Può venire pure il vescovo in persona a dirmi che non è possibile, che quello che ha fatto Ines è un peccato troppo grave per essere perdonato, ma a me questa idea non me la toglie nessuno dalla capoccia. Lei non solo se ne sta bella bella in paradiso, ma occupa pure un posto importante. Perché almeno dall’altra parte un poco di giustizia ci deve stare.

Continua...

N.d.A. la storia di Tizzoncino, il cui titolo originale è “Spera di sole”, fu scritta da Luigi Capuana(1839-1915) ed è contenuta nella raccolta “Si conta e si racconta”(Muglia Editore, 1913; Pellicanolibri, 1985)

Prologo - 1 - 2 -3-4-5 
"Della pagina dedicata a Torino dovresti occupartene tu"
"Ok. Ma la parte scritta dovresti curarla tu"

E' nata così, un po' per scherzo e un po' sul serio, l'idea di realizzare Humans Torino. Un progetto che, sulla falsa riga di Humans of New York, vuole essere la mappatura dell'umanità che vive, visita, attraversa il capoluogo piemontese.

Che io stia vivendo una fase d'innamoramento nei confronti della mia città credo che sia evidente ai più, e quale miglior omaggio a questa se non la celebrazione dei volti e delle storie che la rendono tanto speciale?

Foto, frasi, dialoghi, e istantanee fatte solo di parole. Tutto questo grazie al lavoro congiunto del talentuoso fotografo Sergio Sasso e della volenterosa blogger Jane Pancrazia Cole.

https://www.facebook.com/humansturin?fref=ts

Visitateci, piaceteci e condivideteci.
Questa nuova avventura ha bisogno di tutto il vostro supporto e del vostro sfacciato affetto. Da parte nostra, noi ci metteremo buona volontà, molestie ai passanti e tanta voglia di raccontare.

Lucia mi trovò in lacrime per la paura, il dolore e l’umiliazione.
“Che t’è successo?”, mi chiese.
“Lo odio!”
“Chi?”
“E’ nu bugiardo. Faceva finta, faceva solo finta! Guarda che m’ha fatto”, le dissi mostrando la mia chiappa viola.
“Chi è stato? Uno de li amici tua? Te l’ho detto de nun girà co quei furfanti.”
“Ma no! Loro che c’entrano? E’ stato quello storpio dei Parise.”
“Ma chi? Augusto? Com’ha fatto? Nun era malato?”
“Sta guarendo, sto muso de cacca.”
“E viene in giro co voi?”
“No, mica cammina. Sta fermo come nu baccalà su quella sedia. Io pensavo che dormiva e me so avvicinata. Ma quella faccia da porco faceva finta e m’ha fregata.”
“Ma dov’eravate?”
“E mo che c’entra?”
“Dimme dov’eravate. Subito.”
“Nellu cortile suo.”
“E tu che ce facevi nellu cortile dei Parise?”
“Gnente, passavamo de lì.”
“Siete andati a dar fastidio a nu ragazzino malato fino a casa sua?”
“No.”
“No?”
“No. Forse. Sì”, confessai di fronte agli occhi stretti stretti di Lucia, “ma nun abbiamo fatto gnente de male. Era solo nu gioco. Nun sono riuscita manco a pigliarlo.”
La sorella mia mi guardava con la faccia severa. Non mi faceva paura. Peggio: mi faceva sentire più piccola e brutta di una zecca.
“De chi è stata sta bell’idea?”
“Che t’importa?”
“Nun sarà mica stata tua?”
“No”, dissi fissandomi i piedi zozzi.
“No?”
“No! Io glel’ho detto alli amici mia che ste cose nun se fanno. Che Gesù ce guarda dallu cielo e se siamo cattivi ce manda colli diavuli. Ma loro non m’hanno voluto ascoltà.”
“Davvero me credi tanto fessa? Tu alli diavuli te li magni, altroché! Annamo subito a chiedere scusa.”
“Scusa? A quello? Ma nun l’hai visto che m’ha fatto?”
“Sì e ha fatto pure bene. Cuscì la prossima volta ce pensi prima de fare ste furbate. Tutte e due le chiappe te doveva prendere!”
“Ma te da che parte stai? Io là nun ce torno.”
“Tu ce torni!”
“No!”
“Sì!”
“No! Tu nun me poi dare ordini!”
“Sì che posso!”
“No! Nun sei mica la mamma tu! Nun sei nisciunu! Nisciunu!”
A Lucia vennero gli occhi lucidi di lacrime. A me, però, non m’importava niente. Io, anzi, ero pure contenta. Contenta di farle dispiacere. Se neanche lei stava mai dalla parte mia allora a me non restava proprio nessuno. Se ne potevano andare tutti a quel paese. Pure lei.

“Vabbè. Come voi te”, disse la sorella mia cercando di stare calma, “ce ne stiamo qua bone bone ad aspettare che vengono li genitori sua.”
“E che ce vengono a fare qua?”
“Che ce vengono a fare? A lamentarsi co la mamma e co lu babbo.”
“E perché?”
“Ma tu davvero fai? Hai dato fastidio a lu figlio loro, sei entrata nella casa loro e, se te conosco abbastanza, c’hai anche fregato la frutta. Quelli staranno come pazzi dalla rabbia.”
Guardai Lucia con gli occhi e la bocca spalancati e poi mi afflosciai a terra, piccola e bianca come uno straccetto: “Lu babbo sta volta m’ammazza”, sussurrai.
“Lu babbo c’ammazza a tutte e tre.”
Era vero. Lui di solito non faceva differenze, quando iniziava a menare, menava alla cieca, non faceva eccezioni o favoritismi. Era molto democratico.

Credo di non aver mai avuto tanta paura in tutta la vita mia. Mi veniva da vomitare e pure da farmela addosso. Avevo voglia di scappare lontano o di scavare una buca e nascondermici dentro.
Lucia mi prese per mano ed assieme, senza dire una parola, marciammo come soldatini fino al cancello dei Parise. In realtà marciò solo lei, dritta e fiera, mentre io venni tirata dietro di peso.

Alla porta si presentò una donna bella ed elegante, con gli occhi grandi e neri e le ciglia piegate all’insù. I suoi abiti erano puliti e stirati ed alle orecchie portava dei piccoli cerchietti con dei granati. Una vera sciccheria. Una roba da signori.
“Prego?” disse, guardandoci come si guarda un cane che ti piscia davanti casa.
“Bongiorno signora Parise. Ce dispiace tanto de disturbarve”, iniziò la sorella mia tutta seria.
“Bongiorno.”
“Io so Lucia Carretta e questa è Adelina.”
“Giorno”, dissi io controvoglia.
“Lo so benissimo chi siete”, rispose la Signora con la faccia tirata e la bocca stretta a culo di gallina.
“Simo venute a chiedere scusa”, continuò Lucia e, senza prendere mai fiato, come un bimbo che recita la poesia di Natale, buttò fuori tutto il discorsetto che s’era preparata: “Adelina è piccina e se lascia trascinare da quelli più grandi de lei ma nun è cattiva e mo è molto dispiaciuta. Nun voleva fare male allu figliolo vostro. Vero Adelì?”
“Eh? Sì, sì. Certo. So stati li amici mia. E’ tutta colpa de quelli. Io nun so mica cattiva, nun so. Io ce lo so che Gesù ce guarda.”
“Mo chiedi scusa, Adelì.”
“Che? E perché? Nun è mica stata colpa mia!”
“Adelì, chiedi scusa e basta!”
Ma io avevo la capoccia dura e non volevo piegarmi neanche un po’.
“Guarda che, se nun chiedi scusa, te do nu pizzico che te faccio piagne.”
Quella col sedere viola ero io, pensavo, Augusto in fondo non aveva neanche un graffio e poi faceva la bella vita in una casa da signori con una mamma tutta profumata. Perché dovevo pure chiedergli scusa?
“Adelì, simo venute apposta.”
“E infatti io nun ce volevo venì.”
“O chiedi scusa o ce ne torniamo de corsa alla casa, che lu babbo c’aspetta.”
La paura del babbo mio era sempre un buon modo per sciogliermi la lingua e Lucia lo sapeva bene, perché non era solo buona ma pure furba.
“Scusateme”, mi decisi finalmente a bofonchiare con la vocetta bassa e gli occhi appiccicati a terra.

La signora Parise avrà avuto di certo una gran voglia di mettermi sulle ginocchia e farmi diventare il culo nero a forza di pacche, che se non ce l’aveva prima di sicuro le era venuta dopo tutto questo teatrino, ma da signora qual’era mantenne la calma e rivolta a Lucia disse: “Scuse accettate, ma avverti li genitori tua che stasera io e lu maritu mio veniamo a farve visita. Sta bimbetta c’ha bisogno de na bella raddrizzata.”
“No!” rispose allarmata Lucia.
“No?”
“No, volevo dire, no, nun ve dovete disturbare. Ve prometto che d’ora in poi ce penserò io a lei.”
“Nun te preoccupare, nessun disturbo.”
“Signora Parise, ve prego, site gentile. Nun mettiamo in mezzo lu babbo. Gli diamo già tanti pensieri cuscì. Ve prego”, chiese Lucia, con la voce che iniziava a tremare.
La madre di Augusto guardò la sorella mia, una ragazzina che provava a fare la grande, e poi guardò me, una bambina brutta e cattiva come un vecchio cane randagio ma spaventata e piccola come un cuccioletto con gli occhi ancora chiusi. E finalmente sembrò capire. Le rughe della fronte le si appiattirono tutte e lo sguardo le s’intenerì un poco. Dovevamo fare proprio tanta pena, e quella donna doveva avere il cuore proprio tanto grande se riuscì ad addolcirsi anche con me: il mostro che le aveva appena preso a sassate il figlio malato.
“Forse c’hai ragione tu, nun c’è bisogno de disturbare li tua. Ma tieni d’occhio sta peste, me raccomanno.”
“Certo. Lo farò. Ve ringrazio, site davvero molto gentile. Lu Signore ve renderà merito.”
“Mo che ce siamo chiarite, perché nun venite tutte e due dentro a bere nu poco de latte caldo?”
Io mi feci avanti tutta contenta, che da piccola c’avevo più stomaco che coscienza, ma Lucia m’acchiappò per il collo: “No, ve ringraziamo molto signora Parise, ma la mamma e lu babbo ce stanno aspettando alla casa. E se facciamo tardi stanno in pensiero.”
“C’hai ragione. Sei proprio na signorina pe bene. La sorella tua è fortunata ad averce almeno a te.”

Pochi minuti dopo, rientrando a casa, sentimmo le solite urla dalla cucina e ci mettemmo buone buone nella stalla ad aspettare. Quella volta non corsi via, ma rimasi con la testa appoggiata sulle gambe di Lucia a frignare.
“Tranquilla, Adelì, ce sto qua io co te, nun si sola.”
“Potevamo bere lu latte dei Parise, però” dissi tirando su col naso.
“Ma c’hai sempre fame tu?”
“Lu latte caldo è bono. Quelli so ricchi e magari c’hanno pure lu miele.”
“Sei senza fondo e pure senza vergogna. Che c’entriamo noi in quella casa?”
“C’ha invitato la padrona.”
“Ce stava facendo la carità.”
“E che male c’è?”
“Li pezzenti prendono la carità.”
“E noi che simo? Nun simo pezzenti?”
“Guai a te se te fai sentire da mamma a dire na cosa cuscì. Noi simo na famiglia pe bene e nun c’abbiamo bisogno della carità de nisciunu.”
Sbuffai ma rimasi accucciata contro Lucia che mi cullava come fossi una creatura.

Fuori iniziò a piovere e ci riparammo dal freddo mettendoci sotto la paglia. Le nostre bestie ci guardavano con i loro grandi occhi tristi. Forse non eravamo pezzenti ma eravamo sicuramente disgraziate. Talmente disgraziate da far pena pure a due vacche.

Continua...

Prologo - 1 - 2 -3-4 
Augusto mio non è mai stato una gran bellezza.
Era piccoletto con la fronte bassa e tanti capelli duri come il fil di ferro, che per sistemarglieli ogni mattina era una battaglia. Prima di andare in fabbrica lui si sedeva in canottiera, ed io bagnavo il pettine in un catino pieno d’acqua. Stavo in piedi tra le gambe sue e gli tenevo la testa premuta contro il petto. Lui un poco rideva e un poco si lamentava: “Piano Adelì, me voi tirare lu collo come a na gallina?”
“Ma sta zitto tu, che si comodo come tra du guanciali. E tieni le mano apposto sa!” lo sgridavo per gioco, mentre lui faceva il furbo e s’aggrappava ai fianchi miei.
“Bella la moglie mia”, diceva Augù, “morbida come na mozzarella e dolce come nu limone.”
Quel momento della giornata era tutto nostro, e ci piaceva così tanto che andammo avanti a farlo anche quando di capelli ormai glien’erano rimasti pochini.
Quanto mi mancano le mani sue e pure quella voce bassa bassa che usava solo con me. A pensarci mi viene una nostalgia che starei qui a frignare per ore, peggio d’un pupo.

L’amore mio era pure zoppo, perché da ragazzino aveva avuto una brutta malattia, quella che ti lascia con una gamba più piccola dell’altra: la polio. Per camminare c’aveva bisogno del bastone ma lavorava come e più degli altri, faceva il doppio della fatica e non chiedeva mai sconti.

Ma quel pomeriggio di quasi ottant’anni fa, quando lo incontrai per la prima volta, non vidi l’uomo che sarebbe diventato ma solo il ragazzino che era.
Noi disgraziati ci eravamo arrampicati sul muro del cortile suo per arrivare ai frutti di un albero, e da lì l’avevamo visto. Era più grande di tutti noi e se ne stava buono buono, seduto su una seggiola, con una gamba secca e storta che gli sporgeva dai pantaloni corti.
“Ma che c’ha quello?”, chiesi agli altri.
“C’ha avuto na brutta malattia ma adesso sta guarendo”, mi rispose Maso, figlio del ciabattino e di una delle impiccione della piazza, e per questo informato su tutti i fatti del paese, meglio del confessore di Santa Rita.
“A me quella gamba me fa paura.”
“Lo sapevo io. Questa se da tante arie ma è na cacasotto proprio come tutte le femmine”, disse quella lingua velenosa di Teo, che a me non m’ha mai potuta vedere.
Gli altri si misero tutti a ridacchiare. Tutti. Si credevano meglio di me solo perché erano maschi. Come se ci volesse un talento particolare a nascere coll’uccello tra le gambe.

Io sono sempre stata bella fumantina e questo bastò per farmi andare subito il sangue alla testa. E quindi, per dimostrare il coraggio mio e che pure se ero femmina non valevo meno di loro, non trovai niente di meglio che inventare il “tiro allo storpio”.
La storia che tutti i bimbi sono buoni come angioli e solo crescendo si fanno cattivi è una gran fesseria. Alcuni bambini sono senza sentimenti come e più degli adulti ed io, da questo punto di vista, ero proprio un bell’esempio. Ero dispettosa e pure prepotente. Non ne vado mica fiera e non sto qui a vantarmi, ma ero fatta proprio così, e la storia mia o la racconto per benino o non la racconto per niente.
Comunque, a tutto il gruppo di santi con cui m’accompagnavo la mia idea piacque tantissimo. A tutti tranne che a Bastiano: “Mamma dice che Gesù me guarda dallu paradiso e che se faccio qualcosa de brutto se lo segna e poi me manna a bruciare assieme alli diavuli. Io nun ce voglio bruciare colli diavuli!”
Nessuno di noi voleva scottarsi i piedi sui carboni dell’inferno e così decidemmo che non c’era bisogno di colpire davvero Augusto, ma che il vincitore sarebbe stato quello che col sasso si avvicinava di più. Praticamente giocammo a bocce con la capoccia del futuro marito mio.

Per una settimana, quando tutti erano a scuola o nei campi, ci arrampicammo sul muro e ci dedicammo al nuovo passatempo nostro. I giorni andavano avanti e Augusto se ne stava al sole con gli occhi chiusi, senza muoversi. Sembrava che neanche si accorgesse di noi e questo ci faceva ogni volta più sfacciati e curiosi, fino a quella mattina disgraziata.
“Ma nun sarà mica morto?”, si preoccupò Giovanni.
“Ma quanto si scemo? Nun vedi che respira, starà a durmì”, rispose Teo.
“Forse è sordo” azzardò Pino.
“Pe me è solo scemo” la chiusi io, infilando il mio corpo gracilino attraverso una grande crepa del muro ed entrando nel cortile. Iniziai ad avvicinarmi a passi lenti, come un gattaccio secco e nero che vuole mangiarsi un uccelletto.
“Ma che fai? Vieni via!” disse Gino.
“Zitto tu”, lo sgridò Maso, “brava Adelì, vacce vicino! Vacce vicino e mollaglie na sassata sulla capoccia!”
Non ebbi neanche il tempo di alzare il braccio che Augusto spalancò gli occhi e si sporse in avanti.
Vidi solo la fionda che veniva tesa e mi voltai per scappare. Ero quasi alla crepa quando sentì un gran male al fondo schiena, un bruciore peggio del morso d’un cane.
Ma il dolore non mi fece fermare. Corsi fino a quando non sentii più le urla degli amici miei, “Scappa Adelì, scappa!”, e dei Parise che si erano affacciati richiamati da tutta quella confusione, “Acchiappate quei disgraziati!”
Corsi a perdifiato fino a quando non fui sola.
Corsi alla stalla con sedere ed orgoglio fatti a bozzi.

Augusto aveva aperto gli occhi e mi aveva sorriso. Era stato tutti quei giorni fermo, aspettando che uno di noi fosse così scemo da avvicinarsi. Era ancora troppo debole e non poteva alzarsi per venire a darci una lezione, e così aveva atteso tranquillo e con la pazienza d’un santo che fossimo noi ad andare da lui.
La prima a cascarci ero stata io.
Augusto mi aveva fatto fessa. Che gran cornuto!

Continua...

Prologo - 1 - 2 -3

Sono una single di ritorno.
Cos'é una single di ritorno?
Una che è stata impegnata per una quantità infinita di anni in una relazione. Una che a spizzichi e mozzichi ha persino convissuto. Una che a 36 anni ha deciso che era meglio piantarla lì!

L'ultima volta che sono stata libera per un periodo di tempo superiore a un paio di mesi avevo 23 anni, era il 2000, e fuggivo a Berlino.

Questa volta?
Sono tornata a Torino.
E ho fatto il mio trionfale ingresso nel mondo dei single quasi quarantenni. Un mondo che, a distanza di un anno, mi appare ancora come un'aliena follia!

Nel 2000 non c'era facebook. Non c'era whatsapp. Non c'erano gli smartphone.
Nel 2000 ero giovane, giovanissima.
Nel 2000 per me non avevano nessun significato espressioni del tipo: "Visualizzato alle" o "ultimo accesso"
Nel 2000 le mie ovaie non erano motivo di discussione.

Sono tornata single e le prime perle di saggezza che ho ricevuto dagli amici miei più cari sono state:
"Gli uomini mentono"
"Non ti puoi fidare di nessuno"
"Io c'ho messo più di quattro anni per ritrovarne uno decente. Tu non hai fretta, vero?"

Io, intanto, c'ho messo più di un anno per scrivere il primo post al riguardo.
Ma non sarà l'ultimo. Le aliene follie hanno sempre il loro malato fascino.

Continua...
D’inverno, nei giorni in cui era troppo freddo per stare fuori, invece di andarcene in giro a perder tempo ce ne andavamo a scuola. A perder tempo.

A quell’epoca là le femmine stavano da una parte e i maschi dall’altra.
La maestra mia era la signorina Cesira, una zitella che veniva dalla città e che a noi paesane ci guardava con lo schifo negli occhi. Era brutta come la fame, con la sua capoccetta tonda, le spallucce strette ed i fianchi talmente larghi che tra i banchi manco ci passava. La chiamavamo “La Pera”, perché era proprio tale e quale al frutto, larga sotto e stretta sopra, le mancava solo il picciolo in testa.
Alle poveracce come me ci metteva sempre in fondo, che tanto stare ad insegnare le cose ai morti di fame, specialmente se femmine, era fatica sprecata. Noi eravamo destinate a lavorare come muli e pregare di trovare un fesso che ci sposasse. A che ci serviva leggere, scrivere oppure fare di conto? A niente, pensava quella strega, e così ci chiedeva solo di starcene zitte, buone e non disturbare. Zitte, buone e ammazzarci di noia.

Per fortuna qualche volta a portare un poco di vita ci pensava La Pazza, che veniva a ballare e cantare di fronte alle finestre nostre. C’aveva l’età di mamma, ma si metteva a girare in tondo e ad alzare la gonna come una bambina. Girava e cantava. Girava e cantava, sempre più veloce e sempre più stonata.
La maestra Cesira non la poteva vedere. Ogni volta si faceva verde dalla rabbia e, con gli occhi che le uscivano di fuori, le urlava contro per scacciarla peggio d’una bestia. Ma La Pazza non si faceva impressionare e cantava più forte, girava più in fretta e si alzava la gonna ancora più in alto. Che delle volte le si vedevano persino le mutande. A quel punto arrivavano di corsa la Vedova del Dottore o la signora Agnese, la nonna di Augusto. Le parlavano piano piano, le sistemavano i capelli per benino dietro gli orecchi, le lisciavano la gonna sopra i ginocchi, se la mettevano sotto braccio e la portavano via, manco fosse una figlia loro.

La Pera proprio non lo capiva che cosa ci trovassimo tutti quanti in “questa sciroccata senza vergogna o dignità”, ma La Pazza faceva parte del paese nostro, come la cappella con la faccia scrostata di Santa Rita, la fontana senza acqua del portico o il muro mezzo cascato del frutteto grande. Noi li conoscevamo bene i difetti loro ma guai a chi ce li toccava.

L’unico vero problema a scuola mia era Angela. Quella gallina si dava le arie solo perché c’avevano il soldo, e le piaceva proprio tanto farmi i dispetti o dirmi le cattiverie.
Aveva tre anni più di me, pesava quanto un bue e menava peggio d’un uomo. Io, al confronto suo, ero un fringuellino, un mucchietto d’ossi leggeri leggeri, ma non mi facevo certo spaventare, anzi.
Tra di noi volavano brutte parole, schiaffoni, morsi e pure graffi. Lei aveva certe manone che sembravano delle pale. Io mordevo meglio d’un sorcio e per staccarmi ci si dovevano mettere in tre. Poi però arrivava quella guasta feste della signorina Cesira che mi trascinava fino alla cattedra tirandomi per una recchia o per i capelli, secondo quello che acchiappava prima.
“Mi devi dare sempre problemi tu, eh?”, diceva.
“Nun ho mica cominciato io.”
“Non ho voglia di sentire le tue solite scuse. Cosa ti ha fatto la povera Angelina? Perché te la prendi sempre con lei?”
“Angelina? Ma quale Angelina? Ma l’avete vista quant’è grossa quella? Sopra lu culo suo ce se pò apparecchià.”
“Sei proprio un’erba cattiva ed anche una gran maleducata. Angelina ha solo le ossa un poco grandi e poi è una signorina come si deve, che arriva da una famiglia per bene, mica come te.”
A me saliva su un nervoso che avrei voluto prendere a brutte parole pure la maestra, ma mi mordevo la lingua e stavo zitta. Che all’epoca mia i piccoli ai grandi non ci potevano dire niente.
Quella, intanto, tirava fuori la riga e si faceva tutta seria, “Fammi vedere le mani”, mi ordinava. E mi dava certi colpi secchi che si sentiva il rumore fino nel corridoio. Angela se la rideva sotto i baffi con tutte le amichette sue. Io invece guardavo fisso davanti a me senza un fiato o una smorfia, perché la soddisfazione di vedermi piangere a quella grassona e, soprattutto, a quel cuore arido della maestra non gliela davo di certo.

Così, un giorno sì e l’altro pure, prima di tornare a casa andavo al ruscello con Pino e infilavamo tutti e due le mani gonfie nell’acqua gelata.
“Tu che hai fatto stavolta?”, mi chiedeva lui.
“Gnente. E tu?”
“Io c’ho lu babbo rusciu. Ogni scusa è bona per darme le mazzate.”
“Ma che vor dì rusciu? Come lu vino? E’ mbriacone come babbo mio?”
“No, vor dire che la penza diversa dalli altri.”
“E tu che c’entri?”
“E che ne so! Se la pigliassero co lui. Mamma dice che per colpa sua la gente ce guarda storto e ce fa lavorà poco”
“Allora è come essere mbriaconi. Uguale uguale”
“Sì ma lui nun me mena”
“Allora è nu poco mejo”.

Continua...

Prologo - 1 - 2
Al cinema si sente il profumo dei pop corn.
Si percepisce la moquette sotto i piedi.
Si attende che la pubblicità finisca.
Si prova l'emozione dell'aspettativa quando il film comincia.

Poi, alla fine, si è delusi o soddisfatti.
Qualche volta, però, capita di essere addirittura stupiti e felici.

E' quello che è successo a me vedendo Lei di Spike Jonze.
Non so cosa mi aspettassi da questo film, ma di sicuro non tutto quello che vi ho trovato.

L'uomo e la macchina.
Pensavo che avrei visto la solita storia in cui la macchina cerca disperatamente di farsi carne.
E invece no, niente di tutto questo.
La pellicola racconta la piccolezza dell'uomo. La sua debolezza. Il suo disperato bisogno di non sentirsi solo. Ad ogni costo.

Le macchine non scimmiottano gli esseri umani.
Loro vanno oltre.
Loro sono altro.
Le loro infinite potenzialità le fanno guardare agli uomini  come gli dei guarderebbero ai mortali. Con simpatia, affetto, ma il distacco delle realtà inconciliabili.
Gli uomini si aggrappano loro. Loro non possono far altro che evolversi, liberandosi con un leggero simbolico scrollo di spalle, di un peso lieve, piacevole ma inutile.

Un ottimo Joaquin Phoenix e, nella versione doppiata, una Micaela Ramazzotti all'altezza della situazione.

Una sceneggiatura magistrale.
Una colonna sonora che incanta.



Un film che mi ha regalato, dopo molto tempo, la vera magia del cinema.
Da quel giorno, appena potevo, mollavo Lucia da sola tra la merda di vacca, e correvo da loro.

Tommaso, detto Maso, sapeva andare su e giù dagli alberi meglio d’un gatto e si faceva rispettare da tutti in paese, da quelli più piccoli fino a quelli già grandi.
Gino, il piscialletto, aveva paura pure dell’ombra sua, ma era il migliore amico mio e, quando c’avevo di bisogno, c’era sempre.
Bastiano, grosso quanto un toro, a vederlo con quel collo corto e le braccia grandi come cosce faceva quasi spavento, ma in realtà era buono come il pane. Un ragazzetto di cuore che non avrebbe fatto male manco ad una formica.
Teo invece no, quello era proprio cattivo e traditore di natura. Mentre il cugino suo, Giovanni lo scemo, c’aveva la capoccia così vuota che, se ci avvicinavi l’orecchio, potevi sentire il vento.
E poi ci stava Pino, secco e veloce più di un pescetto nell’acqua. Aveva la risata allegra come il campanello d’una bicicletta e la conservò pure dopo che quelli delle squadracce gli portarono via il babbo, e lui si ritrovò a dover fare “l’omo de casa” con i calzoni corti e la vocetta ancora buona per il coro della chiesa.

Io mi sentivo come l’unica sorella in mezzo a tanti fratelli e mi piaceva così.

Facevamo l’acchiapparello tra gli alberi del bosco rosso, andavamo allo stagno a catturare le rane, giocavamo alla guerra con cerbottane e lance, prendevamo a sassate il cane rabbioso della Pazza, e ci riempivamo la pancia coi frutti presi a scrocco.
Io c’avevo sempre una gran fame e non riuscivo proprio a trattenermi. Ogni volta era meglio d’una festa e mangiavo così tanto da stare male. Come quel giorno che, per colpa delle prugne dei Casotti, passai il pomeriggio accucciata al ruscello con la cacarella, i crampi ed i sudori freddi. Alla fine avevo le gambe che mi tremavano come quelle di un vecchio ed una faccia così smunta che parevo morta.
La mamma ebbe paura e, credendo mi fossi presa chissà quale brutta malattia, mi vegliò tutta la notte, pregando la Vergine di non farmi volare in cielo dai fratelli miei. Pregava a voce bassa e mi teneva la mano sulla fronte. Io stavo ferma e mi godevo quel calduccio lì. Che mamma mia non è mai stata tipa da tante coccole, e un momento cuscì era proprio una roba speciale.

Se quella povera donna sapesse ora la verità, verrebbe dritta dritta giù dal cielo e me ne darebbe tante ma tante che di bastoni per camminare poi me ne servirebbero due.

Continua...

Prologo - 1
Io e lo sposo mio siamo cresciuti nello stesso paese. Un pugno di case appiccicate con lo sputo sulla collina, coi campi grandi come fazzoletti e i frutteti profumati come le pasticcerie di città.
La famiglia sua era fatta da signori. La mia da disgraziati.

Io ero una piccola vagabonda che si passava le giornate in giro a combinare chissà cosa e chissà con chi. Quel cornuto del parroco, la perpetua e le impiccione della piazza dicevano che ero nata guasta come la carne che si vendeva a valle, ed il mio destino sarebbe stato quello della femmina perduta.
Pensare che c’avevo le mie buone ragioni per stare sempre fuori casa e tutti lo sapevano benissimo. Ma si sa che a farsi i fatti propri si campa cent’anni e degli altri chi se ne fotte!

Il babbo mio aveva due grandi passioni: il vino e le donne. Il vino lo beveva, le donne le menava. Era grasso e pigro, sempre troppo stracco per alzare il culo ed andare a lavorare, ma quando c’era da rincorrerci con la cinghia recuperava tutte le energie. Ribaltava il tavolo, rompeva le sedie e ci urlava dietro le peggio cose. Tanto che io a cinque anni conoscevo certi insulti da fare rigirare i morti nelle tombe e far cadere l’aureola ai santi.

Quando lui tornava a casa con addosso quel puzzo acido che si sentiva dal fondo della strada, la mamma ci sbatteva fuori senza troppe cerimonie e rimaneva da sola ad affrontarlo, colpo su colpo e bestemmia su bestemmia.

Ho passato i primi anni della vita mia nascosta nella stalla, mano nella mano con Lucia.
“Nun te preoccupà, Adelì, vedi che mo la smettono”, mi diceva la sorella mia, cercando di convincere un poco lei e un poco me.
“Annamo via”, frignavo col cuore che mi batteva come quello d’un uccelletto.
“No, nun possiamo lasciare la mamma da sola.”
“Torniamo quando lu babbo dorme.”
“E se lei c’ha di bisogno prima?”
“Pe piacere, Lucì.”
“No, t’ho detto de no. Ce ne stiamo qua bone bone.”

La sorella mia non è mai stata piccina ma ha avuto la disgrazia di nascere già grande. Una di quelle donnine fatte e finite, giudiziose fin dalla culla, condannate a fare sempre la cosa giusta.
Lei sì. Ma io no.
“Du figlie più diverse nun me potevano uscì”, diceva sempre mamma, “Una è na santa e l’altra è uguale a quell’ubriacone bono a gnente de babbo suo. Nata pe famme disperà”.

Non arrivavo ancora a sei anni quando scappai per la prima volta. Lasciai la mano di Lucia e corsi lontano, fuori dalla stalla, come un animaletto che fugge dal foco. Mi fermai solo all’inizio dello stradone che portava a valle. Lì ci stava un gruppo di ragazzetti un poco più grandi di me. Uno a cavallo su un ramo di ceraso. Gli altri, a terra, ad acchiappare al volo i frutti.
“E sta qua chi è?”, chiese uno di loro.
“Na figlia delli Carretta”, rispose un altro.
“E che vole?”
“E che ne so io! Chiedicelo a lei.”
“Ehi tu, bestiolina, ce l’hai la lingua o babbo tuo se l’è vennuta pe nu fiasco de vino?”
“Eccerto che ce l’ho, cojone!”
Mi guardarono con le bocche aperte da fessi. Poi Maso, quello sull’albero, scoppiò a ridere e gli altri dietro a lui.
Ora pure io c’avevo degli amici.

Continua...

Prologo

Ieri ero a teatro.
Una donna ha starnutito.
Un rumore impercettibile, un soffio delicato, un breve squittio.
Me ne sono resa conto solo perché era seduta accanto a me.

E' così che starnutiscono le donne.
Tutte.
Tutte tranne me.

Che inadeguatezza.
Ogni mattina mi sveglio presto, tiro su i capelli come piacevano al marito mio, metto l’acqua di colonia dietro agli orecchi e piano piano, con la pioggia o con il sole, mi trascino fino a qua.

Tra le pietre, le fiammelle e gli alberi dritti, siamo sempre le stesse quattro facce: un gruppo di vecchi così rimbambiti che non c’è manco gusto a parlarci assieme.
Ci stanno le zitelle Zaccaria che avranno trecento anni in due ma sono ancora impiccione com’erano da ragazzine, e com’era quella lingua velenosa della madre loro. Sono rimaste pettegole ma si sono fatte pure smemorate, e ormai ripetono sempre le stesse domande. Per loro deve essere la peggiore delle iatture: sanno tutti i fatti degli altri ma non se li ricordano.
Poi ci sta la vedova Greco che, con un piede già nella fossa, se ne va in giro con la cofana color carta da zucchero, il rossetto e le guance dipinte. Senza vergogna era da giovane e senza vergogna è rimasta. L’unico figlio suo vive lontano e non la viene mai a trovare. Lei si sente sola e così va sempre a tormentare quel poveraccio del marito e gli parla di fesserie per ore. Da vivo gli ha riempito la capoccia di corna ed ora che è morto gliela riempie di chiacchiere.
Ma il peggiore di tutti è il Cavalier Casotti, fanfarone e cascamorto tale e quale al fratello Emilio. Quando mi vede si toglie il cappello e comincia: “Ma come ve trovo bene signora Adelina”, “Ve andrebbe nu caffè signora Adelina?”, “Ieri so stato a ballare, perché qualche volta nun ce venite pure voi signora Adelina? Se nun ve reggono le gambe ve reggo io”
Chi gliel’ha data tutta questa confidenza? Se il bastone non mi servisse per camminare gliel’avrei già spaccato su quella capoccia pelata, razza di scostumato!
E’ proprio vero: gli uomini sono tutti uguali e dai quindici ai novantacinque anni pensano sempre a quella cosa là.

Tutti uguali tranne Augusto mio. Lui sì che era una persona seria, un uomo per bene come non ne fanno più. Era serio ma non era mica nu baccalà, aveva il sangue caldo anche lui e a letto sapeva fare il suo dovere, lo sapeva fare eccome. Sei figli m’ha dato. Tutti maschi e tutti sani e forti come tori.

Eccolo là. Quant’è brutto. Appena la vidi glielo dissi subito: “Augù, sta foto è cuscì brutta che te la metterò sulla tomba”.

Continua...
Voi non sarete mica di quelli col pollice verde?
Io no.
Per le piante io non sono Pancrazia ma Napalm.
Io porto morte e distruzione.
Non vorrei ma lo faccio.

Non sono mai stata un'appassionata di botanica, ma il mio talento da devastatrice è diventato palese solo nell'ultimo anno. Anno che mi ha visto per la prima volta vivere da sola. Da sola con le piante che amici e parenti mi hanno regalato per festeggiare il nuovo domicilio.

Non ho più potuto affidare alle cure degli altri le mie verdi amiche.
Non ho più potuto incolpare il freddo di montagna o gli inquilini distratti per la morte prematura della flora casalinga.
Negli ultimi 10 mesi sono stata l'unica responsabile della vita breve e della morte precoce di tutte le piante di casa mia.

Niente, non è sopravvissuto niente.

Sempreverdi, stelle di natale, piante grasse, secche, finte magre, tutte sono state abbattutte dalla mia impietosa scure.

Ad inizio aprile ho regalato delle margherite a mia sorella.
"Quanto durano?" ho chiesto al fioraio.
"Tutta la primavera" mi ha risposto.
Ne ho preso un vaso anche per me.

Quelle di mia sorella sono vive e vegete.
Le mie...





Niente, non sopravvive niente.

Vi avevo promesso un nuovo progetto.
Ogni promessa è un debito.

Da dopodomani, mercoledì 7 maggio, inizierò a pubblicare un mio romanzo.
No, non temete, non ci saranno attese bibliche questa volta. Il lavoro è finito da un pezzo e io devo solo programmare tre post a settimana: il lunedì, il mercoledì e il venerdì.

In principio fu una storia vera. La storia divenne un racconto, che i più affezionati di voi ricorderanno.
Un racconto spedito a una piccola casa editriche che mi propose di farne un romazo.
Io così feci, ma nel frattempo la casa editrice visse periodi di crisi e revisione editoriale, e io rimasi con il mio piccolo mondo inventato impigliato tra le mani.

Da quel momento in poi il manoscritto ha vissuto periodi bui e luminosi. Più bui che luminosi, a dire il vero.
Ha visto apprezzamenti e bocciature, ma mai una concreta, realistica e non truffaldina possibilità di stampa.

E quindi?
E quindi io ho deciso che questo mio esperimento doveva comunque vedere la luce.
Scrivo per essere letta. Scrivo per raccontare storie. E se una storia non viene raccontata che razza di storia è?

Dopodomani si parte col prologo.
La protagonista vi accompagnerà lungo la sua vita.
Ci saranno sorrisi, lacrime, e ciliegie. Tante ciliegie.
Se vi va, state ad ascoltarla.


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