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Ad inizio agosto Sissi ed io, una in partenza da Cesena e l'altra da Torino, ci ritrovammo sullo stesso treno.
Direzione Napoli.

Appena la vettura si fermò, allungai il collo cercando di rendere visibile la mia testa riccia. Sissi mi individuò immediatamente, ci sedemmo vicine e, da quel momento, iniziò l'inferno.
No, non per noi. Per tutti gli altri.
Per tutti gli altri passeggeri che dovettero subire chiacchiere, confidenze, ricordi e risate di due amiche che non si vedevano da anni.

Iniziammo a parlare appena sedute e non chiudemmo le nostre boccucce sante fino all'arrivo nel capoluogo partenopeo.

Qualche nostro compagno di viaggio tentò di togliersi la vita, o di strapparsi le orecchie e farne due deliziosi ciondoli.
Qualche altro provò a toglierci la vita, o a strapparci le corde vocali e farne una comoda arpa tascabile.
Alla fine, comunque, giungemmo tutti a destinazione.
Sani e salvi.
Noi un po' svociate. Gli altri un poco esauriti.

Dopo il treno, per raggiungere la provincia di Avellino, ci toccò imbarcarci sopra una corriera priva di aria condizionata e con l'umidità pari a quella di un bagno turco.
E a me, personalmente, toccò pure sopportare il dileggio telefonico di Gra'.
"Dove siete?"
"Siamo in corriera, appena partite dalla stazione"
"In corriera? uahuahauahauah corriera? uahauhauahauahauh ma come parli? uahauahauhauah come sei vintage!"

Sissi cercò di rassicurarmi:
"Anch'io dico corriera, non ti preoccupare"
Io, invero, non mi sentii affatto rassicurata.
La mia amica cesenate, infatti, è famosa per "parlare strano". Lei, ad esempio, usa il termine "bagaglio" per indicare qualsiasi cosa.
"Mi passi quel bagaglio?", ti dice.
E mentre tu cerchi da qualche parte una valigia, o almeno una borsa, scopri che lei voleva l'aspirapolvere, il tostapane, o un set di posate da 24.
Perché, come disse un giorno Martino, il nostro compagnuccio veneto, "a fare l'Erasmus non solo ho imparato il tedesco, ma soprattutto ho imparato che nessuno parla bene l'italiano. Né a nord né a sud. Subiamo tutti fortissime influenze locali."
Per lui non era una cosa buona. Affatto.
Per me, invece, è un'enorme ricchezza.

Io, ad esempio, ho cominciato ad usare i termini "assai" e "scostumato" proprio dopo aver conosciuto Gra' di Avellino. Ariano Irpino per la precisione.
Termini che non appartengono alla mia terra, ma che sono di inarrivabile perfezione.
Perché "assai" è infinitamente meglio di "molto". Più ricco. Più pieno. Più denso. Con un peso specifico maggiore.
E perché se dico "scostumato" ho detto tutto, senza bisogno di aggiungere altro. Se ti do dello scostumato sappi che ti odio.
Assai.

Continua...
Lo scorso agosto ho visto passare cinquant'anni in un mese.

E perché ve ne parlo solo adesso?
Perché di cose da raccontare ne ho tante e quindi spesso, per scrivere di alcuni argomenti mi tocca rimandarne altri. E poi perché parlarvi di un mese intero è impegnativo e finora mi era mancata la forza di affrontare tale impresa. E infine perché il blog è mio e faccio come mi pare!
Quindi zitti, buoni e se vi becco con la cicca in bocca vi butto fuori dalla classe!

Bene.
Ricominciamo.

Lo scorso agosto ho visto passare cinquant'anni in un mese.

Ehi voi due! Sì, dico proprio a voi in fondo all'aula! Che c'avete da chiacchierare?
"Noi ci chiedevamo, Signora Maestra, ma quanto sarà lungo un post che parla di un mese intero?"
Parecchio. E, infatti, lo dividerò in episodi.

"Nooooo"
"Di nuovo?"
"Cosa???"
Smettetela di rumoreggiare tutti quanti!

E che sarà mai?
Voglio solo legarvi mani e piedi al mio blog per una settimana.
C'avete altro da fare?
Si???
Disdite.

E ora: silenzio che si comincia sul serio.

Tutto ebbe inizio con l'annuncio del matrimonio della mia amica Gra'.
In quell'occasione, quattro delle sei comari berlinesi, avrebbero avuto la possibilità di rincontrarsi, con tutte le conseguenze del caso.

Appena venute a conoscenza della data fatidica, ognuna di noi iniziò ad organizzarsi.

Sissi, madre di tre creature, chiamò all'appello compagno e nonni:
"Ad agosto vado a fare festa con le mie amiche. Quindi, per sole miserrime 48 ore, i miei adorati figliuoli verranno affidati alle vostre amorevoli cure. Gradirei ritrovarli lavati, satolli, e pure vivi al mio ritorno. Grazie."
Spietata.

Renée, da vera stratega esperta in pacchetti vacanze, organizzò le proprie ferie e quelle del di lei fidanzato in modo da arrivare in tempo in Chiesa. All'ultimo minuto. Ma comunque prima della sposa.
Mezz'ora prima si fiondava in albergo stanca, stropicciata e profondamente provata. Mezz'ora dopo, varcava la sacra soglia profumata di violette e vestita di tutto punto.
Mentre le altre invitate, preparatesi col giusto anticipo, erano già distrutte dal caldo afoso e cominciavano a perdersi i pezzi.
Astuta.

Io, appena invitata alle nozze-evento, liquidai la perenne mancanza di tempo libero di Ciccio con un lapidario: "Io al matrimonio ci vado. Chi c'è c'è."
Lui, ovviamente, non ci fu.
Fidanzata immaginaria.

Continua...
Ormai si sente questa canzone ovunque.
Sono sicura che ben presto non ne potrò più e comincerò ad odiarla.
Ma per ora l'effetto che il suo ritmo ha sul mio umore ed il movimento oscillatorio dei miei fianchi è dirompente.

E quindi, per ora, me la godo!

Oh yeah yeah 
Oh yeah yeah yeah 
Ooh! 
Oh yeah yeah 
Oh yeah yeah yeah 
Ooh!


In un tempo lontano la magia si compì.
Ciò che era stato non fu più. E ciò che fu lasciò il mondo senza parole.

Non se ne conosce il giorno, l'ora o il minuto.
Tronchi d'albero affondavano da tempo nel fango più profondo, leggeri passi di uomini e animali attraversavano calli e campi, le case avevano imparato a seguire l'andamento della terra e dell'acqua.
Improvvisamente Lei smise di dormire, serena e inconsapevole. E si destò, cominciando ad essere.

Ma non scrollò le proprie spalle per far fuggire tutti, non si alzò in piedi per ergersi a dominatrice. Rimase sdraiata, tranquilla, tra acqua e terra, tra sassi e mare, tra cielo e radici. Gli occhi rivolti verso l'azzurro. Le narici a riempirsi dell'aria di mare. I capelli aggrovigliati come alghe a occupare la laguna.

Da quel momento Lei esiste. Respira, vede e sente. Nessun'altra è come lei. Nessun'altra fa parte del ciclo della natura come lei. Le acque si gonfiano e lei le accoglie. L'uomo lavora e lei lo sorregge. Frotte di invasori la calpestano e lei li sopporta, troppo superiore per provar fastidio.

Le altre sono semplici città. Lei è Venezia, una dea, un essere mitologico, una donna. Lei respira l'aria degli uomini ma potrebbe tranquillamente tornare a riassopirsi per sempre, sommersa dall'acqua della laguna.
Lei ci sarà. Sopravvissuta ai suoi padri, sopravvivrà ai suoi figli. Sopra o sotto le acque. Fra dieci come fra mille anni.

Le dee non muoiono mai.

Tutte le altre sono solo città. Lei no.
Mani da vecchia. Ho mani da vecchia.
Ossute, rugose, orribili.

Mani da bambino. Lui ha mani da bambino.

È curioso che sia questo il mio ultimo pensiero: le sue mani da bambino intorno al mio collo.

Uccisa da uno stronzo con le mani più belle delle mie.
Qual è il giorno in cui ci si sveglia con le occhiaie di un panda, i capelli di un leone fonato e l'incarnato di un ramarro?

Ovvio. Il giorno in cui bisogna rinnovare la carta d'identità.

All'anagrafe hanno deciso di farmela valida per l'espatrio ma non per il rimpatrio.
Chiuse il blog e, da quel momento, dovette sopportare il mio molesto disappunto, il mio chiassoso dispiacere, i miei assillanti interrogativi.
"Perché l'hai fatto?", gli chiesi ad ogni piè sospinto con voce acuta e fastidiosa.
Fino a quando, mosso da disperazione, fervida fantasia ed innegabile talento, decise di darmi una spiegazione.

Una spiegazione che merita di essere condivisa.

"Quel giorno avevo scritto quattro righe, quando arrivò una telefonata e dovetti lasciare tutto per correre al lavoro.
Presi la giacca, che avevo poggiato accanto al pc, e andai verso la porta.
Mi tuffai giù veloce per le scale scivolando sul passamano. Evitai la Signora del terzo piano e saltai sulla moto. Anzi no, quella mi era stata rubata. Saltai su un motorino lentissimo. E, lentissimamente, volai verso l'ufficio.

Arrivato in Studio presi a discutere in modo veemente con la collega detonaballe. Lo scambio di vedute differenti si fece diatriba. La diatriba divenne diaspora. La diaspora andò un momento in bagno a cambiarsi, e tornò incazzata che sembrava una lite. E fu a quel punto che, giunto sul cocuzzolo più alto del mio sermone, mi prese una paresi.

Muto. La bocca spalancata nel bel mezzo della parola "impo-ssibile".

Cos'era accaduto? Non riuscivo a realizzare la stranezza che mi era presa e pensai a un brutto male. Fino a quando l'occhio della insopportabile collega cadde in basso, a terra. Fu lei a farmi notare che mi pendeva qualcosa. Proprio lì dietro a me. 
Guardai atterrito.

Nella frenesia del momento m'era rimasta impigliata addosso l'ultima parola di quelle quattro righe, e mi ero tirato appresso tutto il resto. Ero partito da casa e avevo sfilato via l'intero blog.

Provai a ripercorrere la strada e riavvolgere tutta la collana verbacea, ma dopo un centinaio di metri il filo era rotto. Le parole perdute.

La mia azione era stata troppo violenta. Insostenibile in sintassi."

Ha chiuso il blog ma non ha smesso di scrivere. Per fortuna.
Ed è un piacere, oltre che un onore, poter ospitare questo suo surreale e delizioso racconto.

Chi ne è l'autore? Sta a lui palesarsi.
Ma solo se lo desidera.

Caro Michael,
ti conobbi pochi anni fa, quando mi raccontasti la storia di Ella e John.
Ti scoprii per caso in una fiera affollatta tra milioni di altre pagine. In un angolo speciale ricco di tinte calde, titoli accattivanti e nomi sconosciuti.

Ci incontrammo nuovamente un anno dopo, nello stesso posto.
Ti presi per mano, senza pensarci un attimo, e trascinai a casa mia.
Fu bello come la prima volta ma diverso. Non fummo né gentili né romantici. Ci scambiammo i nostri lati più spigolosi, meno accoglienti, più dolenti e dolorosi.
Ci lasciammo senza una parola. Ma con la consapevolezza che il destino ci avrebbe sicuramente regalato un'altra occasione.

E così è stato.

Pochi mesi fa, avvolti da un caldo autunno cittadino, ci siamo ritrovati. Ancora una volta.
Eravamo in un cortile dove una donna suonava un pianoforte, bambini chiassosi si rincorrevano, e piccoli incerti tavolini reggevano le parole di molti.

È stato un meraviglioso tuffo nel passato. Ho trovato i tuoi primi passi, quelli che ancora mi mancavano per completare il quadro. Ho attraversato l'origine di tutto, la tua storia più vera e personale. Ho conosciuto il personaggio che più ti assomiglia e l'ho amato.

Credo di aver anche conosciuto il personaggio che più assomiglia a lei. Tua moglie Rita.
L'ho conosciuta. L'ho amata. E invidiata.

Donna fortunata.
Musa e compagna.

Va bene, me ne farò una ragione.
Forse io non avrei mai potuto rendere felice te.
Forse tu non avresti mai potuto rendere felice me.
Ma io continuerò comunque a leggerti.
Tu, mi raccomando, continua a scrivere.

Con la devozione che solo una lettrice può avere,
per sempre tua,
Pancrazia.
Domenica sono tornata a Venezia.
Per un giorno solo. Anzi, per meno. Per nove ore.
Nove ore di pura gioia.

Pochi luoghi mi colpiscono cuore e mente quanto il gioiello lagunare.

Domenica ho cominciato a sognare quando ero ancora sulla terra ferma.
Ho elaborato il primo di una lunga serie di post quando, dalla pancia del battello, osservavo la sagoma della città che si faceva sempre più vicina.
Rapita dall'eloquio fluente e dai succosi aneddoti della guida, mi sono aggirata per calli e campi con un sorriso estatico dovuto al fisico piacere della scoperta.

Venezia è piena di storie da raccontare. Storie vere, storie inventate, storie reinterpretate.

Venezia è la mia idea di paradiso. Anche quando fa freddo. Anche quando bisogna andare in giro con le galosce. Anche quando la pioggia si prende gioco di occhiali e ricci.

Perché io non amo Venezia. O, almeno, non solo.
Io vorrei essere Venezia. Nel bene e nel male.

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