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Sissi ed io trascinammo i nostri bagagli lungo la strada sotto un sole senza pietà.
Attendemmo così tanto la corriera da temere che non sarebbe più passata.
Ma alla fine, sorprendentemente, riuscimmo a partire verso Napoli ed il treno che ci attendeva.

Onestamente ricordo poco di quel tragitto in autobus, presumibilmente condito, come quello dell'andata, da chiacchiere e mancanza di aria condizionata.
Ma, di contro, ricordo perfettamente il viaggio in treno dal capoluogo partenopeo a quello romagnolo: Sissi ed io ci addormentammo a Napoli e riprendemmo il controllo delle nostre teste ciondolanti a 5 minuti da Bologna.

Mentre la mia amica tornava tra i propri numerosi uomini in quel di Cesena (Borello, per la precisione). Io continuavo la migrazione, salendo su su fino a Trento.
All'uscita della stazione Ciccio mi caricò in macchina, per poi scaricarmi a casa.
Svenuta.

"Amore non sei felice di vedermi?"
"Ronf"
"Amore non credi che dovresti almeno spogliarti prima di metterti a letto?"
"Ronf"
"Amore mi sembri un poco stanchina"
"Ronfffffffffffffff"

Sono passati dodici anni dall'Erasmus e, seppur di maturità ancora non vi sia traccia, il corpo comincia a sentire il tempo che passa. Insomma, non ho più il fisico per fare simili sfacchinate. Quasi 2000 km in 3 giorni. Quasi 2000 km percorsi in treno, corriera e auto. Quasi 2000 km inframmezzati dall'evento mondano del secolo.
Quasi 2000 km che mi ridussero un rottame. Un simpatico, adorabile, cazzaro rottame.

Mi ci volle un mese intero tra le fresche, tranquille e soporifere montagne trentine, per riprendermi completamente.
Poi, Ciccio ed io, raccogliemmo le nostre numerose carabattole e ci accingemmo a percorrere la Pianura Padana da est ad ovest. Da Campiglio a Torino.

Tornati nel cuore del regno Sabaudo fummo accolti da un tempo infame e da una delle pubblicità più cretine che la storia ricordi: "Mi fa Mole la testa", dichiaravano cartelloni sparsi in ogni angolo della città.
Superato lo shock per una tale fesseria, ci preparammo per il secondo evento della stagione: l'anniversario di nozze di mia zia. I festeggiamenti per i 50 anni di matrimonio tra Concetta, santa produttrice dei cannoli più buoni del globo terracqueo, e Nino, campione di bocce di fama mondiale, o quasi.

Continua...
Trascinata Renée in auto, ci avviammo fiduciosi verso la Villa dove avrebbe avuto luogo il ricevimento.
Alla guida Gianluca, al comando un navigatore satellitare ubriaco, a vociare e fare confusione noi tre meravigliose Comari ancora senza fede al dito.

Andammo a Nord.
Andammo a Sud.
Andammo a Sinistra.
E andammo persino a Destra,
Per poi finire nel cortile di una fattoria, tra oscuri soggetti che ci osservavano impauriti e cani che ci abbaiavano contro con grande trasporto.

"Abbiamo sbagliato strada. Scusate. Non vi volevamo disturbare", ci parlammo l'uno sull'altro.
"Non è che sapreste indicarci la Villa?", chiedemmo disperati.
"Là", ci venne detto semplicemente dalle agresti genti di poche parole.
Tutto ciò mentre Sissi, notoriamente terrorizzata dai cani, perdeva sorprendentemente l'uso della parola e si limitava a squittire e frignare, cercando di nascondersi dentro il vano portaoggetti del cruscotto.

Una volta lasciata la Fattoria degli Orrori riuscimmo finalmente a raggiungere il luogo del ricevimento. Un posto stupendo, addobbato meravigliosamente. Dove, accanto all'eleganza degli arredi e la ricercatezza dei dettagli, si esibivano orgogliose le delizie Campane più colesteroliche e libidinose. Il Paradiso!

Godemmo di una serata meravigliosa, illuminata da mille fiammelle e da una luna benevola.
Godemmo di un perfetto clima serale che, lontano anni luce dal forno pomeridiano, ci coccolò con un abbraccio tiepido e mai invadente.
Godemmo della compagnia di facce sconosciute ma cordiali. Facce che ci venivano incontro sorridendo, recando il solito divertito quesito: "Voi siete le amiche di Berlino, giusto?"

Dopo una certa ora la sposa ci stupì, eliminando lo strascico e mettendo in mostra le sue belle gambe, pronta a scatenarsi nelle danze.
Dopo una certa ora ballammo tutti. Ballammo sull'erba. Ballammo a piedi nudi.
E meno male! Perché, se fossi stata costretta a tenere i miei zamponcini in bilico sopra un tacco 10 per un secondo di più, mi sarei rotolata a terra in preda ad una crisi isterica.

La serata, ormai fattasi notte, si concluse con il romantico e beneaugurante lancio delle lanterne cinesi volanti. Lancio che venne accolto dalla padrona della Villa con una reazione sobria e controllata: "Prenderanno fuoco i campi! Vi denuncio tutti! All'anema 'e chi t'è muort!"
Reazione che tolse almeno 10 anni di vita alla povera Enza, testimone, organizzatrice e responsabile dell'incauto e poco gradito acquisto.

Enza non è colpa tua: era quella ad essere isterica!

Le mie stanche membra poterono godere del meritato riposo dopo le 3 di mattina. I miei piedi a panzerotto poterono trovare requie fino alle 8. Poi, purtroppo, Sissi ed io ci dovemmo alzare per correre a prendere la corriera. L'autobus. Il pullman. Insomma quel robo là!

Ci alzammo fresche e belle come due rose.
Due rose novantenni.

Continua...
Un'obsoleta tradizione, perpetuata ogni anno ad uso e consumo degli adulti.
Una tassa imposta ai bambini, sotto forma di stress e confusione.
Un delirio di genitori isterici e nonni gongolanti.
Un'accozzaglia di siparietti coercitivi e stereotipati.

La recita di Natale dell'Asilo è il male.
Ma...

... mio nipote fra 15 anni lo troverete a Broadway! 
Il piccoletto è un vero talento. Tutto zia sua!

Prima di tutto, com'è tradizione, passammo a trovare la sposa a casa.
Gra' si ergeva in tutto il suo splendore.
Gra' sorrideva come una Regina e ringhiava ordini come un Rottweiler.
Gra' era una donna in precario equilibrio tra la letizia e la crisi di nervi.
Insomma, Gra' era proprio una Sposa.

Tutto scivolò liscio tra foto e confetti.
Tutto se non si considera quell'insignificante attimo in cui, due minuti prima di lasciare Buckingham Palace per recarmi in chiesa, rischiai di pestare lo strascico. Solo un ultimo provvidenziale colpo di reni, le lezioni di danza prese durante l'infanzia, e la mia buona stella fecero in modo che non mi macchiassi della colpa di tutte le colpe. Evitando così che una giornata di festa cominciasse con le percosse e la defenestrazione di una delle invitate. La più caruccia e simpatica, tra l'altro!

Mentre la sposa era ancora presa dagli ultimi preparativi, noi invitati raggiungemmo lo sposo alla Cattedrale di Ariano Irpino. E là ci chiudemmo dentro a doppia mandata, fuggendo il sole peggio di un gruppo di vampiri.
Ogni 2 minuti qualcuno, il cui nome veniva estratto dalla mano innocente di un biondo chierichetto, metteva piede sull'arroventato sagrato per annunciare l'arrivo di Gra'.
Nonostante fosse pomeriggio inoltrato la temperatura reale si aggirava intorno ai 50 gradi e quella percepita intorno ai 75. Per questo motivo l'agnello sacrificale di turno, dopo solo pochi attimi, tornava in Chiesa vittima di ustioni, allucinazioni ed un principio di mummificazione.
Nel disperato tentativo di reidratarlo gli venivano somministrate poche gocce di vino benedetto, strappato a forza dalle mani avide del sagrestano. A quel punto il malcapitato, rinvigorito dallo squisito nettare, sussurrava: "la sposa non è ancora arrivata", per poi perdere i sensi ed essere trascinato in canonica a morire riprendersi.
L'impietosa scena si ripeté per un numero imprecisato di volte, provocando un numero imprecisato di vittime. Molti amici si sacrificarono per il bene di tutti. E noi saremo sempre grati loro.

Dopo un'attesa che, dati i precedenti di Gra', fu comunque più breve del previsto, la sposa finalmente fece il proprio ingresso nella navata in un trionfo di candida bellezza.
Le macchinette scattarono e pixelarono allegre.
Le donne sospirarono romantiche.
Gli uomini continuarono a sudare come ramarri strozzati dalle loro cravatte.

Una volta che i due giovani (relativamente parlando) sposi vennero dichiarati uniti per sempre in matrimonio, noi giovani (relativamente parlando) invitati uscimmo di corsa, scendemmo le scale e prendemmo posizione in strada.
Obiettivo? Formare un perfetto plotone d'esecuzione armato di riso, bolle di sapone, e tubi spara coriandoli.
I bambini e le donzelle più aggraziate vennero messi alle bolle di sapone.
I bruti e le donne più volenterose e meno aggraziate agli spara coriandoli.

Indovinate cosa toccò a noi tre (Sissi, Renée ed io)?
Sì, esatto, echevelodicoafare?
Tubi spara coriandoli doveva essere e tubi spara coriandoli fu.

La caratteristica fondamentale di questi aggeggi infernali è che non puoi mai avere la certezza che funzionino fino a quando non li usi. Al momento del bisogno possono esplodere in un poderoso BOOM o in uno stitico puf oppure, nella peggiore delle ipotesi, possono non esplodere affatto.

Gli sposi scesero le ultime scale affrontando il destino che li attendeva con coraggio e dignità.
Il riso rise.
Le bolle bollirono.
I tubi spara coriandoli tubisparacoriandolarono.
Sissi ottenne un fragoroso BOOM.
Io me la cavai con un dignitoso boom.
Renée, secondo fonti ben informate, staziona ancora di fronte alla chiesa nel vano tentativo di avere la meglio sul diabolico marchingegno. Gianluca, il di lei fidanzato, dorme su una panchina poco distante, nella paziente e vana attesa che la terza comare si arrenda.

Non mollare Renée!

Continua...
E finalmente albeggiò sul giorno destinato a veder compiersi il grande evento.
Il matrimonio del secolo?
Macché!
La riunione delle quattro Comari!

In vista della cerimonia, furono due i pensieri che occuparono ossessivamente la mia testa riccia:
  • che fine aveva fatto Renée?
  • dove potevo trovare un adattatore per il phon?
Le ultime notizie, circa la quarta comare mancante ed il di lei fascinoso compagno, li davano in Provenza a raccogliere lavanda, zompettando nei prati profumati come due chinchilla in amore.
Ma ora dove si trovavano?
Ancora in Francia?
A Roma?
A Napoli?
L'unica cosa certa è che non avevano ancora raggiunto Ariano Irpino.
Le ore passavano. Il tempo stringeva. Il ritardo sulla tabella di marcia si accumulava.
Sissi, vestiti i panni della stalker, scelse di tormentare telefonicamente i due fidanzatini dispersi.
I quali, vittime di un navigatore satellitare anarchico e rimbambito, scelsero a loro volta di risponderle pazientemente, prima. Di mandarla velatamente a quel paese, poi. Ed infine di rendersi "momentaneamente irraggiungibili".

"Ma secondo te hanno staccato il telefono volontariamente?"
"Noooooo, ma che dici?"

Ma mentre da una parte si consumava questo terribile dramma, dall'altra se ne consumava uno anche peggiore.
Mi ero portata da Torino il mio prezioso phon di fiducia. Quello con cui ottenere una piega perfetta, quello con cui domare l'indomabile, quello con cui farmi la frangia. Sapevo benissimo di non poter affidare la mia importante chioma a quei phon tristanzuoli e privi di carattere presenti solitamente negli alberghi, quelli che sputacchiano fuori una brezzolina primaverile.
Che me ne facevo io di una brezzolina primaverile?
Per me ci voleva una bora triestina calda come uno scirocco!
La mia previdenza, però, non era arrivata a considerare la necessità di un riduttore, e così mi trovai con un phon da professionista tristemente inutilizzabile.
Per risolvere il problema chiamai in soccorso tutto il personale dell'albergo e, dopo lunghe contrattazioni, mi venne concesso l'utilizzo (solo per 5 minuti!) della spina del computer della Reception.

Finalmente la mia frangettina frou frou prese forma!
Per poi riperderla immediatamente, vittima di un caldo umido degno dei tropici.
E vabbè, non si può aver tutto dalla vita!

Nel frattempo, gli astri si allinearono, gli equilibri si ristabilirono, e Renée si materializzò magicamente in albergo.


Continua...

 

Qualche anno fa la mia vecchia classe del liceo organizzò la tipica rimpatriata in pizzeria. C'eravamo tutti, la bella che s'era inchiattita, il brutto che era sbocciato, il cretino che si era dato alla politica, non mancava proprio nessuno.

C'eravamo tutti, compresi Stefano ed io. Ormai non ci vedevamo più da anni, ma ai tempi delle superiori avevamo condiviso banco, risate e confidenze. E lo stesso facemmo anche in quell'occasione. Seduti fianco a fianco dividemmo bruschette, ricordi e risate.

A fine serata lo riaccompagnai a casa in auto e, come ai bei tempi andati, ci mettemmo a fare grandi chiacchiere. Da quelle più terra terra, "ma secondo te quella c'era poi stata con quell'altro?", a quelle più elevate e filosofiche, "ma secondo te è vero che l'acqua del water in Australia gira al contrario?" 

Allora Stefano già veleggiava convinto verso le nozze, mentre io passeggiavo svogliata lungo il tortuoso percorso di un rapporto a distanza. Lui mi sembrava così felice e convinto. Talmente tanto che non riuscii a trattenermi e ad un semaforo gli chiesi:

"Ma tu non hai paura?"

"Paura di che?"

"Paura di aver fatto tutte le scelte, di non avere più alternative"

"Paura? Terrore!"

 

Quella conversazione mi consolò molto. Talmente tanto che ancora adesso, a distanza di anni, ci ripenso spesso.

Il segreto sta tutto nell'avere o nel crearsi delle alternative. Dei bivi dove scegliere. Delle strade diverse da poter percorrere.

Il segreto sta tutto nel non aver paura del cambiamento, nel cercarlo, nell'assecondarlo, nel considerarlo un'opportunità da cogliere.

Il segreto sta tutto nell'aver ancora mille risposte per cento domande.

Le alternative posso riguardare i campi più diversi: lavoro, amore, il luogo dove vivere, le mille scelte da fare. E sono il nostro più grande tesoro.

Ecco, io questa cosa qui l'ho sempre pensata, e immaginatevi la mia sorpresa quando ho scoperto di un sito, sponsorizzato dalla toyota, dedicato proprio a questo argomento. Alle alternative. Alle infinite possibilità.

Collegatevi a vogliounalternativa.it e lasciate il segno del vostro passaggio. Raccontate la vostra alternativa e leggete quelle lasciate dagli altri.

La mia? Per ora non ve la dico. Forse un giorno la saprete.

 

Articolo sponsorizzato

Con il tramonto giunse finalmente il momento d'incontrare la futura sposa.
Dopo millemilioni di anni rividi Gra', bella quanto in gamba, svitata quanto simpatica.

L'incontro si svolse a casa dei suoi genitori, piccola dimora che potremmo evocativamente battezzare "Buckingham Palace". Da un lato c'eravamo Sissi ed io, sempre un poco stropicciate e appese al limite del "noi siamo belle al naturale e non ci piace sforzarci più di tanto". Dall'altro Gra': un femminone esagerato!

A Berlino era la più bella del gruppo, a distanza di 12 anni è diventata ancora meglio. Mentre noi altre, che a differenza sua non abbiamo stretto diabolici patti con il maligno, arranchiamo faticosamente lungo la via che dagli enta si ostina a volerci portare agli anta.
Io sto cercando un bivio dove fare inversione ad U e tornare ai venti ma, sorprendentemente, non l'ho ancora trovato. L'assessore celeste all'urbanistica e viabilità un giorno dovrà darmi delle spiegazioni!

Dopo essere state accolte e coccolate dai genitori di Gra', ed aver conosciuto anche il fortunato futuro sposo, ci ritrovammo tutti a festeggiare l'addio al nubilato e l'addio al celibato assieme.
Enza, conscia del proprio ruolo di responsabilità ed afflitta da un'ansia da prestazione al cui confronto persino la mia scompare, passò il tempo a correre come un'ossessa da una parte all'altra per assicurarsi che tutto fosse perfetto.
Marco, testimone della sposa, ci erudì con maniacale dovizia di particolari circa tutte le regole fondamentali da seguire durante una cerimonia nuziale religiosa. E a fine serata distribuì dei diplomi di frequenza firmati da Enzo Miccio e Benedetto XVI, validi per essere esonerati dal corso prematrimoniale, usufruire di due ingressi gratuiti ai musei vaticani, e partecipare all'estrazione finale di un sobrio abito da "Barbie Raperonzolo Sposa Meringa".
Sissi ed io, una volta orgogliosamente nottambule, abbattute da una giornata tanto intensa, ci accasciammo rapidamente sulle nostre sedie, cercando però di tenere almeno un occhio aperto in due e di non russare troppo rumorosamente.

Una volta tornate in albergo potemmo liberamente svenire sui nostri giacigli.
Solo una bella nottata di sonno ci avrebbe permesso di recuperare l'aspetto e l'attitudine adatti per affrontare il matrimonio del secolo.

Continua...

Facebook può essere un'ottima vetrina.
Molte ditte la sanno usare. Altre no.

Non sono un'esperta del settore ma, sicuramente, un modo per attrarre e legare la clientela è quello di offrire occasioni, stimoli e, dove possibile, dialogo.

L'UniCredit vanta una pagina che in poco tempo è diventata frequentatissima e molto viva, merito di chi la gestisce e di chi vi partecipa.
La scelta felice, che ha garantito un tale successo, è stata quella di non dedicare spazio solo ai prodotti economici e finanziari, ma di pubblicizzare e sponsorizzare anche attività ludiche e culturali, legate al mondo dei giovani e del sociale.

L'UniCredit ha scommesso su un'immagine meno rigida e più vicina ai clienti ed ai loro interessi e, dai risultati finora ottenuti, si può dire che sia una scommessa vinta.

In particolare, l'attenzione si è focalizzata sull'arte e sullo sport, proponendo di volta in volta diversi concorsi, e con questi la possibilità di vincere biglietti a numerosi eventi.

Con lo SmART Quiz, rispondendo a domande sull’arte, i partecipanti possono vincere svariati premi. Quelli in palio in questi giorni fino al 20 dicembre consistono in un ingresso per due persone allo spettacolo "Sound, Music" a Milano, oppure in un ingresso per due alla mostra "Raffaello verso Picasso" a Vicenza o, ancora, in uno dei tanti cataloghi su questa mostra.  

Per gli amanti dello sport, invece, richiedendo la nuova Genius Card in versione UEFA Champions League, e ricaricandola con almeno 100€, si partecipa all'estrazione dei biglietti per la Finale di Londra 2013. 

Indovinate su cosa punto io? 
Vicenza I'm Coming!
Moltissimi anni or sono, la mia ormai celeberrima maestra Egle ci portò nella saletta proiezioni della scuola.
Noi ci mettemmo buoni buoni al nostro posto, lei litigò per un quarto d'ora con la tecnologia ostile, fino a quando non cominciò lo spettacolo.

Non so perché, non so quale funzione educativa fosse stata ravvisata nella pellicola, fatto sta che quel giorno la mia classe ed io godemmo della visione di "Ritorno al Futuro", e dei suoi 118 minuti di puro divertimento.

Alla fine la povera insegnante si trovò a dover gestire una folla di piccoli esaltati, in piedi su sedie e banchi, che urlavano come degli ossessi: "Corri Marty, corri!", con il trasporto e la fede che solo a quell'età ancora si possiedono.

Questo film per me è un dolce ricordo d'infanzia, che mi ha poi accompagnata per tutta l'adolescenza, e che ancora adesso occupa un posto speciale nel mio cuore.

Immaginatevi dunque lo stupore quando ho scoperto che proprio oggi, 5 dicembre 2012, in tutta Italia questa pellicola tornerà ad essere proiettata. Solo per questa sera si potranno godere le avventure di Doc, Marty e della pazzesca Delorean nuovamente sul grande schermo.

È giunto il tempo di tirare fuori dagli armadi i piumini smanicati, e correre tutti al cinema per rivivere un sogno!
Scese dalla corriera, l'autobus, il pullman, o come diavolo lo chiamate voi, Sissi ed io attendemmo fiduciose l'arrivo della nostra guida.
Il nostro faro, la nostra baby-sitter, la poveraccia a cui sarebbe spettato l'onere e l'onore di accogliere le cosiddette "amiche di Berlino".
Nientepopodimeno che: la testimone della sposa.
E scusate se è poco!  
Gra', impossibilitata a muoversi da mille bigodini e dalla pettinatrice che la teneva in ostaggio, scelse di affidarci alle amorevoli cure della solerte Enza.
Poverina.
No, non Gra' con la sua chilata di bigodini sulla capoccia.
Povera Enza, la testimone. Ella non poteva certo immaginare in che guaio stesse andando a cacciarsi.

Dopo averci fatte salire in auto, l'innocente ci chiese: "Avete mica qualche idea per giochi o scherzi da fare durante il ricevimento?"
Ecco. Il danno era fatto. Il tappo dello spumante saltato. La valanga partita.
Io, mi accucciai sul fondo del sedile cercando riparo.
Sissi, di fronte alla possibilità di organizzare qualcosa, come sempre perse la testa.
La sua gemella delirante e logorroica prese il controllo della situazione.
La figlia delle notti brave in Romagna, colse la palla al balzo, e cominciò a sparare una proposta al secondo: "Potremmo fare questo, o questo, o questo, oppure questo. Potremmo fare un quiz, una caccia al tesoro, uno spettacolo di mimo. Potremmo scrivere una poesia, una canzone, un romanzo in tre volumi. Potremmo girare un cortometraggio, un musical, un colossal alla Ben Hur"

Sissi, ipereccitata, parlava a manetta.
Enza, terrorizzata, teneva lo sguardo fisso sulla strada progettando di mollarci sulla statale. Rallentando o meno, era tutto da vedere.
Io, brandendo la frusta da domatore, cercavo di rendere inoffensiva la mia amica cesenate: "Sta buona, rilassati, respira, tira indietro gli artigli"

"Potremmo fare questo", insisteva lei.
"Non abbiamo abbastanza tempo", cercavo di farla ragionare io.
"E se facessimo quest'altro?"
"Ci sbatterebbero fuori"
"E quest'altra cosa ancora?"
"Ci farebbero arrestare!"

"Enza tu che ne pensi?", cercavamo di coinvolgerla.
"Non lo so, fate voi", ci rispondeva la poverina con un filo di voce, sognando il momento in cui avrebbe potuto mollarci in albergo per poi cavalcare serena e libera verso l'orizzonte.

Alla fine, cercando una soluzione che rendesse felice Sissi, avesse la mia approvazione, e liberasse dal pesante fardello Enza, svaligiammo una cartoleria e poi ci ritrovammo a scrivere, ritagliare, incollare. Incollare, ritagliare e scrivere.

"E sai cosa sarebbe anche bello, Jane?", chiese Sissi, con il suo miglior sguardo da pazza, agitando le forbici a punta arrotondata.
"Cosa?"
"Potresti fare un bel discorso"
"Ma che fai, scherzi?"
"Eddai, tu scrivi così bene"
"Io queste cose da film americano non le faccio, scordatelo!"
"Eddaiii"
"No!"
"Eddaiiiiiiiiiiiiiiiiii"
"No"
"Eddaiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii"
"No, e poi mi vergogno a leggere in pubblico!"
"E qual è il problema? Tu scrivi. Io leggo. Eddaiiiiiiiiiiiiiiiii"
"Basta! Va bene. Io scrivo un capolavoro LacrimeeRisate e tu lo leggi. Ma guai a te se sbagli i tempi comici!", decisi io con un piglio da genio esaltato.

Il rapporto tra me e Sissi è sempre stato così. Anche ai tempi gloriosi di Berlino.
Lei aveva le idee pazze.
Io le limavo, aggiustavo, bocciavo ma alla fine le restavo accanto.
Perché? Perché nessuna delle due si è mai lasciata scalfire dagli sguardi sbigottiti degli altri.
E perché era tanto divertente un tempo, così come lo è oggi.

Continua...
Ad inizio agosto Sissi ed io, una in partenza da Cesena e l'altra da Torino, ci ritrovammo sullo stesso treno.
Direzione Napoli.

Appena la vettura si fermò, allungai il collo cercando di rendere visibile la mia testa riccia. Sissi mi individuò immediatamente, ci sedemmo vicine e, da quel momento, iniziò l'inferno.
No, non per noi. Per tutti gli altri.
Per tutti gli altri passeggeri che dovettero subire chiacchiere, confidenze, ricordi e risate di due amiche che non si vedevano da anni.

Iniziammo a parlare appena sedute e non chiudemmo le nostre boccucce sante fino all'arrivo nel capoluogo partenopeo.

Qualche nostro compagno di viaggio tentò di togliersi la vita, o di strapparsi le orecchie e farne due deliziosi ciondoli.
Qualche altro provò a toglierci la vita, o a strapparci le corde vocali e farne una comoda arpa tascabile.
Alla fine, comunque, giungemmo tutti a destinazione.
Sani e salvi.
Noi un po' svociate. Gli altri un poco esauriti.

Dopo il treno, per raggiungere la provincia di Avellino, ci toccò imbarcarci sopra una corriera priva di aria condizionata e con l'umidità pari a quella di un bagno turco.
E a me, personalmente, toccò pure sopportare il dileggio telefonico di Gra'.
"Dove siete?"
"Siamo in corriera, appena partite dalla stazione"
"In corriera? uahuahauahauah corriera? uahauhauahauahauh ma come parli? uahauahauhauah come sei vintage!"

Sissi cercò di rassicurarmi:
"Anch'io dico corriera, non ti preoccupare"
Io, invero, non mi sentii affatto rassicurata.
La mia amica cesenate, infatti, è famosa per "parlare strano". Lei, ad esempio, usa il termine "bagaglio" per indicare qualsiasi cosa.
"Mi passi quel bagaglio?", ti dice.
E mentre tu cerchi da qualche parte una valigia, o almeno una borsa, scopri che lei voleva l'aspirapolvere, il tostapane, o un set di posate da 24.
Perché, come disse un giorno Martino, il nostro compagnuccio veneto, "a fare l'Erasmus non solo ho imparato il tedesco, ma soprattutto ho imparato che nessuno parla bene l'italiano. Né a nord né a sud. Subiamo tutti fortissime influenze locali."
Per lui non era una cosa buona. Affatto.
Per me, invece, è un'enorme ricchezza.

Io, ad esempio, ho cominciato ad usare i termini "assai" e "scostumato" proprio dopo aver conosciuto Gra' di Avellino. Ariano Irpino per la precisione.
Termini che non appartengono alla mia terra, ma che sono di inarrivabile perfezione.
Perché "assai" è infinitamente meglio di "molto". Più ricco. Più pieno. Più denso. Con un peso specifico maggiore.
E perché se dico "scostumato" ho detto tutto, senza bisogno di aggiungere altro. Se ti do dello scostumato sappi che ti odio.
Assai.

Continua...
Lo scorso agosto ho visto passare cinquant'anni in un mese.

E perché ve ne parlo solo adesso?
Perché di cose da raccontare ne ho tante e quindi spesso, per scrivere di alcuni argomenti mi tocca rimandarne altri. E poi perché parlarvi di un mese intero è impegnativo e finora mi era mancata la forza di affrontare tale impresa. E infine perché il blog è mio e faccio come mi pare!
Quindi zitti, buoni e se vi becco con la cicca in bocca vi butto fuori dalla classe!

Bene.
Ricominciamo.

Lo scorso agosto ho visto passare cinquant'anni in un mese.

Ehi voi due! Sì, dico proprio a voi in fondo all'aula! Che c'avete da chiacchierare?
"Noi ci chiedevamo, Signora Maestra, ma quanto sarà lungo un post che parla di un mese intero?"
Parecchio. E, infatti, lo dividerò in episodi.

"Nooooo"
"Di nuovo?"
"Cosa???"
Smettetela di rumoreggiare tutti quanti!

E che sarà mai?
Voglio solo legarvi mani e piedi al mio blog per una settimana.
C'avete altro da fare?
Si???
Disdite.

E ora: silenzio che si comincia sul serio.

Tutto ebbe inizio con l'annuncio del matrimonio della mia amica Gra'.
In quell'occasione, quattro delle sei comari berlinesi, avrebbero avuto la possibilità di rincontrarsi, con tutte le conseguenze del caso.

Appena venute a conoscenza della data fatidica, ognuna di noi iniziò ad organizzarsi.

Sissi, madre di tre creature, chiamò all'appello compagno e nonni:
"Ad agosto vado a fare festa con le mie amiche. Quindi, per sole miserrime 48 ore, i miei adorati figliuoli verranno affidati alle vostre amorevoli cure. Gradirei ritrovarli lavati, satolli, e pure vivi al mio ritorno. Grazie."
Spietata.

Renée, da vera stratega esperta in pacchetti vacanze, organizzò le proprie ferie e quelle del di lei fidanzato in modo da arrivare in tempo in Chiesa. All'ultimo minuto. Ma comunque prima della sposa.
Mezz'ora prima si fiondava in albergo stanca, stropicciata e profondamente provata. Mezz'ora dopo, varcava la sacra soglia profumata di violette e vestita di tutto punto.
Mentre le altre invitate, preparatesi col giusto anticipo, erano già distrutte dal caldo afoso e cominciavano a perdersi i pezzi.
Astuta.

Io, appena invitata alle nozze-evento, liquidai la perenne mancanza di tempo libero di Ciccio con un lapidario: "Io al matrimonio ci vado. Chi c'è c'è."
Lui, ovviamente, non ci fu.
Fidanzata immaginaria.

Continua...
Ormai si sente questa canzone ovunque.
Sono sicura che ben presto non ne potrò più e comincerò ad odiarla.
Ma per ora l'effetto che il suo ritmo ha sul mio umore ed il movimento oscillatorio dei miei fianchi è dirompente.

E quindi, per ora, me la godo!

Oh yeah yeah 
Oh yeah yeah yeah 
Ooh! 
Oh yeah yeah 
Oh yeah yeah yeah 
Ooh!


In un tempo lontano la magia si compì.
Ciò che era stato non fu più. E ciò che fu lasciò il mondo senza parole.

Non se ne conosce il giorno, l'ora o il minuto.
Tronchi d'albero affondavano da tempo nel fango più profondo, leggeri passi di uomini e animali attraversavano calli e campi, le case avevano imparato a seguire l'andamento della terra e dell'acqua.
Improvvisamente Lei smise di dormire, serena e inconsapevole. E si destò, cominciando ad essere.

Ma non scrollò le proprie spalle per far fuggire tutti, non si alzò in piedi per ergersi a dominatrice. Rimase sdraiata, tranquilla, tra acqua e terra, tra sassi e mare, tra cielo e radici. Gli occhi rivolti verso l'azzurro. Le narici a riempirsi dell'aria di mare. I capelli aggrovigliati come alghe a occupare la laguna.

Da quel momento Lei esiste. Respira, vede e sente. Nessun'altra è come lei. Nessun'altra fa parte del ciclo della natura come lei. Le acque si gonfiano e lei le accoglie. L'uomo lavora e lei lo sorregge. Frotte di invasori la calpestano e lei li sopporta, troppo superiore per provar fastidio.

Le altre sono semplici città. Lei è Venezia, una dea, un essere mitologico, una donna. Lei respira l'aria degli uomini ma potrebbe tranquillamente tornare a riassopirsi per sempre, sommersa dall'acqua della laguna.
Lei ci sarà. Sopravvissuta ai suoi padri, sopravvivrà ai suoi figli. Sopra o sotto le acque. Fra dieci come fra mille anni.

Le dee non muoiono mai.

Tutte le altre sono solo città. Lei no.
Mani da vecchia. Ho mani da vecchia.
Ossute, rugose, orribili.

Mani da bambino. Lui ha mani da bambino.

È curioso che sia questo il mio ultimo pensiero: le sue mani da bambino intorno al mio collo.

Uccisa da uno stronzo con le mani più belle delle mie.
Qual è il giorno in cui ci si sveglia con le occhiaie di un panda, i capelli di un leone fonato e l'incarnato di un ramarro?

Ovvio. Il giorno in cui bisogna rinnovare la carta d'identità.

All'anagrafe hanno deciso di farmela valida per l'espatrio ma non per il rimpatrio.
Chiuse il blog e, da quel momento, dovette sopportare il mio molesto disappunto, il mio chiassoso dispiacere, i miei assillanti interrogativi.
"Perché l'hai fatto?", gli chiesi ad ogni piè sospinto con voce acuta e fastidiosa.
Fino a quando, mosso da disperazione, fervida fantasia ed innegabile talento, decise di darmi una spiegazione.

Una spiegazione che merita di essere condivisa.

"Quel giorno avevo scritto quattro righe, quando arrivò una telefonata e dovetti lasciare tutto per correre al lavoro.
Presi la giacca, che avevo poggiato accanto al pc, e andai verso la porta.
Mi tuffai giù veloce per le scale scivolando sul passamano. Evitai la Signora del terzo piano e saltai sulla moto. Anzi no, quella mi era stata rubata. Saltai su un motorino lentissimo. E, lentissimamente, volai verso l'ufficio.

Arrivato in Studio presi a discutere in modo veemente con la collega detonaballe. Lo scambio di vedute differenti si fece diatriba. La diatriba divenne diaspora. La diaspora andò un momento in bagno a cambiarsi, e tornò incazzata che sembrava una lite. E fu a quel punto che, giunto sul cocuzzolo più alto del mio sermone, mi prese una paresi.

Muto. La bocca spalancata nel bel mezzo della parola "impo-ssibile".

Cos'era accaduto? Non riuscivo a realizzare la stranezza che mi era presa e pensai a un brutto male. Fino a quando l'occhio della insopportabile collega cadde in basso, a terra. Fu lei a farmi notare che mi pendeva qualcosa. Proprio lì dietro a me. 
Guardai atterrito.

Nella frenesia del momento m'era rimasta impigliata addosso l'ultima parola di quelle quattro righe, e mi ero tirato appresso tutto il resto. Ero partito da casa e avevo sfilato via l'intero blog.

Provai a ripercorrere la strada e riavvolgere tutta la collana verbacea, ma dopo un centinaio di metri il filo era rotto. Le parole perdute.

La mia azione era stata troppo violenta. Insostenibile in sintassi."

Ha chiuso il blog ma non ha smesso di scrivere. Per fortuna.
Ed è un piacere, oltre che un onore, poter ospitare questo suo surreale e delizioso racconto.

Chi ne è l'autore? Sta a lui palesarsi.
Ma solo se lo desidera.

Caro Michael,
ti conobbi pochi anni fa, quando mi raccontasti la storia di Ella e John.
Ti scoprii per caso in una fiera affollatta tra milioni di altre pagine. In un angolo speciale ricco di tinte calde, titoli accattivanti e nomi sconosciuti.

Ci incontrammo nuovamente un anno dopo, nello stesso posto.
Ti presi per mano, senza pensarci un attimo, e trascinai a casa mia.
Fu bello come la prima volta ma diverso. Non fummo né gentili né romantici. Ci scambiammo i nostri lati più spigolosi, meno accoglienti, più dolenti e dolorosi.
Ci lasciammo senza una parola. Ma con la consapevolezza che il destino ci avrebbe sicuramente regalato un'altra occasione.

E così è stato.

Pochi mesi fa, avvolti da un caldo autunno cittadino, ci siamo ritrovati. Ancora una volta.
Eravamo in un cortile dove una donna suonava un pianoforte, bambini chiassosi si rincorrevano, e piccoli incerti tavolini reggevano le parole di molti.

È stato un meraviglioso tuffo nel passato. Ho trovato i tuoi primi passi, quelli che ancora mi mancavano per completare il quadro. Ho attraversato l'origine di tutto, la tua storia più vera e personale. Ho conosciuto il personaggio che più ti assomiglia e l'ho amato.

Credo di aver anche conosciuto il personaggio che più assomiglia a lei. Tua moglie Rita.
L'ho conosciuta. L'ho amata. E invidiata.

Donna fortunata.
Musa e compagna.

Va bene, me ne farò una ragione.
Forse io non avrei mai potuto rendere felice te.
Forse tu non avresti mai potuto rendere felice me.
Ma io continuerò comunque a leggerti.
Tu, mi raccomando, continua a scrivere.

Con la devozione che solo una lettrice può avere,
per sempre tua,
Pancrazia.
Domenica sono tornata a Venezia.
Per un giorno solo. Anzi, per meno. Per nove ore.
Nove ore di pura gioia.

Pochi luoghi mi colpiscono cuore e mente quanto il gioiello lagunare.

Domenica ho cominciato a sognare quando ero ancora sulla terra ferma.
Ho elaborato il primo di una lunga serie di post quando, dalla pancia del battello, osservavo la sagoma della città che si faceva sempre più vicina.
Rapita dall'eloquio fluente e dai succosi aneddoti della guida, mi sono aggirata per calli e campi con un sorriso estatico dovuto al fisico piacere della scoperta.

Venezia è piena di storie da raccontare. Storie vere, storie inventate, storie reinterpretate.

Venezia è la mia idea di paradiso. Anche quando fa freddo. Anche quando bisogna andare in giro con le galosce. Anche quando la pioggia si prende gioco di occhiali e ricci.

Perché io non amo Venezia. O, almeno, non solo.
Io vorrei essere Venezia. Nel bene e nel male.

Articolo sponsorizzato da me e per me.

Della serie "qua ci si fa pubblicità spudoratamente".
E, del resto, se non me la faccio qua, sulle mie paginette, dove mai dovrei farla?

"I Racconti di Jane Pancrazia", la mia adorata creativa e geniale attività, da qualche tempo a questa parte va a braccetto con Francesca e la sua Festa della Cicogna.

Francesca è una Baby Planner che organizza Baby Shower in tutta la Toscana.
Cos'è un Baby Shower?

"Si tratta di una festa che viene realizzata per la nascita o l'adozione di ogni bimbo che entra a far parte di una nuova famiglia. Così la futura mamma o le amiche organizzano un
party di buon augurio pieno di colori e divertimento durante il quale la mamma si lascia coccolare da tutti e si aprono i tradizionali regali per il bebè.
La Baby Planner si occupa di tutto: dalla Location, alla realizzazione e personalizzazione degli inviti, come per l'allestimento e il catering. Senza scordare la famosa "Diaper Cake",
la torta di pannolini, il Baby Bouquet,i giochi,le foto ricordo,
la musica...tutto ciò che si vuole può essere aggiunto!"

Proprio tutto. Anche un racconto scritto ed illustrato appositamente per l'occasione. Per esempio.

Per ulteriori Informazioni potete contattare direttamente Francesca Gottardo:
-Mail: festacicogna@gmail.com
-Tel.: 3334539867
-Facebook: http://www.facebook.com/festa.dellacicogna"


(I più affezionati tra i miei lettori avranno già letto la prima e la seconda parte di questo racconto.
Parti che però, nel frattempo, ho modificato.
Ora che, finalmente, ho raggiunto la versione finale della storia ho deciso di ripubblicarla tutta: dall'inizio alla fine.
Buona lettura.)

Tore saliva le scale portando con sé il pesante fardello della sconfitta.
Era successo anche oggi. Succedeva ogni giorno.
"Sei troppo piccolo", gli dicevano. E, con questa scusa, non lo facevano mai giocare a calcio con loro. O, peggio ancora, lo mettevano in porta. Così. Solo per fare numero. Come si fa con le femmine o con gli imbranati che non hanno i piedi buoni.
Ma lui i piedi buoni ce li aveva. Ce li aveva, eccome.
Tore era bravo. Sapeva di esserlo. Se lo sentiva fin nella punta degli alluci. Se lo sognava pure la notte, con gli occhi aperti e con gli occhi chiusi.
Ciò che gli serviva era solo la possibilità di giocare. Almeno una volta. La possibilità di volare sul campo, dribblare panchine e lampioni, e colpire il pallone così forte da farlo incastrare nella cancellata rossa della scuola.

Mentre trascinava delusione e sogni ad occhi aperti, Tore passò accanto a Mimmo “Lo Stanco”, ma non lo vide.
Mimmo trascorreva tutti i giorni sul ballatoio. Stava sempre seduto sulla stessa sedia. D'inverno con dei vecchi pantaloni di fustagno, un maglione grigio consumato sui gomiti ed un paio di scarponcini da montagna. D'estate con dei pantaloncini azzurri, una canotta bianca e delle ciabatte di plastica.
Mimmo stava sempre là. Nessuno l’aveva mai visto senza quella seggiola attaccata al sedere.
Il professor Peppe, detto il filosofo, diceva che era come un centauro con il busto da uomo e le zampe da sedia. La mamma di Mimmo invece diceva che no, suo figlio era nato con due gambe e due braccia come tutti gli altri, ma era solo un poco pigro. Un poco pigro ma tanto buono.
Mimmo aveva quarant’anni, o forse cinquanta, o anche sessanta. Non lavorava. Non studiava. Non beveva. E non fumava. Non faceva niente. Guardava la gente passare. E ogni tanto parlava.

Quel giorno parlò.

"Ti devi portare il pallone", disse alla schiena curva e afflitta di Tore.
“Che?”
"Ti devi portare il pallone ai giardinetti. Se ti porti il pallone ti devono far giocare per forza"
"Ma io non ce l'ho"

Mimmo aprì la bocca. Poi la richiuse. Poi l’aprì. E poi la richiuse. Non se l’aspettava mica una cosa così. Non lo sapeva che al mondo ci stavano bambini senza pallone.
Che terra infelice gli era toccata!

Mimmo infilò l’unghia del mignolino destro nell’orecchio. Si grattò la nuca.
Sbadigliò. Tossì. Starnutì. Ruttò. E scorreggiò.
Chiuse gli occhi e li riaprì. Si sporse in avanti.
Fece scricchiolare le ginocchia.
E.
Si alzò.

I pantaloncini sudati fecero “sguisccc”. Tore spalancò la bocca. La gatta orba e nera dei vicini scappò. La zoccola del quarto piano smise di fare il lavoretto al maresciallo. La maestra Giannetta macchiò il foglio d’inchiostro. Tutto il palazzo si fermò. Il mondo intero si fermò.

Mimmo sparì nella cucina che puzzava di broccoli. E dopo un attimo ne uscì con una vecchia palla di cuoio.
La teneva in equilibrio sul palmo della mano. Una mano enorme. La mano di Dio.
La palla era grigia, vecchia e consumata. Bellissima.
"Ore ce l'hai", disse Mimmo.


Dall’altra parte del cortile, nel bagno verde a rombi, Rosetta era impegnata a scalare uno sgabello ballerino.
Questo ondeggiava a destra e poi a sinistra. A sinistra e poi a destra. Avanti e poi indietro. Indietro e poi avanti. Un due tre. Un due tre. Un due tre.
Quando la danza a tre gambe finalmente si concluse, la bambina riuscì a guardarsi allo specchio. Si guardò e due grandi lacrime le rotolarono lungo le guance finendo a terra.
“Splash”, fecero.
Erano lacrime gonfie e pesanti.

“Così sembro un maschio”, si lamentò Rosetta.
“Domani ti porto a fare i buchi alle orecchie” le disse la madre spazzando via i capelli dal pavimento.
Erano stati vivi e felici. Ora erano solo un tappeto morto sotto il lavandino. Un sorcio svenuto. Una marmotta defunta. Che fine indegna era toccata Loro!

“Da grande mi farò crescere i capelli fino a terra”, si ribellò Rosetta.
“Da grande farai come ti pare. Ora però scendi da lì e vai ai giardini che, a forza di stare in casa, ti stai facendo gialla come una cinese”
“Non ci voglio andare ai giardini. Non conosco nessuno”
“E non conoscerai mai nessuno se non esci”
“Ma mamma…”
“Fila a divertirti, sciò!”

Rosetta sospirò e scivolò giù dallo sgabello. Il danzatore a tre gambe riprese ad ondeggiare. Avanti e indietro. Indietro e avanti. Un due tre. Un due tre. Un due tre.
La rumba si concluse senza incidenti e la bambina si trascinò fuori casa.
Lungo il ballatoio incontrò la testa di una bambola. Non una bambola intera ma solo la testa. Una capoccia piena di lunghi boccoli biondi. Una capoccia abbandonata tra un trattore di plastica ed un vecchio peluche puzzolente.
Rosetta guardò la bambola. L’occhio destro della bambola guardò Rosetta. Quello sinistro no.
La bambina ebbe un’ispirazione. Tirò indietro il piede e poi lo lasciò scattare in avanti come una molla.
Impatto. Colpo d’interno destro. Stadio in delirio.

La testa della bambola, dopo una parabola perfetta al di sopra del cortile, atterrò ai piedi di Mimmo.
Lui guardò Rosetta e poi guardò la capoccia color paglia. L’occhio destro ricambiò lo sguardo. Quello sinistro no.
“Anche quella bambina nuova avrebbe bisogno di un pallone“, disse Mimmo.

Tore lo ascoltò ma non capì.
Non era ancora giunto il tempo.
E con il pallone di cuoio stretto tra le braccia corse felice verso i giardini.

“Ho la palla”, urlò una volta raggiunto il campetto senza erba.
“Ho la palla”, ripeté portandola in trionfo come una coppa. La coppa del mondo.

Ai bambini più grandi venne l’acquolina in bocca. Un pallone così bello non l’avevano mai visto. Era uno di quelli di cui aver rispetto. Uno di quelli che usano i grandi. Uno di quelli con cui si può vincere tutto, ogni sfida ed ogni paura.
“Giochiamo”, disse Nico il Ripetente, “ma le squadre le faccio io. Tu starai con lo Storto e col Corto. Io col Pennacchione, l’Armadio e la Bestia”
Da una parte presero posto i giganti.
Dall’altra. Gli altri.

“Ma così siamo tre contro quattro non è mica tanto giusto”, disse il Corto facendosi i conti sulle dita.
“E che è? Manco abbiamo cominciato e già trovate scuse?”
“No!” rispose Tore con gli alluci che gli prudevano dalla voglia di giocare.
Poi poggiò il pallone a terra e, finalmente, la sua partita ebbe inizio.


Mimmo, ancora in piedi, sciabattò lungo il ballatoio fino alla porta dei vicini e poi bussò.
Il professor Peppe andò ad aprire.
“Prendete il televisore e portatelo sotto. Questa sarà una grande serata”, disse lo Stanco.
Il Filosofo eseguì gli ordini senza fiatare, svelto svelto, e con un sorriso che gli andava da un orecchio all’altro. Tale era la fiducia nelle doti divinatorie del centauro, metà uomo e metà sedia.


Intanto Rosetta si era messa in fila ad aspettare il suo turno all'altalena. Stava là buona buona con gli occhi bassi, i riccetti corti e la voglia di tornarsene a casa.
Le altre bambine scherzavano e ridevano. Erano belle e simpatiche. Erano amiche. Avevano i capelli lunghi e sapevano qual era il loro posto. Il loro posto nel mondo. Tutti lo sapevano. Tutti tranne Rosetta. Lei non l’aveva mai saputo.
Poi, adesso, da quando aveva cambiato casa, di cose ne sapeva ancora meno del solito. Non sapeva dove stava l’oratorio. Non sapeva dove facevano la miglior granita di gelsi e panna del quartiere. Non sapeva quali erano i buoni e quali i cattivi. Sapeva che odiava i capelli corti. Sapeva tutte le tabelline tranne quella dell’8. Sapeva fare la ruota, anche se le veniva un poco storta.
E sapeva di avere i piedi buoni. Ecco, di quello era sicura. Gliel’aveva detto nonno Niria, buonanima. Ma di questo talento, però, non sapeva proprio che farsene.


Nel cortile vennero sistemate tante seggiole. Blu, rosse, di plastica, di paglia e persino una poltrona. La poltrona del professor Peppe, che soffriva d’emorroidi e voleva stare comodo per lo storico evento. Qualcuno portò del vino e qualcun altro spadellò una frittata di spaghetti per un esercito. Del resto questa era una battaglia. Una battaglia che non si poteva perdere. E quando Gino lo scemo si presentò con della birra tedesca venne preso a ceffoni e male parole.


Ai giardinetti ormai si era fatto buio ma Tore correva, correva senza stancarsi. Sapeva che non avrebbe vinto, gli altri era troppo forti e, soprattutto, troppo grossi ma non gli importava. Lui voleva solo giocare. E stava giocando. Finalmente.
Tore correva. Calciava. E pensava. Pensava che al mondo non poteva esserci niente di più bello che il calcio. Neanche le figurine. Neanche le macchinine. Neanche la granita. Neanche la granita al cioccolato. Neanche la granita al cioccolato con la panna. Niente.
Intanto il Corto sbagliò un passaggio. Un altro. E Tore pensò che meglio del calcio ci poteva essere solo una partita di calcio con un amico coi piedi buoni. Magari non quanto i suoi. Ma quasi.


Nel frattempo tutto il condominio si era sistemato davanti al televisore.
La gatta orba e nera dei vicini stava seduta in braccio alla zoccola del quarto piano. Il maresciallo teneva stretta la mano della moglie. La maestra Giannetta tratteneva la pipì per non perdersi neanche un minuto della partita. Tutto il palazzo si era fermato. Il mondo intero si era fermato.
Erano tutti seduti. Tutti seduti tranne Mimmo. Mimmo stava in piedi. Dritto come un fuso. Con gli occhi guardava la partita al Santiago Bernabeu. Ma col cuore seguiva quella al campetto dall’altra parte della strada.


Rosetta, intanto, stava ancora aspettando il suo turno all’altalena.
Le erano già passate avanti in tre.
"Forse non mi hanno vista", aveva pensato.
“Ora gli dico qualcosa”, si era convinta.
“Ma magari è meglio di no”, aveva deciso.

Quando finalmente toccò a lei, il pallone le rotolò fino sui piedi.
Tore si avvicinò per raccoglierlo. Poi pensò alla capoccia volante con i lunghi boccoli biondi. E capì.
 Era giunto finalmente il tempo.
"Ci serve un quarto. Vuoi giocare?", chiese a Rosetta.
"Sono una femmina", rispose lei.
“Lo so”
“Non voglio stare in porta”
“In porta ci sta lo Storto. Tu starai in attacco con me”
“Sono brava a fare i cross”
“Lo so”
E Rosetta corse ad occupare il proprio posto in campo.
Chissà come sarebbe stato contento nonno Niria, buonanima.


Mimmo sorrise.
E poi.
Infilò l’unghia del mignolino destro nell’orecchio. Si grattò la nuca. Sbadigliò. Tossì. Starnutì. Ruttò. E scorreggiò.
Chiuse gli occhi e li riaprì.
Si sporse in avanti.
Fece scricchiolare le ginocchia.
E.
Si rimise seduto.


Rosetta crossò.
Tore segnò.

Tardelli. Pure.

Lo stadio esplose. Il condominio urlò. Rosetta fece la ruota.
Le venne storta come al solito. Gli altri bambini risero. Anche Tore. Ma poi allungò la mano e l’aiutò ad alzarsi.
"La maggior parte della gente gioca felice alla giostra della discarica: risparmia e si sacrifica per comprare cose che poi butta via, risparmia e si sacrifica per comprarne altre."
"Second Hand", Michael Zadoorian.
Edizioni Marcos y Marcos.

Vivo palleggiandomi tra Torino ed i monti del Trentino Alto Adige.
Amo la buona tavola, il buon vino e la buona birra.
Insomma, non per vantarmi, ma io con l’argomento di cui sto per parlarvi ci casco proprio a fagiolo.
Quindi, per una volta, datemi retta e non ve ne pentirete.

Oggi, 25 ottobre 2012, ha aperto a Torino il Salone del Gusto.
Non ci siete mai stati? E avete fatto molto male!
Perché il Salone del Gusto è un appuntamento da non perdere. Un’importante rassegna dei produttori agroalimentari provenienti da tutto il mondo. Un’esibizione del buono e del sano. Uno spettacolo per gli occhi e, soprattutto, per le papille. Una celebrazione del saper vivere e dei suoi più goduriosi piaceri.

E quest’anno, tra tutto questo ben di Dio, è presente anche una Signora.
Una Signora nata nel 1857. Una Signora che, però, non è stata ancora minimamente scalfita dai segni del tempo.

Non ci credete? È la Birra Forst. Il celebre incanto di luppolo e malto prodotto in Alto Adige. Una delizia che, oltretutto, è anche membro dello Slow Food. Grazie al gusto inconfondibile, gli ingredienti di prima qualità, ed il minimo impatto ambientale nella produzione.

Da oggi fino al 29 ottobre, presso lo stand Forst, sarà possibile degustare questa birra, e scoprirne i molti lussuriosi abbinamenti con alcune delizie come il formaggio, il cioccolato e lo speck.
Non ditemi che tutto questo non vi ha fatto venire un po’ di curiosità, acquolina e tantaaa sete?
Bene, sappiate allora che la birra altoatesina mette a disposizione 300 inviti per accedere gratuitamente al Salone del Gusto.
Come fare? Avete tempo fino al 28 ottobre per collegarvi al sito ufficiale del concorso e caricare una vostra foto mentre vi gustate una fresca Forst. Non siate timidi! Esibitevi e liberate la vostra inventiva. Fatemi essere orgogliosa di voi!
Gli scatti migliori saranno pubblicati sulla pagina ufficiale di Facebook e i più fortunati vinceranno due biglietti d'ingresso per il Salone del Gusto.

Ma non è mica finita qui!
No??? No!!!
La Forst, oltre ad essere una gran Signora, è anche molto buona! In tutti i sensi! E quest’anno ha deciso di sommergere di regali i propri consumatori. Infatti, tutti coloro che acquisteranno un prodotto presso lo stand del salone potranno partecipare al concorso "St[r]appa e vinci", e quindi avere la possibilità di portarsi a casa bellissimi premi.

Cosa state aspettando?
Correte a gustare e vincere!

Ma mi raccomando non dimenticate: "Bevi Responsabile".
Rosetta si guardò allo specchio e tirò su col naso.
Due lacrime le rotolarono lungo le guance e finirono a terra con un sonoro splash.
Erano lacrime molto pesanti.

“Così stai più fresca”, le disse la madre scopando via i capelli dal pavimento.
“Sembro un maschio”
“Domani ti porto a fare i buchi alle orecchie”
“Da grande mi farò crescere i capelli fino a terra”
“Da grande farai come ti pare. Ma ora vai ai giardini che, a forza di stare in casa, ti stai facendo gialla come una cinese”
“Non ci voglio andare ai giardini”
“Vai e non fare la solita musona!”

Rosetta si trascinò fuori casa a testa bassa. Era un poco triste e un poco arrabbiata. Forse più triste che arrabbiata. O forse no.
Sul ballatoio incontrò la testa di una bambola. Non una bambola intera ma solo la testa. Una capoccia piena di lunghi boccoli biondi.
Rosetta guardò la bambola. L’occhio destro della bambola guardò Rosetta. Quello sinistro no.

Rosetta tirò indietro il piede e poi lo lasciò andare in avanti come una molla.
Impatto. Colpo d’interno destro. Lo stadio in delirio.
La testa della bambola, alzata a campanile al di sopra del cortile, atterrò ai piedi di Mimmo.

Lui guardò Rosetta e poi guardò la capoccia color paglia. L’occhio destro ricambiò lo sguardo. Quello sinistro no.
“Anche quella bambina avrebbe bisogno di un pallone“

Tore sentì ma non capì.
Non ancora.
E con il pallone di cuoio stretto tra le braccia corse verso i giardini.

Continua...
Tore saliva le scale portando con sé il pesante fardello della sconfitta.
Era successo anche oggi. Succedeva ogni giorno.
"Sei troppo piccolo", gli dicevano. E, con questa scusa, non lo facevano mai giocare a calcio con loro. O, peggio ancora, lo mettevano in porta. Così. Solo per fare numero. Come si fa con le femmine o con gli imbranati che non hanno i piedi buoni.
Ma lui i piedi buoni ce li aveva. Ce li aveva, eccome.
Tore era bravo. Sapeva di esserlo. Se lo sentiva fin nella punta degli alluci. Se lo sognava pure la notte, con gli occhi aperti e con gli occhi chiusi.
Ciò che gli serviva era solo la possibilità di giocare. Almeno una volta. La possibilità di volare sul campo, dribblare panchine e lampioni, e colpire il pallone così forte da farlo incastrare nella cancellata rossa della scuola.

Trascinando delusione e sogni ad occhi aperti, Tore passò accanto a Mimmo “Lo Stanco”, ma non lo vide.
Mimmo trascorreva tutti i giorni sul ballatoio. Stava sempre seduto sulla stessa sedia. D'inverno con dei vecchi pantaloni di fustagno, un maglione grigio consumato sui gomiti ed un paio di scarponcini da montagna. D'estate con dei pantaloncini azzurri, una canotta bianca e delle ciabatte di plastica.
Mimmo stava sempre là. Nessuno l’aveva mai visto senza quella seggiola attaccata al sedere.
Il professor Peppe, detto il filosofo, diceva che era come un centauro con il busto da uomo e le zampe da sedia. La mamma di Mimmo invece diceva che no, suo figlio era nato con due gambe e due braccia come tutti gli altri, ma era solo un poco pigro. Un poco pigro ma tanto buono.
Mimmo aveva quarant'anni, o forse cinquanta, o anche sessanta. Non lavorava. Non studiava. Non beveva. E non fumava. Non faceva niente. Guardava la gente passare. E ogni tanto parlava.

Quel giorno parlò.

"Ti devi portare il pallone", disse alla schiena curva e afflitta di Tore.
“Che?”
"Ti devi portare il pallone ai giardinetti. Se ti porti il pallone ti devono fare giocare per forza"
"Ma io non ce l'ho"

Mimmo aprì la bocca. E la richiuse. Poi l’aprì e poi la richiuse. Non se l’aspettava mica una risposta così. Non lo sapeva che al mondo ci stavano bambini senza pallone.
Che terra infelice!

Mimmo infilò l’unghia del mignolino destro nell’orecchio. Si grattò la nuca. Sbadigliò. Tossì. Starnutì. Ruttò. E scorreggiò.
Chiuse gli occhi e gli riaprì.
Si sporse in avanti.
Fece scricchiolare le ginocchia.
E.
Si alzò.

I pantaloncini sudati fecero "sguisccc". Tore spalancò la bocca. La gatta orba e nera dei vicini scappò. La zoccola del quarto piano smise di fare il lavoretto al maresciallo. La maestra Giannetta macchiò il foglio d’inchiostro. Tutto il palazzo si fermò. Il mondo intero si fermò.

Mimmo sparì nella cucina che puzzava di broccoli. E dopo un attimo ne uscì con una vecchia palla di cuoio.
La teneva in equilibrio sul palmo della mano. Una mano enorme. La mano di Dio.
La palla era grigia, vecchia e consumata. Bellissima.

"Ora ce l'hai"

Continua...
Ve la ricordate la storia della pozza? Come quale? Questa.
Mi ci sto ricrogiolando. Ancora. Che volete che vi dica? Mi piace!

Io amo poco i concorsi ma vado pazza per le collaborazioni, i giochi e le sfide. Ed è per questo motivo che oggi, dalla mia pozza rigorosamente riscaldata, vi voglio parlare di un concorso organizzato da Isbn Edizioni.
Io ne sono venuta a conoscenza grazie all'informatissima Tazzina. Bookblogger torinese che, tra l'altro, ho avuto il piacere di conoscere qualche settimana fa. Non ve ne ho ancora parlato? Ve ne parlerò.

Ma la smetto di cincischiare e vado al sodo.
La casa editrice Isbn, in onore del libro "Daniel contro l’Uragano" di Shane Jones, sfida i lettori a creare la propria favola di amore e follia.
Il romanzo di Jones racconta, infatti, la vicenda di un uomo diviso tra ossessione e passione.
La vicenda di un uomo, della sua discesa verso la pazzia, e della donna che cerca in ogni modo di salvarlo.

Avete/abbiamo tempo di inventare la nostra storia di amore e di follia fino al 15 novembre.
L'ambientazione, lo stile e, persino, il modo sono completamente liberi. 

Ma qual è la parte più bella ed originale di questa iniziativa?  
Qual è il motivo che mi fa sguazzare nella celeberrima pozza?
Ciò che mi entusiasma maggiormente è il fatto che si possa partecipare al concorso con un classico racconto, ma anche con un fumetto, delle illustrazioni, delle fotografie o persino un video.  

A voi una cosa così non fa venire uno sfrigolio di creatività? Non fa prudere i polpastrelli? Non rallegra le sinapsi?
A me sì. E molto.

Che state/stiamo aspettando? Giochiamo, creiamo, raccontiamo. 
I mezzi a disposizione sono tanti: approfittatene! Approfittiamone!

Ah, dimenticavo, per i vincitori sono previsti ricchi (ma sobri) premi e cotillon.

Per sapere tutto e di più circa questa iniziativa date un'occhiata al blog di Isbn.
Jane: "Mi è arrivata una risposta"
Ciccio: "Negativa o positiva?"
Jane: "Negativa. Molto negativa."
Ciccio: "Quelli sono degli incompetenti: non capiscono niente!"
Jane: "Ma certo che capiscono: è il loro lavoro!"
Ciccio: "Pensa a tutti gli autori famosi che hanno faticato a trovare un editore: Svevo, Jane Austen e pure Camilleri. Questo significherà qualcosa, o no?"
Jane: "Non li dimentico, ma essere rifiutati non è mica un marchio di qualità. Anche Moccia ha fatto molta fatica ad essere pubblicato. Questo significherà qualcosa, o no?"
Ciccio: "Non ti avvilire e concentrati sui riscontri positivi che hai ricevuto finora"
Jane: "Ci provo ma non è facile, quelli negativi fanno più rumore"
Ciccio: "Sì, ti capisco, è come quando alle riunioni ci sono 10 condomini a mio favore e solo 2 contro. Quei 2 mi rovinano la serata.(*)"
Jane: "..."
Ciccio: "?"
Jane: "Secondo me a Svevo un paragone così non gliel'ha mai fatto nessuno."
Ciccio: "Anche secondo me. Poverino."


(*) Ciccio, tra le sue millemilioni di attività, annovera anche quella di amministratore di condominio.
Tra il monte più alto e la stella più luminosa vive un sentimento troppo leggero per posarsi a terra.
Ma troppo pesante per raggiungere il cielo.

La mia passione per la lettura è cosa nota. Ed è una passione che affonda le proprie radici nell'infanzia.
(Sì, era già stata inventata la stampa. Fate poco gli spiritosi!)

Tutti noi siamo cresciuti con i libri per ragazzi, dai grandi classici alle collane più moderne. Quelle storie ci hanno fatto appassionare, rappresentando un vero e proprio trampolino di lancio verso le meraviglie della letteratura a 360 gradi.

La letteratura per ragazzi è quindi un vero e proprio patrimonio da preservare. Ed è per questo che oggi, con grande piacere, vi parlo di un'ottima casa editrice napoletana dall'evocativo nome: L'Isola dei Ragazzi. Queste edizioni si caratterizzano per il grande spazio offerto ai temi del sociale, della legalità e dell'ecologia. Tematiche per cui non si è mai troppo giovani. Anzi!

L'anno scorso ha visto la luce Naturalmente Viola, una nuova collana pensata appositamente per gli adolescenti. Una collana che ha come protagonista Viola Desideri, ragazzina che non si separa mai dal suo quadernetto azzurro su cui disegna meravigliosi alberi.
Ragazzina che, tra l'altro, si è fatta subito molto amare dai giovani lettori italiani che, infatti, la seguono numerosi sulla sua pagina Facebook.
(Che se ce li avessi io metà dei suoi fan probabilmente mi sarei già montata la testa e dovreste tutti chiamarmi "Lady Pancrazia")

Il primo volume della serie era stato La festa di Halloween seguito adesso, a distanza di un anno, da Una gita fantastica.
In questo secondo libro la protagonista affronta le prime delusioni sentimentali
(altrimenti che adolescente sarebbe?),
la nascita di un nuovo amore
(e mi sembra giusto!),
e impara a prendere a cuore i problemi della natura e le lotte per la sua salvaguardia.

Avete capito cosa stanno facendo quelli de L'Isola dei Ragazzi? Cercano di avvicinare i giovani all'ecologia senza mettersi in cattedra, ma trasmettendo genuina passione e divertimento.  


A me questa idea piace. E piace anche un bel po'!


Sono fortunata perché so cosa vuol dire alzarsi la mattina con l'unico obiettivo di arrivare a sera.
Sono fortunata perché ora mi alzo e gli obiettivi sono tanti. Ma mai troppi.
Sono fortunata perché ho scoperto ciò che può rendermi felice per un secondo o per un giorno, anche quando altri motivi per essere felice non ce ne sono.
Sono fortunata perché posso raccontare il mondo fuori e quello dentro di me in ogni momento. Non mi serve un computer. Non mi serve neanche una penna. Basto io.
Sono fortunata perché spesso trovo qualcuno che si ferma ad ascoltare questi miei racconti.
Sono fortunata perché, solo se hai vissuto veramente la mancanza di passione e di stimoli, puoi apprezzare il dono della voglia di fare e la smania di creare.
Sono fortunata perché ho scoperto la mia passione tardi. Ma non troppo tardi.

Oggi mi sento fortunata.
Ho scritto questo post perché voglio fermare questa sensazione.
Ho scritto questo post perché già domani potrebbero tornare i dubbi e le paure.
Ho scritto questo post perché ho convissuto a lungo con il buio e questa è la mia piccola luce.


Io sono andata ad una gara di poesia orale, altrimenti detta poetry slam.

No, non che io abbia partecipato alla competizione. Ci mancherebbe altro!
A parte il fatto che non scrivo poesie ma poi, anche se facessero una gara di racconti, non credo che ce la farei a leggerli in pubblico. E non solo per timidezza ma proprio per manifesta incapacità.
L'agitazione peggiorerebbe, infatti, i miei già evidenti difetti di pronuncia. Lo confesso: parlo con la lingua in mezzo ai denti, e vanto una "s" particolarmente sibilante. Non che io sia Jovanotti, ma poco ci manca.

Ma torniamo al punto. Sono andata a vedere questo poetry slam perché mi ha invitata un mio amico blogger, un mio vecchio compagno di rete con cui già ci leggevamo reciprocamente ancora prima che voi nasceste. Il suo posto nella mia blogroll è storico ed inossidabile.
Ebbene sì, sto parlando di Daniele il Rockpoeta!

"Partecipo ad un torneo a Torino, vieni a vedermi?", mi ha scritto il poeta genovese.
Ed io non me lo sono fatto dire o scrivere due volte.

Ovviamente, mentre mi recavo all'appuntamento, sono stata colta dalle mie solite mille ansie da timida: "No, io mi vergogno, di che gli parlo?"
Ma una volta giunta al locale, come mi accade quasi sempre, la Dea dell'Incontinenza verbale mi ha posseduta. Da quel momento ho rintronato di chiacchiere il povero Daniele, e non solo.

Assistere al poetry slam è stato davvero fantastico.
Il livello dei partecipanti era molto alto. E la passione, che si respirava nel locale, inebriante.

Ho trascorso una serata in mezzo al talento e la creatività. Ho letto negli occhi di chi mi circondava la gioia di fare ciò che più si ama. Mi sono arricchita grazie al piacere dello scambio.

Anzi, sapete cosa vi dico? Nel caso facessero mai una gara del genere anche per la prosa mi ci butterei a pesce: al diavolo la lingua in mezzo ai denti e la "s" sibilante!

Questo torneo girerà per tutta Italia ancora per (almeno) un mese. Quindi, se volete partecipare come spettatori o come concorrenti, vi consiglio di dare un'occhiata al sito dell'Associazione Culturale Via De Poeti.
Al telefono.
Ciccio: "Ciao amore, com'è andata dalla pettinatrice?"
Jane: "Una catastrofe!"
Ciccio: "Addirittura?"
Jane: "Sì, quella strega mi ha tagliato i capelli troppo corti!"
Ciccio: "Quanto corti?"
Jane: "Sembro un marine!"
Ciccio: "Esagerata, non ci credo"
Jane: "Vabbè, magari un marine no"
Ciccio: "Ah, ecco, volevo ben dire"
Jane: "Ma un impiegato del catasto sì!"
Ciccio: "Eh?"
Jane: "Anzi no! Sembro mia zia! Oh cielo sembro mia zia Concetta!!!"


C'era una volta
la Regina Jane Pancrazia,
sovrana generosa che amava far visita ai propri sudditi,
portando con sé melodioso buonumore e luminosa beltà.

Un giorno la Regina decise, persino, di recarsi nell'antro della strega più vecchia e malvagia del regno.
"È perfida e puzzona", disse tra sé e sé, "ma non per questo devo evitarla o trattarla con minor considerazione rispetto al resto del popolo"

Fu così che la sovrana si mise in cammino. Sopportò l'ululato del vento ed il pianto del cielo. Calpestò mille strade fangose ed infine giunse nella grotta della Strega Taglio&Piega.
Questa, con lo sguardo malvagio e l'alito fetente, esibì il più falso dei sorrisi: "Mettetevi comoda, mia Regina," disse, "per ricambiare il grande onore che mi state facendo con la vostra sola presenza, vi regalerò una nuova acconciatura"
"Oh, come siete gentile!", rispose quell'innocente rimbambita della sovrana. Poi si accomodò e, vittima di un sortilegio, cadde immediatamente addormentata.

Impossibile capire quanto tempo passò: un minuto, una settimana o forse cent'anni. Fatto sta che, al risveglio, Jane Pancrazia si trovò sola e priva dei suoi preziosi ricci magici.

La Regina, da quel dì, vive nascosta nella torre più alta del Castello.
Versa copiose lacrime e aspetta che il maleficio della Strega Taglio&Piega faccia il suo tempo.
Solo così, un giorno, la sfortunata sovrana potrà tornare ad agitare la propria magica chioma ricciuta.  E tutto il regno a far festa e vivere sereno.

Fine.

...che questa bella canzone avesse anche un bel video.

(Articolo Sponsorizzato per RedBull)

La musica classica incontra la breakdance.
J.S. Bach fa volare i Flying Steps.
Passato e presente, classico e moderno, si fondono assieme nel piacere della sperimentazione e dello spettacolo.

Il Red Bull Flying Bach World Tour, per la prima volta, farà tappa anche in Italia: il 3 ottobre al Teatro della Pergola di Firenze , e il 6 e 7 ottobre al Teatro Carignano di Torino.

Torino. Toh, che interessante coincidenza!
E ne volete sapere un'altra? I Flying Steps, oltre ad essere quattro volte campioni del mondo di breakdance, sono anche berlinesi. Berlinesi.
Non c'è bisogno che io aggiunga altro, no?
Anzi, qualcosa lo aggiungo: un bel video esplicativo.

Cicciooooo c'hai da fare il 6 ottobre???


Viral video by ebuzzing

C'era una volta una splendida Regina.

Ella era bella assai, con capelli ricci di nuvola e lunghe ciglia di seta.
Ogni giorno camminava per il suo regno e si fermava a salutare tutti i sudditi: i bambini, i contadini, il maniscalco, la fornaia, ma anche gli animali come il rospo del grande stagno, la cicogna dalle unghie dipinte e persino la puzzola col musetto a punta.

Ogni giorno la sovrana camminava e parlava. Camminava, parlava e raccontava. Camminava, parlava e inventava storie sempre nuove, storie i cui protagonisti erano gli stessi abitanti del di lei felice regno.
Questi racconti però non avevano peso e, come nascevano, invece di finire sulle pagine di un libro, volavano su in cielo e presto scomparivano, senza lasciare traccia e memoria.

La Regina si crucciava, non sapeva come poter fare in mondo che i propri racconti trovassero una casa, un letto dove riposare, una dimora dove sostare.
Fu così che, per cercare una soluzione, decise di rivolgersi alla fata Numerilla. Questa l'accolse nel suo studiolo, racchiuso nel guscio di una noce, la fece accomodare sopra una poltrona dai mille cuscini e poi cercò una risposta dentro specchi magici, carte incantate e sfere di cristallo impolverate.

Alla fine si alzò in piedi e, agitando le ali dorate, disse:
"Da questo momento in poi, oh augusta maestà, le vostre storie brilleranno dentro volumi magici. Volumi nati per far sognare e divertire grandi e piccini."
Poi, dando un colpo di bacchetta recitò ad alta voce: "Firulì e firulà, la mia magia è questa qua. Firulà e Firulì la vostra partita I.V.A. eccola qui!"
Alla Regina vennero immediatamente 10 capelli d'argento ma anche una strana e contagiosa furia creativa.


Da quel giorno la sovrana scrive meravigliosi racconti su misura, li illustra con le sue manine, li fa rilegare dai folletti del bosco e consegnare ai destinatari dal postino del Regno, Uga la Tartaruga.
E, dall'altro ieri, l'instancabile Regina ha persino aperto una pagina Facebook. Questa qua.

Nell'attesa che si viva tutti felici e contenti, che ne dite di correre a visitarla?
Ciaf ciaf ciaf.

Sentite questo rumore?
Tranquilli, non è niente. Sono solo io che sguazzo nella mia pozza.
Io che, quando vengo a sapere di certe collaborazioni e progetti, mi sento contenta come una bimba a Natale e, metaforicamente ma non troppo, prendo a sguazzare felice come un ippopotamo nella propria pozza.
Mi rendo conto che l'immagine manchi di una certa poesia ma, secondo me, rende molto l'idea.

Ma qual è l'iniziativa che ha risvegliato in me tanta contentezza?  È quella di Giulio Mozzi, responsabile del blog Vibrisse, bollettino di scritture e letture.

A Giulio Mozzi è venuta un'idea deliziosa: un libro tutto fatto di ricordi d'infanzia.
Ma mica dei suoi. O meglio, non solo dei suoi. Ma anche dei vostri. Dei nostri.

Sono necessarie e sufficienti poche righe. Una scrittura semplice. Un episodio vero o verosimile, realmente avvenuto o frutto di un'antica e ormai inossidabile elaborazione.
L'obiettivo è quello di dare l'illusione che, cito direttamente da Mozzi, "questi ricordi siano di una sola persona dall’infanzia enorme, smisurata, infinita."

Ora lo capite perché sguazzo?
Vi buttate nella pozza insieme a me?
Io devo ancora scrivere il mio ricordo ma non credo che resisterò alla tentazione.

Accipicchia quanti siamo! Io sono la molestatrice sulla destra.

Spiegazioni più dettagliate del progetto le trovate direttamente qua. Per partecipare avete tempo fino al 30 settembre.

Ciaf ciaf ciaf.

"Dove credi di andare? Sei in mezzo al nulla"
"Allora mi aggrapperò al bordo di qualcosa" 
Driving lessons

Mattina, pomeriggio e sera.
A pasto e fuori pasto.
Tramezzini, panini, pizzette, patatine, cioccolatini, caramelle, torte, brioche, una coscia di pollo della sera prima, il riso freddo avanzato dal pranzo, la pizza gommosa della suocera.

Mangiava.
Mangiava tutto.
E più faceva schifo e più mangiava.
Si riempiva la pancia ma le papille non cantavano e lo stomaco non gorgheggiava.

Prima o poi sarebbe stato talmente grosso da non potersi più alzare.
E da quel momento la sua vita sarebbe stata finalmente perfetta.  Perfetta.
"Poverino, sta tanto male", "Deve avere una qualche disfunzione", "Chissà quanto soffre", avrebbero detto tutti.

Lui non avrebbe sofferto ma goduto.
Goduto del risultato ottenuto con tanto lavoro di mascelle.
Un alibi per non vivere. Per non dover affrontare la mediocrità dell'esistenza, la grandezza delle sconfitte, la quantità degli infiniti fallimenti.

Nessuno gli avrebbe chiesto più niente. Né il capo stronzo al lavoro. Né la sua algida moglie. Né la focosa amante. Né i figli e neanche il cane. Quella fastidiosa bestia che, ogni mattina all'alba ed ogni sera prima di coricarsi, lo aspettava davanti alla porta con il guinzaglio stretto in bocca e gli occhi colmi di amore ed aspettative.

Aspettative.
Lui non avrebbe più risposto a nessuna aspettativa.
Ma perché fermarsi allora?
Avrebbe continuato. Morso dopo morso, boccone dopo boccone, avrebbe masticato ed inghiottito, masticato ed inghiottito, masticato ed inghiottito, fino a sentire quel leggero scricchiolio delle ossa, fino a riconoscere l'estrema tensione della pelle, fino allo scoppio liberatorio e definitivo.
Non sono una grande fan dei Coldplay. Non lo sono mai stata.
Ma "Viva la vida" ha su di me un effetto calmante e quasi mistico.

Il testo, a prescindere dalle diverse interpretazioni che ne sono state date, racconta di un Re passato dal trono alla polvere. Niente di allegro, dunque.

Ma la musica sembra narrare un'altra storia. Una musica che ti culla ed eleva. Che ti purifica e sorregge.

A partire dagli archi io mi godo quattro minuti dentro una bolla.
Una bolla dove i fiori sbocciano, gli amanti si tengono per mano, i bambini giocano e l'acqua scorre.
Una bolla dove, da Regina senza Regno, sento le forze ritemprarsi e vedo il sole sorgere ancora da dietro le montagne.
Una bolla dove nulla può toccarmi, che venga da dentro o fuori di me.

Probabilmente è merito degli archi. Li amo. Li ho sempre amati. Si sentono con la pancia e non con le orecchie. Sorreggono il cuore e seducono il corpo.

Gli archi di Viva la Vida occupano tutto lo spazio circostante mentre io medito e rinasco.
Poi, finiti i 4 minuti, il labile confine con il resto del mondo si dissolve, io riapro gli occhi e riprendo il cammino.


"Baby, you are gonna miss that plane."
"I know."
Un blog porta ad un altro blog che porta ad un altro blog che porta ad un altro blog.
Una persona porta a un'altra persona che porta a un'altra persona che porta a un'altra persona.
Un pensiero porta a un altro pensiero che porta a un altro pensiero che porta a un altro pensiero.

La vita deve essere fatta di scambi, incontri e condivisione.
È con questo spirito che oggi vi propongo il cortometraggio "Motore!". Opera del regista catanese Alessandro Marinaro. Un film del 2010 che ha raccolto numerosi premi e consensi, primo fra tutti il successo a La 25 ora, il prestigioso concorso de La 7.

Una pellicola che tratta dei sogni e del sogno. In particolare del desiderio folle di darsi all'arte, addirittura al cinema! Una pazzia, una colpa, un imbarazzante peccato che possono permettersi solo quegli squilibrati che decidono di non svegliarsi mai.

Una dichiarazione d'amore al cinema, ai suoi maestri e al coraggio del sogno. Perché di coraggio si tratta.

Un film tutto siciliano, nell'idea, nella parola e nei luoghi, ma che finisce, involontariamente o meno, col raccontare una storia italiana e non solo.

Buona visione.

Chi conosce Berlino conosce il Tacheles.
La casa dell'arte che per più di vent'anni ha ospitato il lavoro, il sudore e la passione di artisti provenienti da tutto il mondo.
Il centro sociale sempre aperto a chi voleva esprimersi e a chi aveva solo voglia di curiosare. Ai turisti e agli appassionati. Ai berlinesi e a tutti gli altri.


Il Tacheles è stata un'istituzione della Berlino post muro. Testimonianza di una mentalità aperta alla creatività e all'espressione del proprio essere. Cuore pulsante di una città curiosa ed in continuo movimento.

L'altro ieri la Kunsthaus è stata ufficialmente chiusa. La Polizia ha mandato via tutti. Gli ultimi artisti hanno salutato lo spazio speciale, che per tanto tempo li aveva ospitati, con un'ultima rappresentazione: un'orazione funebre in onore di un posto unico che ormai non c'è più.

L'arte comunque non muore mai. E non smette di parlare alle coscienze ed alle anime. Le opere, le installazioni e le mani che le hanno create troveranno altri luoghi, a Berlino o chissà dove.

Ma questo mondo sarà un po' più triste, grigio e soprattutto noioso senza il Tacheles.
Siamo finalmente giunti all'ultimo appuntamento con le repliche del blog.

Se fossi una persona ed una blogger organizzata avrei programmato questi post con un certo ordine e significato, ma ovviamente non l'ho fatto. Ogni domenica ho scelto l'argomento da riproporre sull'onda dell'ispirazione del momento e del caso.

Però, arrivata all'ultimo episodio di questa rubrica, mi è preso un certo panico.
"Devo finire col botto", mi son detta.
"Devo cercare un post che rappresenti tutti e 5 gli anni di Radio Cole", ho insistito.
"Devo. Devo. Devo", mi sono tormentata.

E invece no. Non devo proprio niente.

Ed è con questo nuovo spirito, un poco più lieve rispetto ai miei standard, che alla fine ho deciso di accendere i riflettori sui microracconti. Mezzo espressivo che ho iniziato a sperimentare a partire del 14 giugno 2011.

Ve ne ripropongo uno per tutti:
"Lui non disse una parola e lei riempì la valigia.
Lui la guardò con occhi vuoti e lei gli voltò le spalle.

Lui perse l'ultima goccia di sangue e lei chiuse la porta."
Gli altri li potete leggere qua.
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